I capelli rosso fuoco, le lentiggini sul naso, un’allure fascinosa e magnetica da grande diva anni ’50. Pare appartenere a un altro tempo, quello ad esempio del Grande Gatsby. A primo impatto, Serena de Ferrari dà l’impressione di aver accumulato molto vissuto per la sua giovane età. Un contrasto tra l’età dell’innocenza e una profondità che si affaccia vertiginosa sull’alterità dei sentimenti e delle emozioni. Insomma, non è una persona scontata e neppure ingenua. Quando mi hanno proposto di intervistarla, confesso che sono rimasto un po’ interdetto; in primis, perché solitamente sono abituato a ricevere le domande, non a farle, e poi perché mi sono chiesto sinceramente cosa potesse emergere da un confronto tra uno storico dell’arte, già vicino alla pensione, e una giovane attrice, il tutto nella cornice glamour di un set fotografico di moda nella quale non mi sento propriamente a mio agio, circondato da giovani pronti a mettere mano ai trucchi e al guardaroba per farti “diverso”. Mi sbagliavo, e di grosso. L’incontro con Serena è stata un’occasione preziosa di uscita dalla mia “comfort zone” e ne è scaturito un vivo flusso di coscienza in cui abbiamo toccato gli argomenti più disparati, dall’arte contemporanea (che, ahimè, detesta) alla musica classica, fino alla filosofia e alla psicoanalisi. Su queste basi mi sono trovato a mio agio, sia perché adoro le variazioni Goldberg e non solo, sia perché un pezzo della mia vita l’ha cambiato la filosofia, da Platone a Wittgenstein, sia perché in analisi ho scoperto il metodo di Jung. Il mondo di Serena è lieve e cupo allo stesso tempo, caotico e metodico.
Ci siamo incontrati in una delle sedi di Polimoda, situata all’interno dell’ex manifattura tabacchi della città, oggi divenuto uno dei luoghi più europei e sperimentali di Firenze. Qui si respira un’aria diversa, eppure sempre di rinascimento si tratta. Sono divertito dal caos creativo che anima il set: ci sono fotografi, truccatori, assistenti, la redazione di Outpump e un via vai eccitato. Serena è già famosa, eroina maudit della serie Mare Fuori. Si avvicina timidamente, me la presentano e ci fanno accomodare in una sala lì a fianco. Cominciamo a parlare, mi dice che è la seconda volta che viene a Firenze e che non conosce bene la città, ma che ha visitato gli Uffizi. Cominciamo a parlare di musica classica, ci troviamo abbastanza in sintonia su Wagner. Lei ama parlare di opera totale che impegna tutti i sensi e i linguaggi. Serena mi spiega che ha studiato a lungo al conservatorio, poggiando le dita perfino sul clavicembalo, per poi perfezionarsi in canto lirico a New York, prima di passare alla recitazione. Il suo talento multiforme mi colpisce, trovo le sue passioni così fuori dal tempo rispetto alla generazione di cui fa parte. «Da quando avevo 15 anni amo molto Bach e mi ha fatta piangere di gioia… nella Passione di San Matteo, l’aria del mezzosoprano mi fa piangere dall’emozione. Non comprendo come mai oggi la musica classica nella cultura di tutti i giorni non sia compresa dai miei coetanei. Le cose che ascolto oggi sono troppo semplici, forse non c’è un’abitudine ad ascoltare qualcosa di più elevato. Dicono che sia musica difficile, ma non è vero, manca solo l’educazione. Io non sono nata ascoltando Bach, Mozart o Frescobaldi, ma studiando e suonando si matura. Ho fatto 9 anni di pianoforte, studi sul classicismo, sul romanticismo. Procedendo con gli esercizi e lo studio ti rendi conto che sviluppi il tuo orecchio e impari a capire cosa ti piace». Ma non si tratta solo di orecchio e di consapevolezza, con la musica si aprono canali verso livelli di conoscenza più profondi dell’io. Qualcosa di superiore.
