Il punto non è #freeshiva

Ieri il Tribunale di Milano ha condannato Shiva a sei anni e sei mesi di carcere per duplice tentato omicidio, detenzione e porto abusivo d’arma e ricettazione. Lo hanno deciso i giudici dell’ottava sezione penale del Tribunale di Milano, al termine del processo con rito abbreviato. I fatti li sappiamo ed è, forse, inutile ripeterli. Le riprese delle telecamere di sicurezza degli studi di Milano Ovest li abbiamo visti tutti. Ognuno ha formulato le proprie ipotesi ma, diciamocelo, era difficile immaginare che al rapper fosse riconosciuta la fattispecie di legittima difesa. Ieri, come già era accaduto il giorno dell’ arresto, si è diffuso online l’hashtag #freeshiva. Giustamente, molti fan del rapper hanno accolto questa notizia con dispiacere. È qui infatti che risiede la forza della musica, che ci permette di empatizzare con individui che non conosciamo personalmente e che tuttavia risultano a noi familiari. Dall’altra parte, come fossero due schieramenti contrapposti, in tanti si sono rallegrati del suo arresto, con atteggiamenti giustizialisti che farebbero invidia a Matteo Salvini. Andando oltre la dinamica fan vs hater, tipica dei social, è giusto interrogarsi sul clima che ruota attorno al rap italiano e su come sia giusto affrontare casi come quello di Shiva. Il rischio, se si evitano certe riflessioni scomode, è che negli hashtag si perda il contatto con la realtà e che la solidarietà diventi priva di significato.

In primo luogo sarebbe opportuno scindere le responsabilità dalle pene. In tanti si sono infatti concentrati sulla legittimità delle azioni che avrebbe commesso Shiva. Online sono comparsi diversi commenti che, in maniera nemmeno troppo sottile, si augurano un ampliamento della copertura della legittima difesa. Addirittura, qualcuno allude all’applicazione di un modello americano per quanto riguardo la libertà nell’utilizzo delle armi da fuoco. Ecco, io non credo questa sia una soluzione valida. Anzi, non credo nemmeno che questo debba essere parte del dibattito. L’ordinamento italiano non sbaglia ad essere restrittivo sulla legittima difesa e sulle armi da fuoco, bisogna dirlo chiaramente. Il problema del caso Shiva è la pena, non la responsabilità del fatto. Il carcere in Italia non funziona e l’istituzione carceraria, in generale, fa acqua da tutte le parti. In molti sottolineano i suoi limiti, la sua incapacità di assolvere al ruolo che la nostra società gli assegna. Si potrebbe dire infatti che questa non sia solo inutile, ma, per certi versi, dannosa per chi la vive e per chi ne è fuori. Lo vediamo tutti i giorni e lo possiamo leggere nei dati statistici. In Italia il numero di detenuti sale costantemente. Nel corso del 2023, la crescita del numero di persone adulte presenti in carcere è stata pari a 3.920 unità, in percentuale, del 7,0%. Il tasso di affollamento degli istituti ha raggiunto il 117,2%, calcolato sulla capienza ufficiale, e il 126,3% sul numero di posti effettivamente disponibili. Le carceri in Italia sono in molti casi vecchie, fatiscenti, senza servizi. Solo nel 2024 si sono suicidate 51 persone detenute, mai un numero così alto. Indipendentemente dalle condizioni pessime delle carceri in Italia è proprio il concetto di detenzione in sé ad essere fallimentare. Recludere le persone in una gabbia, escludendole dalla comunità, produce i risultati opposti a quelli che si vorrebbero ottenere. Il 70% delle persone che sono in carcere, uscite da lì, commettono un altro reato. Questo non avviene per la natura abietta delle persone, ma perché, in quel luogo, tanti individui finiscono per inserirsi in circuiti criminali più grandi di quelli da cui provengono. È ancor più scioccante leggere questi dati se si pensa che gli istituti penitenziari sono pieni di persone che lì non ci dovrebbero nemmeno essere. La maggior parte degli abitanti delle carceri sono infatti in attesa di giudizio (circa l’85% per cento), si stima che il 30% siano tossicodipendenti, mentre è certo che il 35% siano dentro per aver commesso reati contro il patrimonio e il 30% percento per reati connessi alla vendita di droga. 

La risposta alla domanda perché è giusto solidarizzare con Shiva non è quindi “perché non ha commesso il fatto” o “perché si trattava di legittima difesa”, ma perché è assurdo pensare che il carcere, nelle sue condizioni attuali, sia una soluzione, nel suo caso come in quello di tanti altri. Come la maggior parte dei detenuti, una volta condannato, sarebbe meglio che svolgesse pene alternative, avesse un supporto psicologico, fosse inserito in percorsi rieducativi.

Un secondo aspetto che andrebbe evidenziato riguarda il ruolo che il rap, inteso sia come cultura che, soprattutto, come industria, ricopre in queste vicende giudiziarie. Non è il primo caso, negli ultimi anni, in cui rapper sono protagonisti di fatti di cronaca. È un fenomeno evidentemente in crescita, una sorta di effetto collaterale con cui ogni scena rap internazionale ha dovuto confrontarsi ad un certo della propria storia. Noi ci siamo arrivati oggi. Il rap italiano è diventato, per fortuna, più popolare, sia in termini di ampiezza del pubblico sia per quanto riguarda il background di chi lo fa e di chi lo ascolta. Questo è un bene, ne siamo tutti contenti. È però una conseguenza inevitabile, per la natura stessa del rap, che dinamiche di strada, abbiano guadagnato un proprio spazio nella scena. Non si tratta di semplice omologazione a contesti lontani dall’Italia, sono meccanismi reali che avvengono quando nel rap game entrano soldi, e quindi potere. È così che i rapper, in competizione tra di loro e convinti di essere invincibili, iniziano conflitti i cui esiti possono essere incontrollati e dannosi per le vite dei protagonisti stessi. Dovremmo però interrogarci su chi alimenti queste dinamiche. C’è un sistema culturale e industriale legato al rap che spinge perché i rapper siano sempre più gangster. Le faide fanno fare clic, rendono i video virali e vendono i dischi. Non è il rap in quanto tale a spingere un ragazzo come Shiva a fare il gangster, siamo noi come pubblico che glielo chiediamo, l’industria discografica che ci accontenta, i media che ci ricamano sopra. Non si tratta di un dibattito solo italiano, riguarda, più nel complesso, il funzionamento dell’industria dell’intrattenimento contemporanea. “In un settore che si dedica spietatamente alla scoperta della novità più interessante, la cura paterna può essere inesistente. Le etichette discografiche spesso non si curano di questi rapper. Sanno che quando hanno finito, il prossimo rapper di SoundCloud o Instagram è dietro di loro”, scrive la giornalista del The Guardian Sirin Kale in un bellissimo articolo del 2020 sulle numerose morti avvenute nella scena rap in quell’anno. 

La vicenda di Shiva andrebbe quindi presa sul serio, come un campanello dall’allarme di problematiche più ampie. Sarebbe doveroso in questo contesto non chiedersi, subito, quando uscirà il suo prossimo disco, chi saranno i featuring e da quante tracce sarà composto. Ci sarebbe da chiedersi se è l’algoritmo che ci spinge ad essere così, o se siamo noi ad aver perso il contatto con la realtà. Sarebbe, invece, interessante che da fatti come questo nascessero dei cambiamenti nel nostro modo di ascoltare e vivere la musica.