L’ultima conferma è arrivata qualche settimana fa dal report sulla moda del 2020 redatto da Lyst, che individua nel vintage uno dei temi chiave, capace di generare oltre 35.000 ricerche nel solo mese di settembre e far aumentare del 104% l’incidenza di espressioni come “second hand” e “usato”. Numeri che certificano la portata del fenomeno e fanno il paio con quelli di uno studio della piattaforma ThredUP, secondo cui il mercato del resale raggiungerà entro i prossimi tre anni un valore di ben 51 miliardi di dollari.
Le immagini di botteghe polverose stipate di indumenti dismessi, mercati delle pulci con pile di abiti accatastati alla bell’e meglio, vendite di beneficenza e affini sembrano appartenere a un’altra era geologica; ora il termine vintage è sempre più frequentemente sinonimo di coolness se non di nuovo lusso.
Le ragioni alla base di una crescita così impetuosa sono diverse e, probabilmente, si sovrappongono le une alle altre: la prima è certamente la possibilità di risparmiare senza sacrificare la qualità che anzi, il più delle volte è quella tipica dei capi o accessori griffati, pensati per durare; a prescindere dalla disponibilità economica, poi, oggi si tende a rifuggire l’omologazione per abbracciare uno stile personale, che ponga l’accento su individualità e autenticità, qualità sottese agli articoli vintage che sono, per definizione, unici nel loro genere, ammantati di una patina “vissuta” considerata un plus non indifferente, scelti magari dopo aver scandagliato un catalogo (fisico o virtuale che sia), comparato i prezzi, effettuato tutte le valutazioni del caso.
Second hand è inoltre sinonimo di sostenibilità etica e ambientale, questione più sentita che mai specialmente da Millennial e giovani della Generazione Z. Non va trascurato neppure il fatto che, in tempi turbolenti come quelli attuali, segnati dall’incertezza ad ogni livello, il vintage possa apparire a molti come una sorta di bene rifugio, intriso di valori rassicuranti, i cui codici estetici risultano in qualche maniera familiari.
La rilevanza di determinate questioni è ormai tale da aver suscitato l’interesse delle principali maison, che stanno superando la propria radicata diffidenza nei confronti del vintage: Gucci, ad esempio, ha recentemente annunciato una collaborazione con l’e-tailer di lusso pre-owned TheRealReal, per un sito dedicato in cui raccogliere circa 2.000 proposte d’antan, tra capi emblematici dell’iperdecorativismo di Alessandro Michele e memorabilia dell’era Tom Ford, fornite (anche) dallo stesso brand, che del resto è uno dei più richiesti in assoluto sul portale. Iniziative simili dell’e-shop avevano coinvolto, in passato, la paladina della moda green Stella McCartney e Burberry.
Miuccia Prada, dal canto suo, ha lanciato a ottobre Upcycled by Miu Miu, una limited edition di abiti d’epoca, scovati tra negozi dell’usato e mercatini, rimessi a nuovo e completati dai caratteristici ghirigori del marchio (ricami, fiocchi, incrostazioni di cristalli o paillettes). In ambito retail un’istituzione dello shopping londinese come Selfridges, nel 2019, ha unito le forze con il marketplace di lusso Vestiaire Collective per inaugurare, all’interno del department store, uno spazio riservato ai prodotti pre-loved – come li definisce l’azienda – di griffe quali Chanel, Hermès, Fendi o Chloé.
In fondo, i due mondi sono meno lontani di quanto si possa pensare: gli accessori luxury sono destinati, non di rado, a diventare veri e propri status symbol, oggetti dalla qualità sopraffina in grado di trascendere stagioni, trend, gusti ed età, mantenendo inalterato il proprio appeal a distanza di decenni.
Al di là del riscontro economico, il vintage costituisce per i player del lusso una specie di introduzione al brand, al pari di piccola pelletteria e cosmetica, un modo insomma per avvicinare nuove fasce di consumatori, più giovani e attratti dal resale per i motivi citati in precedenza.
