Tendenzialmente si è soliti dire che in una cena non si dovrebbe mai parlare di politica e religione, in quanto argomenti controversi che possono creare malumori tra il pubblico presente. Ecco, in Italia la situazione è più complessa: a queste tematiche andrebbero aggiunte infatti il calcio e il cibo. Pallone e forchetta sono in grado di far tremare le stanze, bloccare le strade, interrompere amicizie decennali e creare crepe in gruppi famigliari che mai avrebbero pensato di litigare. Il cibo infatti ha un legame viscerale con la cultura italiana, al punto che spesso e volentieri lungo lo Stivale siamo soliti parlare di cosa mangeremo a cena mentre siamo a pranzo, o dibattere dei nostri ristoranti preferiti mentre siamo al ristorante. Insomma, il cibo è una cosa seria per tanti motivi: è legato strettamente all’identità culturale geografica e ai ricordi. La storia d’Italia è per forza di cose sposata con il suo cibo, per questo motivo alcuni trend recenti stanno intaccando questo rapporto. Tra questi c’è il cosiddetto Food Porn, ed è ufficialmente il nemico della cucina tradizionale italiana, anzi della buona cucina. Perché il problema non è la tradizione, ma l’equilibrio. Anzi no, il problema non è il Food Porn, oramai presente da molti anni, ma il più recente Food Porn 2.0. Andiamo per gradi.
Puntare il dito contro i social media risulterebbe troppo facile, equivarrebbe a fare di tutta l’erba un fascio ed è sbagliato. Va capita la differenza tra i vari contenuti sul mondo culinario e non servono molte spiegazioni per comprendere quanto l’Italia e questa cultura siano unite. Parliamo di un Paese mediterraneo, dall’agricoltura florida e dai prodotti di prima qualità, con una cucina basata sulla semplicità, sull’uso di pochi ingredienti, buoni e ben equilibrati. Sicuramente i social media hanno aiutato a creare commistioni culturali, a rompere le barriere territoriali, andando a eliminare pian piano il concetto di cucina regionale, o quantomeno renderlo sempre più labile. Sia chiaro, questa è una cosa bellissima che i social network hanno creato: la diffusione di gemme locali della cultura culinaria a livello nazionalpopolare è qualcosa che accresce tutti noi, così come l’inserimento di influenze provenienti dalla cucina estera. Gli storici ricettari italiani sono infatti ricchi di influenze, essendo l’Italia un Paese crocevia del Mediterraneo. Quindi lunga vita alle commistioni, alle influenze e all’integrazione, lontani da ogni tradizionalismo in senso gretto e ossessivo. Questa precisazione è necessaria perché il proliferare del trend Food Porn non riguarda la cieca salvaguardia dei prodotti a marchio DOP, ma la concezione che si ha del patrimonio gastronomico nostrano.
Il Food Porn non è nulla di nuovo: non nasce con i social media. Fu l’autrice, critica e giornalista Rosalind Coward nel suo libro del 1984 Female Desire a utilizzarlo per la prima volta con altri significati: si riferiva a foto di cibo estremamente glamour, presentato talmente bene da rappresentare un “simbolo di una partecipazione volontaria e piacevole nel servire gli altri”, aggiungendo come l’origine del cibo televisivo negli anni ’80 si focalizzasse su immagini irreali, senza valorizzare il processo di produzione, limitandosi a creare una sensazione di piacere fisico nello stesso modo in cui la pornografia suscita piacere sessuale, seppur si tratti di una produzione irrealistica. Ecco, il Food Porn a livello social è nato nel medesimo modo, mostrando cibo esteticamente bello, piacevole, simmetrico e artistico. Sacrosanto. Come spesso succede quando qualcosa diventa trend, questo non è più bastato. Il Food Porn si è evoluto passando da un concetto puramente estetico alla “esasperazione del tanto”: non basta più fare un panino bello, deve essere gigantesco, un bel croissant deve anche essere ripieno e ricoperto da una quantità sovrumana di creme e una pasta deve contenere almeno 15 ingredienti, in formati che potrebbero sfamare una scuola intera.
Non serve quindi molto per comprendere che ormai il concetto meramente estetico di Food Porn ha aggiunto un elemento quantitativo fondamentale, aggiunta imprescindibile per comprendere l’evoluzione che questo trend ha avuto in Italia. Lo Stivale negli ultimi 10 anni ha visto l’esplosione delle figure legate all’ambito culinario: chef, cuochi e food creators sono ormai celebrità al pari di attori e calciatori, che raggiungono la fama per la loro commistione di utilità e trasmissione culturale. Quest’ultima viene meno quando si entra nel mondo del Food Porn 2.0, focalizzato appunto sul magnatanto, alterando completamente il significato originale del termine. Pensiamo infatti a persone come Donato de Caprio, aka Con Mollica o Senza: nessuno mette in dubbio la qualità dei suoi prodotti, ma i contenuti che più fanno clamore sono quelli mastodontici, composti da filoni di pane enormi riempiti da 8 o 9 ingredienti con l’aggiunta di briciole di altri prodotti da forno. Tutto questo si integra perfettamente con un altro elemento che ormai presenzia ovunque: il pistacchio. “Il piatto più pistacchio di sempre: lasagne al pesto di pistacchi con l’aggiunta di crema al pistacchio, burrata al pistacchio e crumble di pistacchio” è ormai qualcosa che possiamo trovare facilmente online, cosa peraltro che vuole farci credere che Bronte ogni anno produca 2 milioni di tonnellate di pistacchi.
Dove sta quindi il problema? Cerchiamo di capirlo, riprendendo i vari punti. Il Food Porn 2.0 è un trend e, in quanto tale, altera il mercato: realtà come Golocious (non a caso lanciato dall’influencer @jana_italyfoodprn) promuovono un all you can eat di pasta, patate e provola, o smash burger a 7 strati. In un mondo contemporaneo in cui la diffusione sui social porta spesso alla differenza tra il successo e la chiusura, specie nel frenetico e dispendioso mercato milanese, la diffusione di una moda cambia il mercato e, conseguentemente, le abitudini di consumo. Per questo motivo, se attività commerciali e creator iniziano a seguire in massa il trend del Food Porn 2.0, del magnatanto, allora questo potrebbe diventare la norma, specie agli occhi di un pubblico internazionale di ultima generazione che rischia di associarlo in toto alla cucina italiana contemporanea.