Il nuovo approccio alla moda di Danilo Paura

Un’estetica anticipatrice di mode, una maniacale attenzione per la qualità dei materiali e una nuova consapevolezza formatasi durante il periodo di pandemia, sono alcuni degli ingredienti che compongo la magica ricetta di Danilo Paura. Calabrese di origini ma romagnolo di adozione, Paura è il creativo che per primo ha reinterpretato il concetto di street style, avvicinandolo alla raffinata estetica che eleva la sartorialità italiana.

Siamo stati ospiti a casa di Danilo e abbiamo avuto modo di entrare in contatto con il mondo di cui si nutre il designer. Fatto di arte, musica, design e sport, l’ambiente all’interno del quale è quotidianamente immerso Paura è frutto di un percorso iniziato nel settore retail di Riccione e sviluppatosi nel corso degli anni grazie a nuove conoscenze e a una continua analisi introspettiva. 

Le prime t-shirt che hanno introdotto “Paura di Danilo Paura” nella moda anni fa sono ora un lontano ricordo per un marchio che è stato capace di innovare rinnovandosi. Per comprendere meglio come è avvenuta questa evoluzione e parlare di progetti futuri – come quello imminente con Lavazza – gli abbiamo fatto qualche domanda.

Parlaci un po’ di te e delle tue esperienze nel mondo della moda prima di diventare designer.

Il primo approccio con l’ambiente della moda è stato attraverso il mondo del retail. Avevo circa 20 anni e, mentre studiavo Culture e Pratiche della Moda a Rimini, iniziai a lavorare da Bop Sport, un negozio di articoli sportivi che all’epoca si trovava a Riccione, all’incrocio tra Viale Dante e Viale Ceccarini. La riviera romagnola, Riccione nello specifico, era lo spot migliore per conoscere nuove persone: grazie alla rinomata nightlife arrivavano DJ di fama internazionale per suonare in mistiche discoteche come il Cocoricò, l’Echoes o il Pascià. Lavorando come buyer, inoltre, tutte queste PR potevo vivermele direttamente in negozio, i DJ passavano per comprare sneakers e io puntualmente mi mettevo a raccontare loro tutti i dettagli e le curiosità dietro le silhouette. Riassumendo, posso dire che la connessione tra la mia persona e l’abbigliamento è scaturita da questo mix di elementi.

Come è avvenuto invece il passaggio dal ruolo di buyer a quello di designer?

Ancora una volta la miccia che ha innescato il tutto è partita dai locali della Riviera. Parallelamente al lavoro e allo studio iniziai a vendere, un po’ per gioco, t-shirt e top verniciati dalla vestibilità over, fit per nulla in voga al tempo. Per accedere al Titilla (una tra le sale più importanti del Cocoricò in cui si suonava musica house, ndr) era necessario superare il door selector, al quale potevi far fronte esclusivamente sfoggiando outfit spettacolari. Io e i miei amici dell’università passavamo la selezione grazie ai capi che realizzavo io. Così, iniziai a rendermi conto che ciò che creavo poteva venir apprezzato e riconosciuto da qualcuno. Grazie a questo input, più simile a un vero e proprio boost di sicurezza, mi resi conto che potevo comunicare la mia visione attraverso la moda.

Tornando alle sneakers, hanno avuto un ruolo fondamentale nei tuoi primi anni di carriera quando lavoravi a Riccione. Raccontaci un po’ del tuo rapporto con loro oggi.

Sì, assolutamente. Sono sempre stato attratto dal mondo dalle scarpe e, più in generale, da quello delle sneakers. Credo che esista un forte legame tra le calzature e la personalità, l’identità di una persona si legge alle sue estremità, da ciò che ha in testa e ai piedi. Il colore, il taglio di capelli, l’utilizzo degli accessori e ovviamente la scarpa indossata, sono tutti fattori che, se ben interpretati, possono dirti molto di chi hai davanti. Ogni qualvolta che incontro qualcuno il mio sguardo cade inevitabilmente sempre sulla scarpa, non per giudicare, ma per mera curiosità.

Nightlife, pubbliche relazioni, sneakers, un pizzico di coraggio e tanta creatività ti hanno portato a fondare il tuo brand. Dare un nome a un progetto è sempre una delle parti più ardue perché sai che è una scelta (quasi) irreversibile. Hai scelto di utilizzare il tuo cognome, come ti è venuta questa idea?

