In casa di Marcelo Burlon

Marcelo Burlon ha rotto il cazzo? Beh: a un certo punto sì, a Milano. Era ovunque. Era alla porta dei Magazzini quando è esploso il fenomeno Pink Is Punk, la serata che piaceva-alla-gente-che-piaceva, la nuova classe creativa di quegli anni, quella che faceva collidere clubbing e indie, striature hip hop e integralismo techno (oggi alleanze normali, ma in quel momento quasi inverosimili e per qualcuno sacrileghe). Era nelle feste più fiche, anzi, le organizzava lui; anzi, decideva lui chi cazzo potesse entrare da invitato e chi no, scardinando tutta una serie di abitudini e di gerarchie. Era lui, sì, era ovunque, e stava sulle palle. A tanti. Non a chi vi scrive: al di là del fatto che lo avevo conosciuto ai Magazzini – non questuando un’entrata a Pink Is Punk, ma perché accompagnavo come tour manager Tiga, e un Marcelo allora discretamente sconosciuto e ben poco potente mi aveva chiesto quasi timidamente il permesso di fargli qualche domanda per un giornale di moda (era il periodo in cui la moda avevo scoperto l’electroclash) -, a me Marcelo non aveva mai fatto nulla, anzi, le poche volte che gli avevo chiesto di entrare a qualche evento aveva sempre detto di sì senza problemi, anche se al sottoscritto della moda e del mondo-moda è sempre importato piuttosto poco. La mia importanza strategica, in quanto a pubbliche relazioni, era: zero. E se mai Marcelo mi avesse rifiutato la possibilità di entrare a qualche sua festa, il mio rincrescimento sarebbe stato più o meno: zero. Ma Milano si prende sul serio, dannatamente sul serio, e la moda per Milano è una cosa a dir poco seria. Quindi, serietà al cubo. Chiaro che allora Marcelo a un certo punto ti sta sul cazzo. Giocando alle sue regole, diventa potente. Diventa uno che decide chi sì e chi no, chi conta e chi insomma. E lo fa partendo dal basso, con qualche spinta iniziale dall’alto (e qui ne parleremo), ma sostanzialmente dal basso. In un mondo migliore, chi parte realmente dal basso non dovrebbe mai starti troppo sul cazzo; ma non è un mondo migliore, e quel misto di senso di superiorità (“Ma chi è questo che se la tira tanto?” “Ma che vuole?” “Ma chi si crede di essere?”) e di invidia (“Perché lui sì e io no?”) è uno stato delle cose che difficilmente ci abbandonerà mai. Quindi: Marcelo Burlon ha rotto il cazzo. Dieci anni fa circa, Milano è stata tappezzata di questa scritta.

2022. Abbiamo passato una giornata con Marcelo nel suo bellissimo, incredibile buen retiro ibizenco, nel nord dell’isola. Dieci anni dopo quel “Marcelo Burlon ha rotto il cazzo”, la New Guards Group – società fondata dallo stesso Marcelo assieme a Claudio Antonioli e Davide De Giglio – è stata venduta nel frattempo a Farfetch per 675 milioni di dollari che, insomma, anche togliendo le tasse, i costi di transazione, più tutto quello che volete e dividendo alla fine per tre, è una cifra che ti stravolge la vita. In meglio, molto in meglio, se la sai gestire. Il Marcelo fastidiosamente ovunque, che attacca bottone con tutti ma che sa selezionare – con criteri tutti suoi – chi conta e chi no, è diventato uno che si è tolto dal mondanodromo fashionista milanese (pur mantenendo la direzione creativa del suo marchio County Of Milan, vedi l’ultima bellissima sfilata al Vigorelli) e che si fa sentire solo per progetti sofisticati, o politicamente/socialmente impegnati. «Ho rifiutato interviste ai più importanti quotidiani nei giorni della sfilata, ma questa chiacchierata con te per Outpump me la voglio fare». Eccoci. Pronti a fare il punto sul passato, presente e futuro di una persona che pareva aver rotto il cazzo, nella città che nell’ultimo ventennio ha fagocitato tutti gli immaginari fashionisti e musicali più importanti. E che invece…

Il grande classico è farti parlare di come è iniziato, dei tuoi anni in Riviera nelle discoteche, prima insomma dello sbarco a Milano; oppure, ti si fa partire dal fondo, dalle ultime cose, le sfilate, la vita dopo che hai ceduto le quote di New Guards Group. Io invece ho sempre trovato focale un altro passaggio, per quanto ti riguarda: “Thoiry”.

