Entrare a far parte dei libri di storia della moda o consolidarsi nella memoria collettiva, non è così semplice e nemmeno casuale, eppure Issey Miyake è senza dubbio una di quelle personalità che difficilmente verrà dimenticata. Visionario, creativamente puro e libero, anticipatore di tendenze e inventore di nuove tecniche di lavorazione: per quarant’anni il lavoro del designer giapponese è stato in costante evoluzione, tanto da aprire ancora oggi porte sempre nuove a rivoluzionari modi di concepire, creare e comprendere la moda.
Tra la fine degli anni ’70 e gli anni ’80, il panorama fashion occidentale fu scosso da un terremoto proveniente dall’oriente: Issey Miyake (primo fra tutti), Rei Kawakubo e Yohji Yamamoto approdarono nella capitale francese presentando al pubblico elitario e conservatore della Parigi di fine ‘900 un nuovo modo di fare moda, al limite del decoro e del “costume” del tempo. Questi tre stilisti, infatti, non si limitarono solamente a portare per la prima volta la cultura giapponese in Europa, creando un ponte tra due storie e stili di vita diametralmente opposti, ma decisero di decostruire e mettere in discussione il tradizionale concetto di bellezza europeo, facendo dell’asimmetria, delle imperfezioni, di tessuti stratificati e larghi e di forme astratte il loro punto di forza.
Nato a Hiroshima nel 1938, a soli sette anni il piccolo Issey assistette all’attacco nucleare della città da parte dell’esercito americano e, da quel momento, l’unico suo obiettivo fu quello di dare vita a qualcosa che potesse essere creato e mai distrutto, qualcosa che fosse fonte di gioia, bellezza e vita per l’umanità. Grazie a un processo creativo non convenzionale e un nuovo modo di pensare, poi, Miyake ricontestualizzò il tradizionale concetto di moda giapponese, combinando tecniche artigianali e innovazioni tecnologiche con un approccio rivoluzionario focalizzato sulla funzionalità, completamente libero dalle tendenze e soprattutto dal concetto di “genere”, tanto caro alla comunità della moda europea.
Nonostante la sua formazione all’Ecole de la Chambre Syndicale de la Couture Parisienne e i suoi anni da apprendista di Guy Laroche e Hubert de Givenchy, però, inizialmente anche il pubblico giapponese fece fatica a comprendere il lavoro del designer, tanto da paragonare i capi presentati nel 1970 a “sacchi per patate” a causa dell’uso di tessuti poveri e considerati troppo tradizionali rispetto al tanto apprezzato abbigliamento occidentale del tempo.
Inutile dire che anche alla sua prima presentazione ufficiale a Parigi nel 1973, il pubblico – questa volta europeo – rimase tanto confuso quanto scioccato da un approccio così rivoluzionario, improntato più all’originalità e alla creatività che alla commerciabilità dei suoi “oggetti da indossare”, delle sue “opere di moda” o “concetti in tessuto”: è impossibile rendere giustizia alle creazioni di Miyake con una sola definizione.
Oggi, a 82 anni, Miyake lascia in eredità un bagaglio di lavori senza eguali, fatto di una genialità autentica che è riuscita a conciliare, in infiniti modi differenti, moda, cultura e arte ma anche ingegneria, tecnologia e funzionalità. Ecco cinque esempi che esemplificano ed esaltano il genio di Issey Miyake.
Pleats Please: la rivoluzione del plissé
L’elemento più iconico, che ha reso il lavoro di Issey Miyake celebre e riconoscibile in tutto il mondo, è senza dubbio il plissé. Prima di Miyake, la tecnica di plissettatura del tessuto era già stata ampiamente utilizzata e rielaborata da numerosi designer (vedi Mariano Fortuny a inizio secolo), ma lo stilista giapponese riuscì ad andare oltre il semplice lato estetico, realizzando una vera e propria opera di ingegneria.