Passiamo a parlare di filosofia. Serena mi spiega che sta rileggendo Nietzsche: «in questi giorni sto rileggendo la Nascita della Tragedia, che parla proprio di come il filosofo abbia cercato, a scapito della sua salute mentale, di distaccarsi dalla razionalità, che è l’apollineo. Invece, quando ti distacchi dal razionale, arrivi a questi livelli di coscienza irrazionale che ti portano così ad un’arte superiore. Però non è per tutti». Questo processo è infatti spaventoso, faticoso, angosciante perché ti porta a vivere una dimensione sempre meno superficiale.
Si capisce che Serena ha un’attrazione per le parti più oscure e borderline della psiche umana. Le chiedo se questo sia solo un interesse artistico, oppure se siano aspetti della realtà umana che fanno parte anche della sua esistenza: «La verità – incalza Serena – è che questi aspetti non sono propri della psiche. Penso che l’uomo non nasca perverso, matto, con questi tratti così oscuri. Io mi riferisco soprattutto all’arte; a me interessa l’arte più enigmatica, pericolosa e meno scontata. Mi stimola di più. Per questo amo il cinema. Guardo solo film molto molto impegnativi, oppure commedie demenziali americane, non ho vie di mezzo. Voglio piangere o ridere. L’apollineo non lo conosco e non lo frequento molto. Ciò che mi stimola di più è il dionisiaco, che è più adrenalinico».
Mentre conversiamo, si avvicina più volte il team editoriale per ribadire il concept del servizio fotografico: il tema è la Sindrome di Stendhal, quello stesso disturbo psicosomatico divenuto celebre per l’episodio accaduto al grande autore de Il Rosso e il Nero e de La Certosa di Parma, proprio qui a Firenze, appena uscito dalla Basilica di Santa Croce, dove riposano i grandi, da Galileo a Foscolo, fino all’altissimo Michelangelo Buonarroti. Anche de Chirico è rimasto scioccato da piazza Santa Croce, si dice che qui abbia immaginato la pittura Metafisica. E de Chirico era affascinato da Nietzsche. Proseguiamo, senza minimamente seguire la scaletta dell’intervista, a parlare di arte, musica e cinema. David Lynch non può mancare nella lista delle sue preferenze. Blue Velvet? Twin Peaks? «Non sono riuscita a finirlo ma ho visto anche Inland Empire. È un film folle, bellissimo, senza alcun significato: sono mille immagini, incubi, situazioni diverse che parlano al tuo subconscio. Non sono riuscita a guardarlo per intero perché è sconcertante, perturbante ma non disturbante, va a toccare cose strane e resti senza capirne il senso. È un tipo di film che apprezzo, che mi piace. In fondo c’è un controsenso: dico che non mi piace l’arte contemporanea e poi guardo queste cose». Questa affermazione mi sconcerta non poco. «Vedrai che ti piace anche l’arte contemporanea – le ribatto -, se uno ha capito e apprezza le variazioni Goldberg di Bach non può non riuscire ad entrare nel contemporaneo». Si accende il dibattito. Serena comincia a interrogarsi sui suoi dubbi nei confronti dell’arte contemporanea: «Ti dirò una cosa blasfema, ma io non capisco l’artista che rende “questo o quello”, non importa cosa, arte». In realtà poi ci sono delle logiche culturali per le quali questo gesto, piuttosto che un altro, ha un suo significato. Lei controbatte «allora tutti i gesti sono arte?» Perché no, in fondo accade come con le note e i suoni. Cage ha insegnato che anche il rumore e il silenzio possono essere musica. «Allora è un discorso di gusto». Forse è più semplicemente un discorso di evoluzione, di sviluppo dei linguaggi. Il suo modo di capire i linguaggi artistici si è evoluto: è partita studiando dei punti su una pagina ed è arrivata ad apprezzare Bach e Wagner. Si apre una breccia, Serena non molla la presa ma non è rigida, è troppo intelligente e sensibile per frapporre pregiudizi e facili soluzioni ideologiche. «Insomma, Bach è stato il primo jazzista in fondo, il primo a usare il basso armonizzato. Poi pensa agli ultimi quartetti e trii di Beethoven: sono oltre il jazz».