Con Achille?

Esatto, l’avventura di “Thoiry Remix” con Achille Lauro e Boss Doms, che ha figliato un video dirompente ancora oggi, a riguardarlo, figuriamoci quanto lo era allora, quando venne fuori.

Ma guarda… fu una mega improvvisata quella, in realtà. Achille Lauro mi chiese: “Mi fai l’art direction del video?”. E io gli risposi al volo: “Sì, certo, e ho già l’idea: chiamiamo tutti i nostri fan. Diamogli appuntamento in Duomo”.

Semplice così?

Semplice così. Io di tutta quella giornata ho del girato ancora inedito che, credimi, è pazzesco. Pazzesco. Ne ho uno che non ho voluto pubblicare apposta, perché sarebbe eccessivo: io in piedi su uno dei corrimano dell’ingresso alla metro, e tutta la gente che urla il mio nome…

Beh. Eri già un personaggio infatti.

Ma non me l’aspettavo, credimi. Non così. È stato super figo. Davvero. Tutta quell’operazione è stata incredibile: abbiamo preso tutta quella gente e l’abbiamo portata attraverso Corso Vittorio Emanuele fino in San Babila… e poi io ho avuto la fantastica idea di arrivare in Via Verri e poi bloccare la strada all’altezza di Via Sant’Andrea. Duemila persone a bloccare all’improvviso una strada, capisci? E ad aspettare un mio ordine. “Adesso!!”, e la gente inizia a muoversi, prima a camminare, poi a correre, correre. L’obiettivo era arrivare davanti alla scalinata lì dove c’è la boutique di Armani, e finire il video. Sai cosa è stato davvero bello, di tutta quella storia? Che non ci sono stati problemi di sicurezza.

Zero?

Zero. Tutti molto rilassati.

E qui arriviamo al punto, al motivo per cui sono voluto partire da qui: era un momento interlocutorio per tutti. Lo era per te in primis: non eri ancora il milionario che aveva venduto le quote di New Guards, esempio insomma di grande imprenditore dal successo conclamato e dal conto in banca milionario. Ma anche per gli artisti coinvolti nel video… erano in una fase di mezzo, o comunque di ascesa, erano ancora degli underdogs. Non lo so, oggi probabilmente non sarebbe così facile avere tutti rilassati, sai? Né gli artisti né i loro fan. Mi pare che oggi si sia molto più attenti all’immagine, e che questa immagine abbia un potere “feticista” molto più forte sulle persone.

Beh dai, Achille Lauro aveva già la sua fama allora. C’era anche Gemitaiz, poi. Che già era grossissimo. C’era anche Lazza?

Così su due piedi non mi ricordo; ma se c’era, di sicuro nel 2018 non aveva un decimo della fama che ha oggi. Però ecco: tu quanto sei cambiato da allora? Apparentemente un bel po’. Soprattutto a vederti qui, a Ibiza, rilassato, in una villa nel nord dell’isola dalla bellezza quasi metafisica – e che ispira una pace pazzesca. Altro che “Thoiry”.

E invece sono la stessa persona. La stessa identica persona. Stessa visione. Stessi pensieri. Quel video è diventato molto popolare, e mi ha dato anche un’esposizione che prima non avevo: vero, ma è nato tutto un po’ per caso, sai? Mi ero fatto prestare una macchina per il video da Lapo Elkann, mi pare una Maserati, ma giusto perché avevamo cenato insieme la sera prima e se n’era parlato un po’. Poi alla Fiera avevo chiesto se poteva darci in prestito il piazzale quello con la scritta “MILANO” cubitale, e ovviamente mi dissero di sì, dato che già venivo a fare le sfilate da loro. Da lì in poi è stato tutto spontaneo, naturale: ci siamo trovati, ci siamo messi a ballare. Non è che ci sia stato chissà cosa dietro. Sì, è stato bello. In effetti non ci penso, ma ora col senno di poi quello è stato un momento importante.

Ecco, fermi lì: nello stesso fotogramma abbiamo Lapo Elkann, la Maserati, il potere politico dell’Ente Fiera, dei rapper all’epoca non ancora famosissimi, i loro fan più accaniti e – in teoria – ingestibili.

Sì.

Cioè, ti rendi conto?  

