Tra gap generazionali, politiche che ci escludono e un futuro sempre più incerto, non siamo poi così distanti dalla generazione di “sbandati” degli anni Settanta che ha dato inizio al movimento. Ecco cosa abbiamo imparato da loro senza rendercene conto.
C’è chi dice che il vero punk è morto, mentre ex protagonisti della scena (uno fra tutti, Giovanni Lindo Ferretti dei CCCP – Fedeli alla linea) ribattono che “è molto vivo”: noi crediamo che sia rimasto una bussola che orienta i giovani, soprattutto quelli della nostra generazione. Nell’era dei trend effimeri e dei social, oggi è più un’idea che una subcultura, e i suoi insegnamenti ci guidano anche se non ce ne rendiamo conto.
Storcerà il naso nel leggere queste affermazioni chi con punk identifica solo le folle sregolate dei concerti degli Stooges, le vetrine della giovane Vivienne Westwood o i versi dei Ramones. La verità è che non lo si può definire solo come un genere musicale, né men che meno come uno stile, come spesso facciamo. Il punk è molto di più.
Deriva il suo nome da un termine anglosassone poco noto, usato per descrivere oggetti di bassa qualità e, nel parlato, i teppisti. Legs McNeil, fondatore della storica rivista Punk Magazine nata nel 1975, è stato uno dei primi a fare della parola un vero e proprio manifesto: “Era tutto quello che volevamo essere: provocatori, irriverenti e fuori dagli schemi. Giovani delinquenti senza scopo, arrabbiati e divertenti. Non aveva nulla a che fare con la musica all’inizio, era solo un atteggiamento, un modo di vivere”.
Presto con questo termine si è cominciato a definire ciò che stava accadendo negli anni Settanta a New York: una generazione persa e senza punti di riferimento che ha smesso di aspettare di trovare il proprio spazio e l’ha creato da sé.
I leader erano gli outsider, giovani che non erano in grado di seguire le regole della società, in disaccordo con le scelte dei governi, indecisi su che direzione dare alle loro vite. Hanno costruito spazi, nuovi linguaggi, riviste e album fatti per quelli come loro. Ristoranti e bar di quartieri come il West Village si sono trasformati in luoghi di aggregazione in cui parlare, suonare, fare le ore piccole insieme. Indossavano le loro idee dipingendo slogan sui vestiti, che stracciavano e personalizzavano. Oltre alle parole, ripensavano i simboli, ne creavano di nuovi o li risemantizzavano (come nel caso delle svastiche).
È difficile dire chi sia stato il pioniere: forse Woody Guthrie, il cantastorie folk che ha ispirato Bob Dylan, ma c’è chi addirittura segna come inizio del movimento la versione di La Bamba di Ritchie Valens (1958). La tesi più popolare però indica come veri proto-punk i Velvet Underground, la storica band di Lou Reed nata nel 1967 con l’album The Velvet Underground & Nico.
Il loro progetto, un’espressione senza regole, nasceva dal puro desiderio di raccontarsi. Nessuno aveva la pretesa di cambiare il mondo né sapeva quello che stava facendo, e quella voglia di esprimersi senza preoccuparsi di farlo nel modo giusto ha fatto la storia. Il testimone l’hanno colto subito altri “sbandati” come loro: gli MC5, i Ramones, gli Stooges, i Television.
Nel giro di pochi anni, il movimento ha attraversato l’oceano fino ad arrivare a Londra, dove si è evoluto diventando a tutti gli effetti un trend. D’un tratto, per essere punk, bisognava vestirsi sfoggiando slogan e accessori improbabili, suonare senza spartiti, condividere vaghi ideali politici. C’è chi l’ha dato per morto allora, quando da movimento apolitico, anarchico e fondamentalmente aperto a tutti è diventato un club ristretto. Ma il rischio è quello di escludere protagonisti e innovatori che si sono identificati in quella filosofia pur arrivando anni dopo, come i Blondie, Joan Jett, o le Bikini Kill.
Basta questo breve riassunto della sua storia per rendersi conto che il punk in quanto idea sopravvive ovunque sia la voglia di esistere in un modo diverso, cambiare le regole e le carte in tavola. E, a discapito delle apparenze, oggi è più vivo che mai: in città senza più centri sociali, lo possiamo trovare nelle edicole, nei ritrovi spontanei, nelle manifestazioni. In chi si ostina a scrivere, a stampare, a dare vita a magazine con il solo obiettivo di raccontare quello che vede e quello che (ancora) non capisce.
Forse oggi è più punk prendere il microfono in mondovisione per urlare di fermare la guerra che non stampare una svastica su una linea di magliette. O ancora, fregarsene del marketing e lanciare un album nel pieno della notte. È punk rinunciare alla fashion week o presentare sempre meno abiti, in nome dell’amore per una moda che forse non venderà, ma almeno continuerà ad ispirare.
Ma la vera lezione del punk è che non serve sapere in che direzione andare per muoversi, non serve trovare un senso (o seguire un ordine) per esprimersi. E quindi possiamo tenere viva la sua fiamma tutti i giorni, anche senza fondare una band o un magazine: vivendo for the plot, mettendoci alla prova, abbandonando le strade che non fanno per noi. Passeggiando sul lato selvaggio, come ci hanno insegnato i grandi.