Il robot selvaggio è un instant classic

Ci sono rari momenti al cinema in cui, durante la visione di un film, si percepisce di essere di fronte a un nuovo classico. È una sensazione insolita, che nasce prima nel cuore che nella mente. I classici, dopotutto, non devono necessariamente essere opere d’avanguardia; piuttosto possiedono un’anima da arte popolare, capace di toccare tutti simultaneamente. Nel mondo dell’animazione abbiamo avuto numerosi esempi: dai grandi classici Disney, diventati un vero e proprio marchio, all’innovazione della Pixar, fino ai capolavori dello Studio Ghibli.

Nel 2024, un nuovo titolo si è unito al gruppo: “Il robot selvaggio“.

Digitale ma con un’anima pittorica

Il robot selvaggio prima ancora che un successo cinematografico, è stato un caso editoriale importante. Tutto nasce dall’omonimo romanzo illustrato di Peter Brown, di cui esistono anche due seguiti. Seguiamo ROZ (abbreviazione di ROZZUM 7134), un’unità robotica che finisce per caso su un’isola deserta ma ricca di fauna. Qui, ROZ deve imparare a vivere in una famiglia disfunzionale composta da una piccola oca, Beccolustro, e una volpe, Fink, affrontando le sfide di un ecosistema selvaggio, la cui coesistenza è minacciata dal sistema a caste più vecchio del mondo: la catena alimentare.

Come si può vedere, la storia è molto semplice, caratteristica importante per poter arrivare a ogni fascia di pubblico. Ma è sul lato dell’animazione – mi raccomando, una tecnica e non un genere – che viene fatta tutta la differenza del mondo. Il regista Chris Sanders (già autore di Lilo & Stitch e Dragon Trainer) prende la lezione di “Arcane” e “Spider-Man: Un nuovo universo”, ovvero la necessità di smarcarsi da un piatto e anonimo uso del digitale, e la rielabora in base all’anima del racconto. Nessuna ricerca dell’ultra-cinetico. Niente contaminazione urban e hip-hop, scelte che mal si sarebbero sposate al contesto.

E allora serve tornare alle origini proprio di quel racconto. Animare digitalmente richiamando il mondo dell’illustrazione e della pittura. I personaggi de “Il robot selvaggio” sembrano portare con sé il ruvido della carta irrorata da colori e da acquerelli. E quando invece l’inquadratura si allarga, ecco spuntare sfondi che sembrano uscire da Monet e dai maestri dell’impressionismo. Un profluvio di colori, accompagnato da dolci movimenti di camera pronti però a diventare vorticosi quando necessario. È in questo straordinario impatto estetico che il film riesce a elevarsi, a riempire gli occhi ma soprattutto a trovare il cardine dell’emozione, quella pura, in grado di accompagnare adulti e bambini.

Un cambio di sensibilità

Un’altra caratteristica dei classici, in particolare quelli d’animazione, è quella di portare con sé un substrato di temi e nozioni sul mondo, sia sul piano sociale che valoriale. Col tempo, muta la sensibilità su determinati argomenti, e questo cambiamento porta alcuni film del passato a essere portatori di concetti desueti, a intraprendere battaglie che non ha più senso combattere, o addirittura a trascinarsi dietro messaggi oggi considerati negativi. In un periodo in cui tutto ha raggiunto una velocità estrema, il peggior dramma è trovarsi di fronte a opere che non vogliono assumersi il rischio di esporsi per paura di cadere in un’obsolescenza tematica.

Ma anche in questo caso, Chris Sanders decide di non nascondersi né risparmiarsi. Prende alcuni dei temi già presenti in “Lilo & Stitch”, “Dragon Trainer” e “I Croods” e si spinge oltre, senza alcuna paura di scottarsi. In “Il robot selvaggio” si può trovare una critica all’apatia lavorativa e al rischio di burnout, riflessioni non banali sulle capacità di apprendimento delle intelligenze artificiali, sulla difficoltà di essere genitori, sull’accettazione delle famiglie non convenzionali. Viene rappresentata la costante presenza della morte nella nostra società e, infine, un approccio nuovo – almeno nelle storie per ragazzi – nei confronti dell’abilismo. Basterebbe confrontare il film di Sanders con un altro classico come Nemo per percepire il cambiamento di sensibilità avvenuto negli ultimi vent’anni, un processo in cui falliscono politici e intellettuali, reso così semplice, comprensibile e appagante da un film per ragazzi. Anche solo questo varrebbe a “Il robot selvaggio” l’appellativo di instant classic.