Allora. Credo che il mio talento più grande, in tutto ciò che ho fatto in questi anni, sia stato proprio quello di non aver mai diviso le persone a seconda del loro background di provenienza, o dei loro cognomi più o meno nobili, o del fatto che siano ricercati dalla polizia per aver imbrattato le mura di Milano. Esattamente questo. Chiaro? Per me dividere non ha senso. Non è nella mia storia, non è nella mia natura. Non sono ingenuo, ovvio: so che di solito le cose funzionano diversamente, nella società.

Ecco. E qualche volta capita anche che combinare contesti sociali diversi, beh, non sia una passeggiata: le cose possono sfuggire di mano, in un senso o nell’altro. Ti è mai successo?

Che le cose sfuggissero di mano a me, no; ma che i miei clienti avessero da ridire, quello sì. Sai, mi chiedono di organizzare un evento e arrivando lì trovano un certo tipo di persone completamente diverse da quelle che si aspettavano, e anche da quelle che di solito frequentano… Problemi pratici non ne ho mai avuti ma disagi emozionali, oh sì. Tanti.

Cioè? La cosa ti veniva fatta pesare, ti veniva rimproverata?

Sì. Commenti anche molto sgradevoli. Mi ricordo ancora un evento in Piazza Affari, per Salvatore Ferragamo, una cosa anche molto borghese ma con gente parecchio alla mano – ricordo ad esempio Lola Schnabel, carinissima. Però il commento principale di quell’evento me lo ricordo ancora come fosse ieri: “Hai visto la gente che ha portato Marcelo? Tutti quei barboni…”.

E lì che si fa? Si risponde? Si sta zitti?

Innanzitutto io ero protetto, perché il presidente di Ferragamo è il padre di una mia strettissima amica. Tuttavia, ci sono rimasto male lì per lì, lo confesso. Poi mi sono detto: quello che voglio fare e soprattutto quello che sono io è questo, quindi è giusto che vada avanti.

Quanto è difficile volare sopra questo lato cattivo di Milano, e in generale del mondo della moda, mantenendo l’integrità? Oggi, per dire, mi sembri una persona incredibilmente serena.

Lo sono.

Come sei arrivato ad esserlo?

La serenità ovviamente arriva prima di tutto con la maturità. E poi grazie al lavoro, alle amicizie e alla famiglia mi sono comunque creato attorno qualcosa che mi protegge, che mi dà sicurezza, che mi dà forza. Molta forza. Molta più forza di prima. Ad esempio, mi dà più forza e più sicurezza rispetto a quella che avevo quando, dieci anni prima, proprio al lancio del mio brand – quindi in un momento per me importante, delicato – Milano venne tappezzata di scritte “Marcelo Burlon ha rotto il cazzo”.

Ricordo benissimo.

Sai cosa? Fino a prima di quel momento ascoltavo molto il parere delle persone – e sì, ci restavo male, perché venivo spesso recepito male, venivo spesso massacrato; ma mi dicevo che comunque ci stava, erano le regole del gioco, era il prezzo da pagare per il fatto che avevo le mani in pasta un po’ ovunque. Ma quel momento, quello delle scritte, fu una svolta. Feci solo una cosa: stampai una quarantina di magliette con sopra questa identica frase, da regalare agli amici. E da lì in poi, non mi sono più voltato indietro.

Mai più?

Io so chi sono, cosa ho fatto, cosa ho conquistato. So a cosa sono arrivato, partendo da una semplice licenza di terza media. Io, ad esempio, so che se c’è da fare il DJ, beh, lo so fare, e pure bene. Se c’è da far ballare 20.000 persone, io lo so fare. Non sono insomma uno che si improvvisa: quando una cosa mi appassiona, la faccio e la sviluppo sempre al meglio. Comunque sì, lo so, in quel momento, in quella fase della mia vita e della mia carriera ero comunque un personaggio fastidioso. Uno dappertutto, molto multitasking. Ci ho sofferto. Sicuramente. La gente è sempre pronta a giudicare senza sapere, a fare battutine. Ma ero io che mi ponevo a modo mio, questo era il problema. Se ero coinvolto in un evento, le scelte finali dovevano essere mie: il tipo di musica, il tipo di invitati, chi c’era, chi non era ammesso. Mie, stop. È che ormai avevo un potere in città che mi permetteva di comportarmi in questo modo. Potere tra virgolette, ecco, perché stiamo parlando di feste, non di chissà cosa. Ma c’era. Ed era un potere ben preciso, molto chiaro e delineato.

Spiega.

Io ho imparato a coinvolgere e muovere un tipo ben determinato di pubblico ben prima che esistessero i social media, che poi hanno reso tutto molto più facile. Di più: le persone che muovevo io erano influencer per davvero – davvero sapevano influenzare i gusti del pubblico più generalista, con la loro personalità, con le loro scelte, coi loro comportamenti. E a loro arrivavo tramite il passaparola diretto, non col filtro impersonale dei social.