Intanto prosegue il trucco e parrucco, ci incalzano per andare avanti sui temi dell’intervista ma sento che potremmo andare a braccio per ore. Ci perdiamo in altre peregrinazioni su Wagner e il concetto di opera d’arte totale, su Mahler, Schubert e Britten. Serena ha una conoscenza profonda della musica, ma non perde occasione per interrompere qua e là la conversazione per dibattere con la truccatrice. Sono divertito. Mi racconta del suo periodo a New York, di come agli inizi fosse andata a studiare alla St. Patrick Cathedral con un coro di duemila persone e un’enorme orchestra, suonando il Requiem di guerra di Britten. «Abbiamo sfondato tutto. Non so se mi ricapiterà mai nella vita qualcosa del genere, la cattedrale tremava tutta. Siamo un po’ deformati dall’ascoltare musica registrata, ma dal vivo è tutta un’altra cosa! È fatta di azzardi, imprecisioni, deviazioni… l’esecuzione è sempre anche improvvisazione».
Molti conoscono Serena come attrice, ma quello che colpisce di più è il suo percorso di formazione, come sia arrivata solo in un momento successivo alla recitazione. Avendo studiato a lungo musica e canto lirico, le chiedo quale sia per lei la differenza tra recitare e interpretare. «Non ho studiato in Italia. I metodi sono simili però effettivamente vedo una differenza: in Italia tutto è una maschera, facce ed espressione, gli americani non esagerano nulla, interpretano il personaggio con gli occhi. Ho studiato alla Strasberg a New York ed è stata un’esperienza devastante: ti fanno fare ore e ore di meditazione ed esercizi sensoriali. Il primo di questi è chiamato “la tazzina del caffè”: tu devi arrivare a credere di avere una tazzina da caffè in mano e devi passare ore a studiare le sensazioni che bere caffè da una tazzina ti dà. Se è di ceramica, di vetro, se c’è il latte, se è caldo o freddo. Devi sentirne l’odore. Diventa sempre più difficile, mentre altri esercizi diventano devastanti. Devi confrontarti con la morte, ad esempio. Io avevo 17 anni, ero piccola e vedevo colleghi e studenti che abbandonavano, non ci riuscivano. Non capivo. Dicevano di fare attenzione perché, una volta usciti, avremmo dovuto separarci da quello che facevamo all’interno. Quando ho finito il percorso, ho compreso. C’è un lavoro sul trauma, sulla sofferenza, sul malessere e sul disagio. Da lì ho cominciato ad avere attacchi di panico. Per loro non è un gioco, o solo recitare, ma è vivere. Tu andavi in giro a guardare le persone, imitavi lo zoppo. Era tutto un esercizio continuo, una prova a farti male per arrivare a sentire il dolore di quel personaggio e se non sei a posto con la tua testa questa cosa non la puoi fare. Io non avevo affrontato i miei demoni e questa è stata una cosa che mi ha turbato. In Italia, queste cose non le ho mai viste. Anzi, mi è capitato di parlare con dei coach di recitazione di queste esperienze e sentirmi dire che no, la recitazione non è questo, è divertirsi, è giocare».