Iniziano a muoversi in questa direzione anche i marchi casual (Levi’s, ad esempio, ha da poco varato il programma SecondHand) e il fast fashion: basti citare il caso di Cos, label del gruppo H&M.
Del resto per comprendere quanto e come sia cambiata la percezione del vintage è sufficiente un’occhiata ai siti di riferimento del settore, a cominciare da Grailed, e-store maschile dall’offerta sterminata, che spazia tra high street, sportswear, accessori deluxe e ogni collab possibile e immaginabile; oppure alla sezione Pre-owned di Farfetch, all’interno della quale ci si può imbattere in chicche quali orologi Patek Philippe degli anni ’70, giacche patchwork Comme des Garçons o borsoni Keepall dell’ormai mitologica collezione Supreme x Louis Vuitton.
Un contributo non secondario all’odierna rivalutazione della categoria è stato offerto senz’altro dalle scelte in materia da parte di attori, star della musica, celebrities in generale. Il suddetto report di Lyst menziona i casi di Jennifer Aniston (che ai SAG Awards di gennaio ha sfoggiato un sinuoso dress Christian Dior by John Galliano) e della principessa Beatrice di York, presentatasi all’altare a luglio con un abito couture appartenuto nientemeno che alla nonna Elisabetta II.
Si potrebbero fare comunque miriadi di nomi, dalle supermodel Kendall Jenner e Bella Hadid, paparazzate spesso con reliquie modaiole degli anni Novanta e Zero (bag Prada nell’iconico nylon della casa, top Vivienne Westwood, jumpsuit Salvatore Ferragamo, bustier Dolce&Gabbana eccetera) al debole di Rihanna per le borse Vuitton d’annata, dai soprabiti sixties di Meghan Markle al riciclo dei gown da red carpet di attrici come Cate Blanchett, Penélope Cruz e Natalie Portman.
Perfino l’influencer par excellence Kim Kardashian indossa volentieri mise evocative del glamour magniloquente del passato, si tratti di total look Alaïa, tubini impalpabili Jean Paul Gaultier o abiti Mugler dalle scollature vertiginose.
Per quanto riguarda il menswear gli esempi sono meno numerosi ma altrettanto significativi: spiccano quelli di Drake, col suo bomber camo Raf Simons dell’autunno/inverno 2001, apparso nel video di “Toosie Slide”, e Pharrell Williams, che ha sfoggiato a lungo un cappello fedora oversize firmato Westwood.
Va ricordato inoltre come nel mondo fashion si noti da anni una certa inclinazione al retrò, al recupero di capi e silhouette che hanno segnato la storia del costume, o perlomeno quella delle singole maison: Gucci, tanto per cambiare, ha fatto da apripista e dal 2015 continua a pescare nella moda dei decenni passati, mescolando logomania e tagli tipici dei 70s, grunge e sartoriale, punk e hippie. Nel 2017, invece, Versace ha sbancato la fashion week milanese con una passerella celebrativa dei simboli ideati dal fondatore Gianni, una profusione di stampe in technicolor, greche dorate e abiti in mesh metallico.
Ancora, se Hedi Slimane per Celine guarda agli stilemi della borghesia parigina degli anni ’70, Balmain e Balenciaga omaggiano il power dressing degli ’80, mentre da Prada fanno capolino i print più rappresentativi del periodo ugly chic.
La centralità degli archivi nell’odierno sistema della moda è testimoniata anche dal seguito di cui godono alcune pagine Instagram a tema, evidentemente nostalgiche: si passa dalla sexyness sofisticata che contraddistingueva Gucci sotto la guida di Tom Ford (@tomfordforgucci) al tributo alla carriera magistrale dello stilista Martin Margiela (@margiela.archive), al compendio per immagini del massimalismo di Galliano da Dior (@diorinthe2000s).
D’altra parte un anno fa Virgil Abloh dichiarava: «il fashion si allontanerà dalla frenesia […] del nuovo, preferendo un ritorno nei propri archivi»; visto che a parlare così era il designer pigliatutto della moda contemporanea, possiamo essere certi del fatto che il vintage non sia soltanto l’ennesima, effimera tendenza.