Quand’è che ti sei reso conto che avevi questo tipo di potere, che allora in effetti era raro? Perché tornando alla classica scansione del racconto agiografico su di te, tu sei arrivato a Milano con un potere che stava a zero…

Arrivavo dalle Marche, dove comunque già lavoravo, e mi ero fatto un po’ di esperienze a Riccione; a Riccione capitava che ci fosse gente della moda da Milano, e lì mi sono fatto i primi contatti. Chiaro però che era nulla rispetto a quanto poi è successo quando sono entrato nell’orbita delle serate milanesi ai Magazzini Generali, trovandomi a gestire la festa più importante del momento. Aspetta, non la festa più importante in assoluto, non per forza, c’erano comunque altre realtà molto forti in quegli anni; ma di sicuro la festa più importante per un determinato tipo di target, e qui torniamo a quello che si diceva prima.

Quelli che appunto oggi chiameremmo influencer. O, secondo l’ultima vulgata, talent.

Già. E io ero lì alla porta: decidevo chi poteva entrare e chi no. Chiaro che diventi subito un personaggio. Contemporaneamente mi sono ritrovato a lavorare per Fornari, nello specifico per la Nose, ed è una divertente chiusura del cerchio, perché anni prima avevo fatto da modello e da testimonial per loro, quando ancora stavo nelle Marche. Ad ogni modo, capisci che di notte avevo accesso a un certo tipo di pubblico e di giorno invece a uno leggermente diverso; ho messo tutto insieme e, in modo molto naturale, era come se avessi subito tutta la città in mano. A un certo punto ai Magazzini c’è stata una scissione: gli altri che facevano con me la serata erano andati via per provare a fare qualcosa da soli in un posto nuovo, all’Ippodromo, e col senno di poi si può dire senza molta fortuna; io decisi invece di restare, anche perché i Magazzini mi avevano fatto capire che volevano me, che si fidavano, che erano pronti a darmi tutta la fiducia del mondo: “Costruisci tutto tu per Pink Is Punk, fai pure tu il programma”. Potevo non accettare? Che poi, partiamo dal presupposto che lì mi sentivo comunque a casa. Insomma, si incastrava tutto bene. Ed è proprio in quel momento che arriva Domenico Dolce, che mi chiede di lavorare per D&G. Quindi: di notte i Magazzini, di giorno D&G.

Voilà, eccoti nell’élite del sistema-moda.

Non bastasse questo, D&G mi dava comunque la possibilità di lavorare ogni tanto in maniera estemporanea anche per altri marchi. Da lì ho iniziato a organizzare un sacco di eventi. Un sacco. Ma…

…ma?

Non ero felice. Lavorando per D&G avevo addosso uno stress pazzesco: mi svegliavo, e ogni mattina iniziavo a piangere al pensiero che iniziava un’altra giornata di lavoro. Non andavo bene per loro, questa è la verità. E infatti, non mi rinnovarono il contratto. Poi arrivò Alessandro Dell’Acqua: per lui dovevo fare Celebrity PR, che in teoria era un ruolo perfetto, ma il problema è che pure lui non aveva le idee chiarissime, non era convinto di quello che voleva, o non era convinto di quello che proponevo io. In Italia, all’epoca, era molto difficile fare un certo tipo di cose.

Cioè?

Non è come oggi: oggi se cerchi e vuoi un certo tipo di personaggi, legati a un certo tipo di musica e di ambiente, ci sono già i social che contribuiscono a renderli importanti. Un tempo c’era solo la televisione. E nella televisione, la musica – soprattutto un certo tipo di musica, hip hop o elettronica che fosse – e un certo tipo di ambiente che invece stava intercettando alla grande lo spirito dei tempi e le innovazioni in atto non ci entravano. Oggi i marchi famosi fanno a gara a inseguire rapper e trapper, anche quelli che vengono snobbati da radio e televisione, basta che siano grandi sui social; un tempo, avevano occhi solo per chi passava in tv. Io invece ero già convinto che il mondo della musica, quella ascoltata dai ventenni e dai trentenni, fosse il futuro. Infatti, strinsi subito un fortissimo legame con MTV – l’unica realtà televisiva dove certa musica c’era eccome – e facemmo un sacco di cose insieme. Ma per il resto… A un certo punto lascio anche Alessandro Dell’Acqua. E mi ritrovo senza nulla di fisso. Avevo tipo 5.000 lire in tasca, stop. Avrei fatto la fame? Rischiavo di farla? Certo. Ma non volevo più nessuno sopra di me. Nessuno.