Nella recitazione all’americana, si sa, si arriva spesso anche a un livello di trasformazione fisica e di stravolgimento del proprio corpo ai limiti del possibile: penso a De Niro in Toro Scatenato, film in cui prese più di 20 kg. Ma non si tratta solo di questo, c’è anche una parte molto importante legata alla psiche, all’intensità del coinvolgimento dell’attore nel calarsi nella parte. Molti di voi conosceranno Serena come Viola, una delle protagoniste della serie Mare Fuori, un personaggio realmente esistente che mi spiega aver conosciuto per lasciarsi ispirare. «Tutti i personaggi nostri sono veri. La “nostra” Viola in confronto è molto più romanzata, sensuale, quella vera era molto disturbante: ti fissava, si mangiava i capelli, si leccava, si annusava le dita e le metteva dentro le orecchie. Insomma, non era normale, socialmente parlando, stiamo parlando di una serial killer. Io ho cercato di essere più fredda e distaccata per esprimere questo disagio, questa malattia: perché lei non è una stronza, è malata. D’altronde non si può essere fedeli al 100%». Prosegue dicendo «quando studiavo recitazione, chiedevo spesso ai miei insegnanti – uno dei quali era stato allievo di Stanislavskij, Robert Hellermann, fortissimo – come fare per raggiungere questo grado di immedesimazione totale. Perché se devo interpretare una donna incinta o una che si fa di eroina, chiaramente non posso diventare né madre né eroinomane. È tutto un lavoro sul sensoriale. Non molto tempo fa ho fatto un provino per interpretare un’eroinomane e per fortuna non è andato bene perché proprio non ce la faccio più a fare certi ruoli: con la mia coach ho studiato loro, ho fatto un lavoro sul prurito che hanno, sul sonno, sul non mangiare, così da sentire anche io quella sensazione allo stomaco. Forse ho fatto anche troppo perché mi hanno detto che facevo paura, ma d’altronde io chiesi a quale stadio fosse della sua dipendenza e mi dissero che stava per morire, ovvero uno stato in cui un’eroinomane solitamente si caga addosso e non ha i denti, quindi io mi sono presentata truccata di conseguenza, ma il direttore casting mi disse che avrebbe preferito vedermi non truccata, più soft. Insomma, una cosa più ripulita, meno brutale, meno vera. Non a caso, anche in Mare Fuori sono state tagliate delle scene di Viola da bambina perché troppo crude. Rimane il fatto che secondo me Viola è stata una bella rivoluzione, perché un personaggio così nelle fiction italiane non l’ho mai visto». Si tratta di un discorso complesso, che interessa le qualità dell’attore, della regia e soprattutto della sceneggiatura. Ma tutto parte dall’introspezione, dal lavoro di studio dentro sé stessi, dalla ricerca spasmodica della verità e della capacità di restituire il vero allo spettatore: «io sono in terapia da tanti anni» mi confessa Serena «e ho letto tanti libri di psichiatria, anzi di psicodinamica, e lavoro molto sui sogni e sull’inconscio, sull’irrazionale. Quindi mi guardo Polański e Bergman e vedo che quelle persone che hanno superato il dionisiaco hanno questa visione, cioè una sensibilità superiore. L’inquilino del terzo piano lo descrive in maniera assurda, o anche Repulsione di Polański, che descrive la malattia con introspezione, rispetto e accuratezza incredibili. Come Bergman che con le sue descrizioni ti disturba perché è così tanto vero che diventa scomodo». Rifletto che il cinema a questo livello ha preso il posto dei grandi romanzieri dell’Ottocento, che sapevano entrare nelle dinamiche dell’interiorità umana, come Dostoevskij che intrattiene il lettore per settecento pagine. Passiamo a parlare di letteratura. Serena mi spiega che ha letto i classici, le piace molto D’Annunzio per la sua straordinaria capacità estetizzante, che con la sua sensualità cerca di toccare delle sfere che altri evitano di toccare, usando un linguaggio formale, quasi onomatopeico, attraverso la scelta di parole che restituiscano l’esperienza sensoriale del momento che viene descritto. Si capisce che c’è, in sottofondo, un discorso legato all’intensità. Prosegue Serena: «sono le immagini che ti restano impresse nel subconscio. Ora sto leggendo alcuni libri di Massimo Fagioli, che segue la mia stessa linea sui sogni. Scrive questi libri complessissimi, è come se abbandonasse la razionalità per un flusso di coscienza continuo, lo leggi e pensi di non aver capito nulla, poi invece vai a dormire e ti rendi conto di aver capito tutto. Ti attiva, ti lascia immagini forti e belle. Passo da un libro all’altro, mi concentro sul mondo dei sogni senza il filtro della razionalità. Pensa che tante persone non sognano neanche. È terribile: se non sogni è come se fossi morto».