Ammetto che ho sempre odiato il mio cognome. Mi definisco un creativo atipico, sembro molto estroverso ma in realtà sono l’esatto opposto, di conseguenza non avrei mai voluto esporre il mio cognome agli occhi di tutti. Da solo non sarei mai riuscito a fare questa scelta, devo ringraziare le persone che lavoravano insieme a me ai tempi, per merito loro sono riuscito a fare pace con un cognome che ho sempre ritenuto tanto pesante quanto fastidioso. Non prendendomi sul serio sono anche riuscito ad attribuire a “Paura di Danilo Paura” due significati: il primo, inteso come “Paura” disegnato da Danilo Paura e il secondo, più giocoso, inteso come “Terrore di Danilo Paura”. Oggi l’ho metabolizzato e mi fa quasi felice portarlo.

Il cognome entra in gioco anche nelle tue ultime collezioni, in cui mitologia greca e immaginario si fondono giocando con parole come Phobos.

Per sbloccarmi a livello creativo devo sempre trovare un collegamento tra le cose. È come se nel mio cervello ci fossero tantissimi puntini sparsi che iniziano a lavorare tra di loro solamente nel momento in cui una linea immaginaria li associa l’uno con l’altro. È la stessa cosa che è accaduta quando ho deciso di inserire la mitologia greca nelle mie creazioni. Non a caso provengo da un punto della Calabria che viene considerato proprio come la Magna Grecia per l’infinità di reperti e scavi ritrovati. Essendo considerato un personal brand, trovo necessario nutrire il mio marchio di storie e ispirazioni direttamente legate alle mie origini. (La connessione con la sua terra si evince anche dai Bronzi di Riace tatuati sul collo, ndr).

Portaci nel vivo di Paura. Qual è il prossimo passo che il brand compirà in ottica evolutiva? 

Il brand lo considero ancora agli inizi, sono in costante evoluzione e ogni cambiamento porta a un conseguente restart. La situazione che sto vivendo ora mi piace paragonarla al secondo tempo della mia carriera. Il covid è stato il giro di boa per me, mi ha dato la possibilità di vivere un anno riflessivo, seppur molto difficile. Ne sono uscito con una maggiore consapevolezza e maturità, caratteristiche che verranno tradotte anche nelle prossime collezioni.

L’esperienza del Covid e del lockdown è quindi stata la chiave di volta per il tuo percorso creativo?

La consapevolezza di cui ti parlavo mi ha portato a riflettere sul concetto di “tempo”, variabile che non avevo mai effettivamente considerato prima della quarantena, e che mi spaventava. Ritengo che la paura risieda nella mancanza di conoscenza, e l’unico modo che avevo per affrontare questo mio timore era mettermi alla prova. Ho così iniziato a calcolare qualsiasi cosa, dal tempo che impiegava la moca a far uscire il caffè, ai minuti passati sotto la doccia per seguire il metodo Wim Hof (allenamento che prevede l’alternanza di caldo e freddo durante la doccia, ndr). Come conseguenza ho iniziato a comprendere meglio quanto fosse importante ritagliarsi dei sani momenti per sé stessi, in maniera da poter staccare, e in seguito riprendere con maggiore energia la routine di tutti i giorni. La suddivisione temporale della quotidianità l’ho infine traslata al mio modus operandi. Prima di mettermi al lavoro su un nuovo progetto mi fermo a riflettere di più, per fare in modo che ciò che vado a realizzare sia un prodotto realmente utile. Lavoro e vita personale sono ora molto più equilibrati, non mi va più di fare cose solo perché vanno fatte.

Post pandemia abbiamo notato che anche nel pubblico c’è stato un cambio di rotta. L’approccio allo shopping è ora più regolato e consapevole. Le persone sono alla ricerca di un’etica dietro al prodotto che sia in grado di differenziarlo dal resto. L’hai notato anche tu con Paura?

Trovo fondamentale avere un’etica e dei valori. Con questi termini intendo possedere dei principi reali e nei quali si crede fermamente. Per Paura alcuni esempi possono essere la continuativa collaborazione con determinati laboratori, l’attenzione a non produrre eccessivi materiali di scarto o il mantenimento di un rapporto diretto con il cliente finale. Una t-shirt al giorno d’oggi non dice nulla al pubblico se dietro non ci sono dei sani principi.

