Il Leoncavallo potrebbe chiudere, ma abbiamo ancora bisogno di spazi liberi

C’è solo una cosa che è peggio dell’essere rimasti ancorati agli anni ’90: il non considerarli nemmeno. 

Tutti conosciamo nella nostra vita dei quarantenni o cinquantenni – amici, genitori, zii, semplici passanti – che continuano ossessivamente a ripetere che era negli anni ’90 che c’era la vera musica, il vero hip hop, il vero rock, la vera techno: tutti. E mentre gli appassionati di anni ’80 sono mediamente un po’ più frivoli e benevolenti e aperti alla mediazione, chi è ossessionato dai ’90 invece di solito è rigidissimo: non ammette discussioni, zero, tutto ciò che c’era allora aveva un valore e tutto ciò che c’è oggi è merda. Partendo da questo assunto, ti tratta pure come un deficiente – o ignorante – se non sei d’accordo con lui (o con lei). Insopportabile, no?

Oh sì. Assolutamente insopportabile. Ed è proprio questo dogmatismo ormai polveroso e spesso pure un po’ patetico, conficcato in un’era come la nostra invece molto fluida e aperta, ad aver fatto parecchi danni: il più grosso di tutti è appunto aver reso antipatico un periodo che invece avrebbe molto da offrire, per capire come diavolo affrontare al meglio le geografie musicali, sociali e culturali contemporanee senza lasciarci le penne, la dignità, la salute psichica. Solo che si preferisce starne alla larga, dagli anni ’90, da certi discorsi. Sanno di vecchio. Sanno di stronzo. Sanno di dogmatico fuori tempo massimo, e fuori senso contemporaneo. Molto meglio e molto più divertente mostrare i muscoli nei commenti su Instagram, giocando a fare i duri&puri, ma facendolo proprio nei canali di ciò che in teoria si odia e si contesta.

Stando alla cronaca dei nostri giorni: la notizia che l’esistenza dello storico centro sociale milanese Leoncavallo – probabilmente il più famoso e iconico centro sociale in Italia – sia improvvisamente a rischio come non mai (dopo varie minacce di sfratto puramente formali e fittizie, il 10 dicembre pare che le cose possano prendere un’altra piega e uno sgombero forzato parta davvero) un tempo avrebbe provocato una levata di scudi collettiva, di quelle maledettamente rumorose: tolti quelli che i centri sociali li detestano e osteggiano a prescindere, tutti gli altri – ma veramente tutti – avrebbero fatto sentire la propria voce in difesa di uno spazio di libertà e di alternativa rispetto al mercato, rispetto all’industria.

Oggi, chi vuole essere alternativo rispetto al mercato? Chi vuole essere alternativo rispetto all’industria? A chi interessa davvero esserlo, pagandone il prezzo? In musica come nella moda come in mille altri campi oggi il sogno è semplicemente farcela, e non farcela alle proprie condizioni e in maniera indipendente, no, farcela e basta. La definizione “indie” un tempo indicava una scena musicale e dei valori ben precisi: valori settari, anche alteri, indicava la scelta di essere minoranza, di essere dei loser orgogliosi di esserlo. Oggi invece è solo un suono, anzi, è il nuovo suono del pop italiano, il suono-che-funziona, e in quanto tale è perseguito e riprodotto. Niente più di questo racconta quanto siano cambiate le cose. Il digitale e le piattaforme ci hanno dato talmente tanta libertà di scelta – o l’illusione di averla – che non sentiamo più l’urgenza di sfuggire per forza al circuito industriale della cultura e della comunicazione. Li diamo per scontati. Non sono più il nemico, li diamo per parte del paesaggio, e un qualcosa con cui è anche normale confrontarsi e magari pure andarci a letto – per essere più famosi, fare più numeri, essere più bravi e vincenti.

Eppure forse varrebbe la pena prendersi cinque minuti in più, e riflettere sul fatto che tutte le musiche black che nel ventesimo secolo hanno cambiato – in meglio – il nostro panorama musicale e i nostri ascolti (dal blues al rock – che sì, è una musica in origine nera – al jazz all’hip hop per finire con la techno), così come musiche bianche come il punk e l’elettronica più sperimentale, nascono come musiche fieramente e programmaticamente alternative. E tutte queste musiche per nascere, crescere, farsi forti e diventare interessanti hanno avuto bisogno di posti alternativi e spesso illegali, posti appunto completamente fuori da ogni circuito consolidato e mainstream, da ogni dinamica che mette i numeri al primo posto. Tutte. Nessuno esclusa. 

