Il manto erboso migliore d’Italia

Ultimamente si è parlato abbastanza dell’Udinese per via delle prestazioni della squadra, che hanno portato il gruppo allenato da Andrea Sottil anche provvisoriamente in testa alla classifica di Serie A. Ma questo non è stato l’unico primato raggiunto dal club friulano nei mesi scorsi, visto che l’Udinese ha ottenuto dalla Lega Serie A il premio di Most Valuable Field dello scorso campionato. Un riconoscimento che ripaga gli investimenti fatti dalla società per rendere la Dacia Arena – il secondo impianto italiano di proprietà in ordine cronologico, dopo l’Allianz Stadium di Torino – uno stadio vivo sette giorni su sette e di altissimo livello, sia dal punto di vista delle prestazioni che da quello estetico. Non ha quindi nulla da invidiare ad altre famose strutture, nazionali ed europee. A tal proposito abbiamo deciso di parlarne con colui che è stato il vero artefice di questo successo, un giovane “groundsman” arrivato dall’Inghilterra per occuparsi dei campi dell’Udinese, Oliver Grice-Hewitt. Grice-Hewitt ci parla a pochi giorni di distanza dalla conquista di un altro prestigioso premio personale, il Ground Management Association award, riconoscimento annuale dell’organizzazione inglese leader mondiale nel settore del ground management riconosciuta anche dal National Governing Bodies of Sport.

Ciao Oliver, raccontaci qualcosa riguardo la tua passione e come questa ti ha portato a diventare Grounds Manager dell’Udinese.

Ho iniziato facendo dei lavori di giardinaggio nel mio paese natale che si trova nella Cumbria, una contea del nord dell’Inghilterra molto vicina alla Scozia. Essendo poi un grande tifoso del Manchester United ho iniziato ad immaginare di poter arrivare, un giorno, ad Old Trafford. Ho perciò frequentato un corso annuale di orticultura e successivamente degli studi specifici in Sports Turf Science and Management, durante i quali ho avuto l’opportunità di occuparmi di alcune strutture molto rinomate come il St Andrews Golf Club e l’All England Lawn Tennis and Croquet Club di Wimbledon, prima di fare la mia prima esperienza all’estero, a Rotterdam. In seguito ho lavorato anche per lo Stoke City e per il St George’s Park National Football Centre. Dopo tutto ciò Scott Tingley, l’Head Groundsman che aveva appena vinto il Championship Grounds Team of the Season award con il Watford, mi ha proposto di venire ad Udine. Inizialmente mi sarei dovuto occupare solamente dello stadio, grazie all’ausilio di un giardiniere proveniente dal Watford, e organizzando un sistema di rotazione con dei colleghi inglesi, con l’obiettivo di non farli soggiornare in Italia per più di tre mesi consecutivi, visto quanto è diventato complicato dopo la Brexit.

Oltre al fatto che il tuo lavoro è molto faticoso e richiede l’aiuto di altri giardinieri, soprattutto quando si è aggiunta la gestione del Centro Sportivo ‘Dino Bruseschi’, in Italia questo mestiere non è considerato un lavoro a tutti gli effetti ed è quasi sottovalutato.

Per quanto riguarda il mio lavoro, è assolutamente vero che in Italia può ritenersi sottovalutato, ma rispetto agli inizi sta iniziando a guadagnare il rispetto che merita, le persone che ho attorno a me si stanno rendendo conto di ciò faccio e ne stanno apprezzando i risultati. In questo momento noi siamo in sei giardinieri, ma abbiamo cinque campi da gestire, contando anche quelli riservati agli allenamenti. Inoltre, essere dipendente di un club, e avere degli obiettivi precisi mi porta a dover gestire il mio lavoro in maniera differente rispetto a chi lavora tramite contratti esterni, sopratutto perché devo anche tenere conto anche degli sforzi fatti dalla società.

L’Udinese riesce a garantirti le migliori condizioni per lavorare?