Onestamente: in quel momento hai provato un po’ di paura?

Paura, no.

No?

Ma mi sono sentito fragile. Quello sì. Molto fragile. Guarda, me lo ricordo ancora: per tornare dal centro fino a casa, stavo dalle parti dei Navigli per capirci, mi dovevo fare tutto il centro a piedi, fino a Viale Tibaldi, e mi vedevo passare davanti il tram sapendo che non ci potevo salire, perché anche i soldi del biglietto in quel momento erano un lusso che non mi potevo permettere. Andavo al supermercato una volta alla settimana e la spesa che facevo doveva per forza bastarmi fino alla settimana successiva. Tu mi chiedevi se tutto questo a un certo punto mi ha fatto “paura”… non lo so, probabilmente sì, ora che ci ripenso, ma era troppo forte la voglia di non soffrire più a lavorare per qualcun altro. Qualcuno che, anche in buona fede, non capiva quello che stava accadendo, come stava cambiando il mondo, perché era sconnesso dalla realtà. Questo è il punto. E io non accettavo più di dover ascoltare loro e dover dipendere da loro. All’epoca poi avevo iniziato la pratica buddhista…

Ecco, questo non lo sapevo.

Non lo sanno in tanti. Parte della fede è saper raccontare le tue esperienze alle persone, facendo capire quanto la pratica buddhista ti abbia cambiato la percezione e l’approccio alle cose – invogliando magari così gli altri a seguire la tua via. Per me il buddhismo è ancora oggi molto importante, ma in quel momento credimi era davvero un’ancora fortissima, anzi, probabilmente l’unica che avevo. È lì che ho imparato a non concentrarmi più solo su me stesso, ma a pensare molto anche agli altri, anzi, proprio a concentrarmi prima di tutto su di loro. Un esercizio che ancora oggi trovo fondamentale. Metti il tuo ego da parte: ti aiuterà a crescere, e tanto. Vale oggi come valeva allora, quando avevo ventidue, ventitré anni.

Beh. Ventitré anni, ma tra Marche, ascesa e caduta nella Milano del lavoro e della moda è come se all’epoca avessi già vissuto tre vite.

In più avevo iniziato molto presto ad avere le prime esperienze forti: dai diciotto ai vent’anni ho conosciuto il mondo delle sostanze, per dire. Niente di che eh, mezza pastiglia alla volta, quelle robe lì. Ma è una fase necessaria, sai? Ti “apre” la percezione del mondo. E non è la cocaina, che è una droga pessima che invece ti “chiude” e ti trasforma in una persona che continua a raccontare e a raccontarsi bugie. Ad ogni modo, siamo arrivati ai ventitré anni, al mio decidere di non lavorare più sotto nessuno: senza nessuna rete di salvataggio, apro un’agenzia. E inizio piano piano a lavorare un po’ per tutti.

Vabbè, vedi allora che non stavi così sul cazzo…

Oh, non stavo sul cazzo in quei momenti solo e unicamente perché avevo costruito una mailing list molto importante, di quelle che davvero pochi potevano avere. Anzi, probabilmente nessuno in quel periodo, con un certo tipo di personalità. Solo per quello. Costava caro poter usare quella mailing list. Poi a un certo punto, come si raccontava prima, mi sono reso conto di avere anche il potere, non solo i contatti.

Un passaggio importante.

È lì che ho iniziato a imporre ai miei clienti che tipo di festa e di musica dovevano saper offrire al pubblico. Già, imporre. Prendere o lasciare. Ti piace il mio pubblico? Ti interessa? Allora devi sapere che io non mi presto a fare marchette: se mi vuoi, devi accettare che io imponga un James Murphy degli LCD Soundsystem come DJ, o i Maccabees, o Róisín Murphy per Replay, o Prince per Versace. Ed è lì che c’è stata una vera svolta: si è capito che era possibile fare delle figate vere, culturalmente e musicalmente di spessore, anche grazie all’aiuto di un brand, di un marchio commerciale.

Tant’è che oggi è una regola fissa che gli eventi della moda migliori abbiano un contenuto musicalmente importante, che sia un live set o un DJ set. Anche se magari valorizzato alla cazzo. Però boh, a proposito di DJ set: ma la gente si diverte ancora a fare clubbing? Funziona ancora?

