La moda è un linguaggio attraverso cui si ha modo di esprimere il proprio senso estetico. In particolare, gli abiti ci danno la possibilità di veicolare un messaggio nei confronti degli altri: si tratta di una comunicazione di tipo corporeo, diretta a un’ampia platea di interlocutori e i cui contenuti dipendono fortemente dalla categoria sociale di appartenenza. Se parliamo, dunque, di espressione attraverso i vestiti in quanto mezzo rappresentativo e distintivo è impossibile non far riferimento alle subculture. Musica, linguaggio, ma soprattutto abbigliamento, hanno modellato il loro essere all’interno della società, dando vita a un’estetica ben definita.
Si punta alla riconoscibilità, all’acquisizione di uno status, che molto spesso comporta l’essere etichettati ed esclusi dal resto, ma questo a loro non interessa. E nell’Italia degli anni ’80, dove la Nazionale di calcio trionfa ai Mondiali, nasce il primo cinepanettone e Drive In diventa l’essenza italiana della comicità, tutto coincide con un immaginario ben preciso: quello della Milano da bere, dove a piazza San Babila apre il primo fast food e in Piazza Liberty il bar “Al Panino”, riuscendo così a conquistare il cuore degli adolescenti dell’epoca. Proprio i Paninari, che della riconoscibilità ne hanno fatto un punto di forza.
Vestire firmato è la loro ossessione e il Moncler il loro imperativo, stiamo parlando proprio di quella giacca lucida e colorata, emblema degli anni ’80, che ha sostituito tutto ciò che era precedente a questo. Perché per i Paninari non esistono piumini, esiste solo il Moncler. Se i giovani rampanti vengono conosciuti anche come galli è dovuto allo stemma del brand che sfoggiano sulla loro manica sinistra quasi come fosse un marchio di identificazione.
Da un villaggio di montagna vicino a Grenoble alla nuova generazione milanese, il piumino Moncler rappresenta l’accessorio distintivo di adolescenti il cui unico pensiero è quello di ritrovarsi davanti al bar di fiducia per ascoltare musica New Wave in sella alle loro moto. «A metà degli anni ‘80, al culmine del boom dei Paninari, Moncler vendeva circa 40.000 pezzi in tutto il mondo», raccontava qualche anno fa Remo Ruffini, presidente e amministratore delegato del brand al New York Times. «Di questi, 30.000 erano nell’area di Milano, quindi potremmo definirlo un autentico fenomeno milanese».
Ad oggi sono diversi i piumini Moncler a rimanere simbolo intramontabile del DNA paninaro, dalla silhouette d’impatto, trascendendo stagioni e tendenze, grazie anche al gallo in feltro sempre presente sulla manica, e alle tantissime colorazioni proposte.
Del resto, il moderno concetto di uniforme che dalla vita ordinaria si è ritagliato uno spazio nel sistema moda, non è poi così moderno. Le subculture, a partire anche e soprattutto dai Paninari, hanno sempre attribuito a dei semplici capi un’importanza personale che andasse a tracciare la loro riconoscibilità all’interno della società, ormai sempre più vasta.
Essenzialmente, le uniformi rappresentano una forma di identità solida rispetto a un presente in cui siamo vittime dei trend, sfuggenti e passeggeri, e in cui la fiducia cresce salda intorno all’idea di un guardaroba che presenta capi frequenti e identificabili.
Mentre il resto di noi è alla ricerca della versione che più ci rispecchia, i soggetti di questa storia, invece, rimangono ancorati alle loro conoscenze, saldi al loro stile personale che non si cura di spazio e tempo. Ora, questo aspetto interessa la moda in uno stato imprescindibile, ma ieri era riservato alle nicchie, a coloro che venivano definiti fuori dagli schemi e che grazie alla riconoscibilità, al capo sicuro, hanno gettato le basi della loro nascita.