Nato nel 2010, il tuo marchio può essere considerato uno tra i primi, in Italia e non solo, ad aver deciso di fondere un’estetica sartoriale a una visione più street. Da che cosa deriva questa scelta?

Come ti accennavo prima, è tutto partito per gioco con la vendita di t-shirt verniciate, nel tempo sono cresciuto e con me anche il brand, di conseguenza ho ritenuto essenziale alzare l’asticella sperimentando con cose più complesse. La mia missione era attribuire al Made in Italy i giusti attributi. Da sempre sinonimo di eleganza e pregio, ho voluto avvicinare questa etichetta al mio mondo, non rendendo formale lo streetwear ma viceversa. Ho così iniziato ad applicare vestibilità più over a pantaloni contraddistinti da codici stilistici più classici. Lo stesso metodo l’ho poi utilizzato per le giacche, riproponendole in una nuova ottica. Oltre alla voglia di mettermi in gioco e far evolvere il brand, l’intento è quello di permettere ai ragazzi di tutte le età di poter abbinare sneakers a capi moderni, prodotti con tessuti pregiati.

Hai parlato di streetwear, ricollegandoci a questa tematica, qual è la tua opinione riguardo la celebre frase pronunciata da Virgil Abloh: “Lo streetwear è morto”?

Pensiamola così, quali sono le caratteristiche chiave che ti permettono di identificare il genere streetwear oggi? Non ci sono più. La parola non riesce più a caricarsi dello stesso significato di cui poteva farsi forte in passato, la direzione dello streetwear oggi è la direzione di tutti. Se da domani ci vestissimo tutti in modo elegante, e indossare camicia, giacca e cravatta fosse abitudinario, l’aggettivo “elegante” perderebbe il suo potere descrittivo, combinandosi a quello che viene comunemente definito “normale”. Questo è quanto accaduto nell’ultimo ventennio, durante il quale abbiamo assistito al passaggio dello streetwear dalla nicchia all’armadio di tutti, privando la parola stessa del suo significato originale. Possiamo considerarlo morto in questo senso, è morta la parola, perché non identifica più una direzione o uno stile.

Provenendo da un background street, hai fatto delle partnership un elemento chiave per l’evoluzione del tuo marchio. Solitamente preferisci avere un approccio più distruttivo o lavorare sull’heritage del marchio con cui collabori?

L’atto di collaborare lo vedo come un qualcosa di estremamente inclusivo, per questo motivo ho sempre cercato di evitare collaborazioni che facessero crescere solamente me e i miei interessi. Il dialogo tra le storie di due brand può essere un processo costruttivo se ci si approccia a esso in maniera aperta, mettersi in discussione significa poter crescere a prescindere da tutto. È quello che ho cercato di applicare alla mia collaborazione con Lavazza (la partnership deve ancora uscire, ndr), brand che fa tutt’altro e che mi ha stimolato enormemente a trovare un percorso creativo che risultasse credibile per entrambe le parti. In un periodo di stallo come quello che stiamo passando, vivere questi “cortocircuiti creativi” fa solamente del bene alla mia creatività. Come ti accennavo prima, mi sono fatto guidare dalla necessità di realizzare un prodotto che potesse risultare funzionale e di qualità. In questo caso ho deciso di focalizzarmi su un set di comodi marsupi, uno nero e l’altro verde khaki, che potesse contenere all’interno delle pochette frigo pensate per mantenere fresco il nuovo caffè freddo pronto da bere di Lavazza.

Quest’ultima scelta collaborativa ha nuovamente confermato la tua preferenza nel lavorare con marchi italiani. 

C’è molta italianità in quello che faccio, ma è un qualcosa che proviene da me, non dai marchi con cui lavoro. Ho sempre visto la collaborazione come una sorta di esperimento, un modo per mettere il proprio pensiero e creatività al centro di una discussione, a favore di un progetto comune. Questo processo penso rappresenti l’italianità allo stato puro: vivere e comprendere l’ambiente che ci circonda è quello che ci differenzia dal resto del mondo. Il Made in Italy è un qualcosa che va ben oltre alla sola manifattura del prodotto. Può essere considerato Made in Italy un progetto pensato in Italia e assemblato da una macchina. Abbiamo la fortuna di vivere in un paese ricco di stimoli, più questi sono variegati, maggiore sarà il flusso di informazioni che viene elaborato in output unici.

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Antonio De Masi