Si! Dopo i primi tre mesi di lavoro il club ha visto i frutti del mio lavoro e ha dunque deciso di investire una cifra considerevole per il rifacimento di due campi di allenamento e per l’acquisto di nuovi macchinari, dato che prima erano di proprietà dei privati che si occupavano dei campi. Sta facendo il possibile per crescere, e tutto questo è possibile perché l’Udinese è proprietaria delle strutture. Ma, come sappiamo, il fatto che molti club italiani non abbiano uno stadio di proprietà costituisce un problema per chi fa il mio lavoro, per questo motivo spesso non diventa un lavoro vero e proprio. Quando gli stadi sono di proprietà comunale, ad esempio, questi non vengono utilizzati per scopi esclusivamente sportivi e ricevono molti meno investimenti. Ovviamente in Inghilterra è diverso visto che tutte le squadre hanno uno stadio proprio e di conseguenza anche delle persone che lavorano per il club, per questo la mia professione lì è considerata diversamente.

Com’è stato per te arrivare davanti ad Atalanta e Juventus e vincere il Most Valuable Field? Quali altre squadre italiane secondo te stanno lavorando bene in tal senso?

Per me ha significato molto, Atalanta e Juventus hanno degli staff più numerosi e lavorano davvero bene. Il mio lavoro mi ha portato a fare molti sacrifici, come il lavorare il giorno di Natale. Sono soddisfatto perché, a differenza di altri club, prima dell’inizio del campionato 2021/2022 ho smantellato del tutto il prato che c’era prima e l’ho fatto ricrescere da zero, come si fa tradizionalmente in Inghilterra. Alcuni club preferiscono posizionare dei rotoli d’erba sul terreno, una soluzione più costosa ma anche molto meno rischiosa (questo è quello che accade a San Siro poco prima dell’inizio della stagione, visto che in estate si svolgono parecchi concerti). Penso che anche la Fiorentina potrebbe iniziare un percorso significativo, pare costruirà un nuovo centro sportivo. Diciamo che, se si muoverà qualcosa nel mio campo, è forse perché tanti proprietari di squadre di A oggi sono stranieri.

Che differenze hai trovato dal punto di vista del clima e come ti sei regolato di conseguenza nel tuo processo lavorativo?

In Italia ci sono temperature molto più alte rispetto all’Inghilterra, d’estate si arriva anche a 40 gradi e questa è una condizione inedita per me da affrontare, e l’ho imparata a gestire solo da quando sono qui. Più che alla cura dei campi o alla quantità di acqua da usare, è stato difficile abituarsi agli sbalzi di temperatura, che ad Udine sono più frequenti rispetto ad altre parti d’Italia. La variabilità del clima tra un posto e un altro mi costringe ad adattarmi e a scegliere il tipo di erba migliore per quello specifico luogo. Riguardo il processo lavorativo, a differenza di come molti possono immaginare, il periodo più duro inizia quando la stagione sportiva finisce, quando bisogna distruggere i campi e rifarli da capo e l’avere poco tempo a disposizione prima che ricomincino le attività, non permette che sorgano degli imprevisti. Poi mi devo occupare anche della semina, del taglio, della fertilizzazione, del cosiddetto grooming e della ventilazione, che avviene forando il terreno di gioco. In inverno invece si utilizzano quelle grosse lampade che si vedono spesso, quando c’è bisogno di luce. E poi ovviamente ogni stagione ha una storia a sé.

Pensi che grazie al tuo modo di lavorare potrà cambiare qualcosa nel calcio italiano?