Nel 1993, Miyake introdusse al pubblico la sua nuova linea “Pleats Please”, caratterizzata da svariati capi di abbigliamento tutti realizzati tramite un nuovo processo di fabbricazione brevettato. Al contrario della tradizionale tecnica di plissettatura realizzata sul tessuto, gli indumenti di Miyake erano stati realizzati appositamente due/tre volte più grandi, per poi essere sottoposti agli “usuali” processi di fissaggio termico solamente una volta cuciti. Il risultato finale erano leggeri capi in poliestere sottilissimo dalla plissettatura indistruttibile, in grado di resistere a infiniti lavaggi, sollecitazioni o piegature.
In più, come dichiarato dallo stesso Miyake, tutte le pieghe erano “disegnate in modo che abbracciassero il corpo, nascondendo o sottolineandone determinati aspetti”. Oltre all’importanza e all’impatto che questo nuovo processo aveva avuto a livello tecnologico, infatti, dal punto di vista estetico “Pleats Please” è la perfetta rappresentazione della filosofia di Miyake. Movimento, energia, dinamismo, leggerezza: tutti questi elementi sono inglobati all’interno di ogni singola piccola piega realizzata a regola d’arte, dando vita a capi che si appoggiano fondendosi con il corpo di chi li indossa e trasportandolo in un’altra dimensione.
A-POC: A Piece of Clothing
Il tradizionale sistema di design europeo (non solo in ambito fashion) è da sempre basato sulla possibilità di trasformare una superficie piatta, come il tessuto, in forme tridimensionali grazie a linee curve e pinces. In Giappone, invece, questo stesso risultato finale viene classicamente raggiunto dall’unione di singoli pezzi rettangolari di tessuto: esempio perfetto è il kimono, il quale, se non indossato, risulta completamente piatto. Proprio questa diversa filosofia di concepire l’abbigliamento e le figure tridimensionali in generale, portò, nel 1998, alla presentazione di A-POC: A Piece of Clothing, un lungo tessuto tubolare in grado di racchiudere in sé un intero guardaroba.
Grazie a un unico filato e una macchina tessile programmata tramite un codice binario, Miyake e Dai Fujiwara furono in grado di realizzare un continuo (e potenzialmente infinito) tubo di tessuto la cui trama era composta da una ripetizione di cuciture che delineavano le forme di abiti, camicie e calzini. A questo punto, il cliente doveva solamente tagliare lungo le cuciture (realizzate in modo da non distruggere la struttura tubolare) per ottenere il capo finale. Ogni indumento, poi, era stato realizzato leggermente più grande in modo da essere ulteriormente personalizzato dall’utente, modificando per esempio le lunghezze delle maniche o la scollatura con un semplice taglio.
Durante la sfilata Primavera/Estate 1999, questa nuova invenzione di Miyake venne indossata contemporaneamente da decine di modelle, creando una catena di esseri umani legati tra loro attraverso un lunghissimo drappo rosso. Grazie ad A-POC, il consumatore finale diventava il designer ultimo dei propri capi, mentre la tecnica di sviluppo del tessuto permetteva di ridurre quasi a zero lo spreco di materiali.
Issey Miyake alle Olimpiadi del 1992
Nonostante i pochi successi a livello sportivo e il ruolo secondario nella politica mondiale, la Lituania si presentò ai Giochi Olimpici del ’92 con uno dei look più sorprendenti mai indossati da una nazionale sportiva ed esemplificava alla perfezione il punto di vista e la filosofia di Issey Miyake, incaricato di vestire la nazionale assente dai giochi da 64 anni.