A proposito di sogni, facciamo un salto indietro dove tutto è iniziato. A soli 16 anni Serena si trasferisce a New York. Da lì, il sogno comincia piano piano a prendere forma: «la verità è che quando sono arrivata a New York non stavo tanto bene di testa, ero completamente derealizzata. Sono arrivata lì e per me era una realtà totalmente diversa, folle, caotica. Ciò nonostante, non ero per niente affascinata perché ero distaccata dalla realtà. Zero. L’impatto è cominciato ad arrivare forse quando sono tornata in Italia e mi sono trovata davanti alla differenza. All’epoca ero molto apatica e anestetizzata dalla vita, poi ho cominciato ad amare l’arte di New York, ero sempre alla Metropolitan Opera House. Poi un giorno lì aprì un’esposizione che mi porterò sempre nel cuore: mixava “fashion and catholic imagination” – sulla quale ho fatto anche una tesina – e presentava una serie di vestiti ispirati ad opere antiche, con queste che venivano esposte vicino ai capi stessi. C’erano rivisitazioni delle vesti di provenienza vaticana, vestiti da suora con le giarrettiere e le tette di fuori, Madonne, abiti cardinalizi cortissimi: era una figata, era blasfema. Poi andavo spesso al Whitney, che era di arte moderna…» La interrompo per chiederle se avesse visto Pollock a New York, mi spiega che non le piace e che invece era stata molto colpita da una sezione particolare del MET: «al MET in realtà avevano ricreato delle stanze con un arredamento stile sette-ottocentesco ed era la mia parte preferita, facevo i giri sempre lì. Poi c’era una parte con tutti gli strumenti musicali. Ti sentivi di entrare in un’altra epoca. E poi anche una sezione con costumi di guerra antichi, oltre ovviamente tutte le esposizioni classiche». Da questo si capisce subito che il talento di Serena sarebbe stato orientato verso la recitazione per la naturale propensione di entrare e trasferirsi completamente in un’epoca passata, in una situazione storica e sociale diversa. Quello che mi colpisce di questa giovane artista è la capacità di spaziare nella complessità di argomenti che intimidirebbero molti suoi coetanei, ma anche molti adulti, unita alla totalitaria convinzione che connota alcune sue prese di posizione, come quella nei confronti dell’arte moderna e contemporanea: «a me un quadro di Monet non dice nulla, invece amo de Chirico. È stupendo per me». E si capisce, perché la sua è una linea più dionisiaca, un po’ malinconica, sempre perturbante. Mi confessa anche di essere molto interessata alla relazione che c’è tra l’antico e il contemporaneo, aggiungendo che per lei «Escher e Piranesi sono la stessa cosa». Ma cosa la spinge a fare una considerazione così forte? «È come se gli antichi avessero avuto questa visione del mondo futuro, una connessione che, in un certo senso, ritrovo tra l’arte antica e quella di oggi».
Tira fuori lo smartphone e mi mostra una foto sulla galleria immagini di un busto di Bach: «lo scorso anno ho frequentato per qualche mese la facoltà di Belle Arti, ma ero appunto molto presa da altro. Avevo fatto un paio di cose, studiavamo parecchio la tecnica, facevamo tantissimo disegno dal vivo con i modelli e poi ho iniziato con la scultura. Abbiamo fatto ritratti e io ne ho fatto uno di Bach, ovviamente». Come nella rappresentazione dell’Uroboro nietzschano, in cui il serpente mitico si morde la coda a rappresentare la struttura ciclica del tempo, si torna sempre all’inizio, alle origini, «alla passione che muove l’individuo verso il futuro, verso l’inedito, restando ancorato agli albori». Sorridiamo alla fine, entrambi più rilassati. Avremmo potuto continuare a lungo a parlare di arte. Adesso penso che la sua storia sia molto esemplare. Una ragazza che ha capito l’importanza del metodo, della preparazione, dell’esercitazione per arrivare a gestire anche l’irrazionale, la parte più indomita e oscura di noi tutti. Per essere ancora più veri e liberi.