In Italia questa dinamica è ancora più netta, e decisiva. Perché l’Italia è un paese vecchio, lo sappiamo: vecchio anagraficamente, vecchio come mentalità, vecchio perché abbiamo un sistema politico-sociale sclerotizzato e in ostaggio di cinquantenni/sessantenni/settantenni che non vogliono mollare l’osso e lo rivendicano pure, come se fosse un fatto giusto e positivo. Basta guardarsi attorno per capire che è così. Ecco: proprio in un paese di questo tipo, degli spazi di libertà – a costo di essere illegali – sono assolutamente importanti. Sono il posto dove possono nascere nuove scintille: quelle che poi creano gusti, identità, socialità, novità, fatturato, professionalizzazione. 

Qualche volta per dare vita a queste scintille basta essere da soli e basta essere nella propria cameretta e avere un po’ di padronanza con software ed algoritmi, ok, ma le rivoluzioni e gli avanzamenti più profondi sono quasi sempre quelli collettivi: quelli dove ti vedi, dove ti parli, dove ti tocchi, dove ti unisci (così come la musica la vivi e la respiri davvero molto più ad un concerto con altre persone che da solo: ecco perché paghi 50, 100, 200 euro per andare ad un concerto dove vedi poco e senti peggio).

Negli anni ’90, i centri sociali sono stati tanti, e sono stati incredibilmente rilevanti nel dibattito culturale più avanzato. Sono stati degli snodi fondamentali nello sviluppare linguaggi, professionalità, carriere. Col nuovo millennio, invece, è iniziato un costante declino: sia numerico, che qualitativo. Le colpe, su questo, sono di tanti, da tutte le parti. Il discorso sarebbe lungo. Ma quasi tutte le cose belle che ci piacciono oggi e che oggi consideriamo valori a cui non rinunciare (una musica – che non sia più Baglioni e Venditti – contemporanea che parli di suono oltre che di melodia, la cultura fluida contro le imposizioni di genere e di casta sociale, l’uso consapevole e continuo della tecnologia, e l’elenco potrebbe continuare) sono state elaborate e incoraggiate prima di tutto nei centri sociali, tre decenni fa. In questa cosa so 90’s che sono i centri sociali.

E no, non è un caso. Non è un caso: ma non perché certe cose succedano solo nei posti “di sinistra” o nei posti dove si manda affanculo il capitalismo, non è quello il punto, ma perché queste cose in realtà succedono e si sprigionano prima di tutto nei posti che sono liberi, che sono espressione di una comunità, di un’idea, di un ideale; e non di una legge del piccolo commercio o di una mera ipotesi di guadagno costruita su business plan e sul social media management. Questa è la lezione fondamentale che dovremmo recuperare dagli anni ’90. Questo è il motivo per cui l’esperienza dei centri sociali anni ‘90 andrebbe studiata, protetta e salvaguardata, per poi rinnovarla e reimmaginarla nel duemila-venti-e-qualcosa.

Questo in Italia più che altrove. Basta guardare all’hip hop, la più viva e vincente cultura giovanile degli ultimi cinquant’anni: la cultura hip hop in Italia si è sviluppata in primis nei centri sociali. Solo loro all’inizio le hanno dato accoglienza e libertà di crescere ed esprimersi. Questa è una verità fattuale (e a chi è scettico, ricordiamo che il tanto amato e celebrato “SxM” dei Sangue Misto, architrave nella storia del rap italiano ancora oggi giustamente celebrato ed adorato, è legato a doppio filo coi contesti dei centri sociali: non fosse solo perché Sangue Misto era una costola dell’esperienza dell’Isola Posse All Star). E poi: quando il rap italiano era in crisi, nel passaggio fra i ’90 e l’inizio 2000, quando il mainstream pareva darlo per morto, ridicolo e inutile, sono stati i centri sociali e gli spazi occupati – anche a Milano, vedi le serate di Dj Harsh al Leoncavallo – a tenere in vita una scena, la scena vera, dando ospitalità, permettendo il (ri)crearsi di un pubblico non solo da web e da YouTube.

Fidatevi. Abbiamo bisogno di spazi liberi. Ora più che mai. Abbiamo bisogno di spazi dove il guadagno sia (anche) culturale, e non solo di rendita immobiliare. Abbiamo bisogno di spazi dove le idee vengano prima della massimizzazione dei profitti: per creare scene e movimenti che durino nel tempo e non siano delle mode effimere . Negli anni ’90 era chiaro a tutti, o almeno a molti. Oggi? Oggi, cerchi il successo – ma poi quando ci arrivi scopri che è (anche) una merda.