Gli atleti lituani sfilarono nello stadio olimpico indossando una giacca bianca, sulla quale spiccava la bandiera del paese, e pantaloni argentati; il dettaglio unico era però costituito dalla costruzione plissé, che trasformava l’abito in un’opera di design mai vista prima. Nel caso delle divise della Lituania, infatti, il livello di complessità nella costruzione era ancora più elevato rispetto al “tradizionale” Pleats Please già visto in passerella poiché il collo poteva essere trasformato in un cappuccio grazie a una zip e perché la stampa tricolore, il nome del paese e gli anelli olimpici dovevano essere progettati per essere leggibili anche dopo la piegatura del tessuto.
Poco tempo dopo, come parte della collezione primavera/estate 1993, Issey Miyake decise di espandere questo progetto e disegnare anche le divise di altri paesi, utilizzando lo stesso stile della precedente e immaginando un’utopistica parata olimpica nella quale tutti i paesi sono uguali.
Il dolcevita di Steve Jobs
Nel 1981, in occasione del 35esimo anniversario dell’azienda, Sony affidò a Miyake l’incarico di disegnare una giacca personalizzata da aggiungere all’uniforme dello staff. Alcuni anni dopo, il fondatore di Apple Steve Jobs, in visita agli stabilimenti del marchio giapponese, rimase folgorato proprio da quella giacca-vest in nylon marrone con maniche staccabili: non solamente per il suo impatto estetico più professionale ma anche per il senso di appartenenza, unione e gruppo che donava ai dipendenti.
Per questo motivo tornato a Cupertino, Steve Jobs propose al team di Apple di realizzare, sempre insieme a Miyake, una loro personale divisa aziendale, in modo da rendere tutti uguali e parte della stessa famiglia. Una volta presentati i primi campioni, però, tutti si dimostrarono contrari all’idea (tanto da fischiare lo stesso Jobs sul palco), la quale non vide mai la luce.
A questo punto, però, Jobs non si fermò: fidandosi della sua stima nei confronti dello stilista, il fondatore di Apple decise di affidare a Miyake la creazione di una propria uniforme. Oltre alle New Balance 991 e ai classici 501 di Levi’s, Jobs optò per un tradizionale dolcevita nero a collo alto del designer giapponese (all’epoca in vendita a circa 175$), il quale a sua volta decise di spedirgliene circa un centinaio. Da quel momento, quasi tutte le apparizioni ufficiali di Steve Jobs sono state caratterizzate da questi capi, dando vita a un‘identità visiva scolpita nella memoria collettiva fashion e non.
Gli abiti origami
Al di là del suo grande interesse per le manipolazioni, gli esperimenti e la ricerca “tessile”, Miyake ha fatto della tecnologia e dell’applicazione di studi scientifici il suo punto forte. Oltre all’aspetto più poetico e delicato, infatti, Miyake ha sempre contato sul supporto di materie e studi molto distanti dal mondo fashion, in modo da apportare qualcosa di nuovo e mai pensato prima.
Un perfetto esempio di questo approccio multidisciplinare è il marchio “132.5“, lanciato nel 2010 dallo stesso Miyake con l’aiuto del ricercatore informatico Jun Mitani. Il significato del nome è esso stesso un’anticipazione di quelli che sono gli obiettivi del brand: l’1 è un riferimento all’utilizzo di un pezzo unico di tessuto, il 3 rappresenta le tre dimensioni geometriche, il 2 il tessuto che viene piegato in forma bidimensionale mentre il 5, infine, simboleggia il futuro, la scoperta di nuove dimensioni.
Infatti, unendo la tradizionale arte degli origami a sofisticati software matematici che permettono di modellare forme geometriche e oggetti tridimensionali, Miyake e Mitani realizzarono una serie di vestiti che, apparentemente piatti come fossero “fogli di tessuto“, erano in grado di assumere forme inaspettate. 10 elementi base di taglie differenti: una volta tolte le pieghe, dei semplici piccoli rettangoli si trasformavano in abiti, gonne, pantaloni ma anche zaini e accessori vari, rigenerando il rapporto tra corpo e vestiti, e dando un nuovo significato al binomio matematica e moda.