Credo che ci vorrà del tempo, sono in Italia da appena un anno e mezzo. Però posso confessare che il 90% delle squadre che sono venute a giocare alla Dacia Arena la scorsa stagione, durante il riscaldamento si sono complimentate con me per come hanno trovato il terreno di gioco. Comunque sono convinto che debbano cambiare anche i rapporti che i club italiani hanno con gli altri lavoratori come gli steward e gli addetti alle pulizie, che non sono dipendenti delle società. Avere un prato di un certo tipo va oltre il discorso sui diversi stili di gioco tra Italia e Inghilterra, è anche una questione di sicurezza, credo che il mio ruolo sia importante per garantire che i giocatori subiscano meno infortuni, è un motivo per salvaguardarli.

Il tuo lavoro cambia a seconda delle richieste specifiche di un allenatore, ad esempio, riguardo all’altezza del prato? Ricordo che Arsène Wenger ne era veramente fissato ai tempi dell’Arsenal.

No, o almeno non lo è stato all’Udinese, né Gotti né Sottil mi hanno chiesto niente di insolito, anche perché sono consapevoli che esistono dei limiti entro cui il campo dev’essere tosato. Non è successo neanche in Inghilterra perché – considerando il rispetto che c’è verso il mio lavoro – non esiste la cultura di provare a contestarlo, come io non mi permetterei di dire ad un allenatore chi schierare e chi no. Per quanto riguarda l’Arsenal, credo che in riferimento al mio lavoro sia il top in assoluto. Se non altro per il lavoro svolto da Steve Braddock. E direi che il modo in cui venivano curati i campi dei Gunners ha influenzato il modo di giocare, veloce e palla a terra, di Wenger.

A proposito, quali sono i tuoi modelli professionali?

Steve Braddock è sicuramente un’icona, anche se non l’ho mai conosciuto. Con lui ha lavorato Scott Tingley, prima di andare al Watford e anche un mio vecchio capo ai tempi del St George’s Park National Football Centre. Poi direi Paul Burgess, storico giardiniere dell’Arsenal, che era così influente da aver collaborato alla realizzazione dell’Emirates Stadium. Burgess ha poi lavorato per anni al Real Madrid e il suo impatto in Spagna ha consentito un lento ma evidente processo di crescita generale di cui ha beneficiato tutto il Paese, riguardo questa disciplina. Lo stesso è successo anche in Francia e un giorno, chissà, magari accadrà anche in Italia.

Se è vero che ormai il livello dei campi da calcio in certi casi è migliorato sensibilmente, è anche vero che da qualche anno molti campi sono stati convertiti all’erba sintetica.

Fammi il nome di qualche top team che lo ha fatto! Posso comprendere che si faccia nelle serie inferiori per ragioni legate al loro mantenimento, ma trovami dei giocatori o degli allenatori che ti diranno di preferirli, e non solo per quanto riguarda il maggiore numero di infortuni che si verificano. Le partite di un certo livello si giocheranno sempre su campi in erba naturale. In molti stadi di NFL in cui si era passati all’erba artificiale, ad esempio, si sta già facendo il percorso inverso. C’è anche da dire che per prevenire gli infortuni è preferibile un buon campo di erba sintetica ad un pessimo campo in erba naturale, come quelli che vedo spesso anche in Serie B. Ma in futuro, ribadisco, mi sembra impossibile che possano prendere il sopravvento tranne in certi luoghi dove, a causa del freddo, mantenere un campo di erba naturale risulta molto difficile. Il cambio da erba naturale ad erba sintetica non è giustificabile neanche se si tratta di usufruire di bandi o di agevolazioni. In Inghilterra si continua a portare avanti una certa tradizione in tal senso, ed è la stessa Football Association che si occupa di incoraggiare e di promuovere la cultura degli stadi con erba naturale.

In certi casi, come quello del King Power Stadium di Leicester, il lavoro di un groundsman (John Ledwidge) diventa quasi un’opera d’arte.

Si, ma in Inghilterra non è più permesso per via delle regole della Premier League, e lo stesso vale per quelle UEFA. Ma il modo in cui Ledwidge realizza pattern geometrici sempre diversi resta incredibile, anche se ormai si potranno ammirare solamente in partite amichevoli.