Perché non dovrebbe funzionare?

I club stanno chiudendo, in giro.

Boh. Non lo so. So solo che il clubbing fatto bene è una cosa molto semplice e al tempo stesso molto potente: un bravo DJ, un ottimo sound system, una pista mezza buia. Basta questo, non serve altro. Stop. Chi queste cose le conosce per davvero e le sa riconoscere, non si annoia e non si annoierà mai.

Mai?

Magari crescendo ci vai meno a ballare, magari invece di uscire tre volte alla settimana esci due volte al mese, però chi fa clubbing vero – con piena consapevolezza e conoscenza di quello che sta facendo – non si può annoiare. Ok, la tua vita è cambiata, magari hai dei figli, delle responsabilità, ma quando ci vai non ti puoi annoiare. È qualcosa che, una volta che l’hai assaporato e capito veramente, ti rimane dentro. Poi, che oggi troppo spesso la gente lo equivochi, non lo sappia codificare, lo scambi solo per contesto dove “farsi vedere” è un problema della gente stessa, non del clubbing. Cazzi loro. Che fai? Pensi solo al tavolo, alla bottiglia, a far vedere che puoi spendere? Che noia. Ma non venirmi a raccontare che quello è clubbing: non lo è.

Ma lo è diventato. O lo sta diventando sempre di più. Ibiza, dove stiamo parlando ora, è l’esempio perfetto. Ne accennava qualche anno fa pure Carl Cox, riguardo la proliferazione dei tavoli nell’isola e la scomparsa progressiva del clubbing vero…

…Carl Cox che però chiede 60.000 euro per suonare: chiaro che poi i locali sono costretti a fare i tavoli e a venderli per migliaia di euro, per starci dentro.

Esattamente. Mi hai anticipato.

I DJ devono darsi una ridimensionata.

Tu ne conosci tanti e li incontri pure spesso. Glielo dici?

Glielo dico? A Carl Cox gliel’ho proprio scritto pubblicamente, sotto quel post di cui parlavi, in cui appunto denunciava tutto il proliferare di situazioni “tavolare” che rovinavano l’atmosfera. Gli ho scritto esattamente quello che ho detto a te adesso. Ognuno è responsabile delle sue azioni e degli effetti che esse creano. Io posso dire che stando a Ibiza mi sono preso bene ad andare al DC10. Ma ci vado presto, verso le otto di sera, e vado via già verso mezzanotte.

Insomma, resti fino a quando la musica è ancora nella parte all’aperto, nel giardino.

Mi mangio delle pizzette nel parcheggio, come cena; se avanza qualcosa, ed è spesso così, entro e ne offro al DJ che sta suonando. Sto un po’ lì. Poi vado via. Quando inizia il caos, vado via.

Però noi questa chiacchierata l’abbiamo fatta partire con “Thoiry”, e allora devo chiederti: quanto è grande la differenza tra mondo del clubbing e quello del rap e della trap?

Enorme.

Enorme? Si sta tentando di trovare una linea comune, e…

No. È enorme.

Sì, eh?

Sono proprio concetti diversi. Il clubbing ruota attorno al ballo, le serate rap o trap attorno al farsi vedere.

Tu riesci a vivere in entrambi.

Fino a un certo punto. Io le serate trap o rap non le ho mai frequentate. Sono fedele, io. Fedele al clubbing

Ma hai un sacco di credibilità da quelle parti, parlo appunto di tutto il giro trap e hip hop, sia fra gli artisti che fra il pubblico. “Thoiry” lo dimostra.

Perché a loro piace la moda.

Ma quanto è importante per te la moda, oggi? Quanto è ancora qualcosa di totalizzante?

(Lunga pausa, ndr) La moda per me è da sempre una cosa ben precisa: raccontare me stesso. Raccontare un mondo. Quando fai una collezione non è solo questione di tagli, di tessuti – esistono storie più complesse dietro a ogni singola creazione, che vanno al di là di quelle componenti lì. Non parliamo poi di quando ci sono le sfilate: lì entrano in gioco il casting, il luogo che scegli, il tipo di musica che vuoi. Ed è soprattutto in questi passaggi che io riverso tutta la mia esperienza e tutta la mia passione. La moda in sé e per sé non è così importante per me, lo è il mondo che la circonda, tutte le energie che ruotano attorno a lei. Se non c’è questo scambio, l’esperienza secondo me è molto più povera. A me per dire piace vestirmi, piace costruirmi dei look quando esco, e questa è un’esperienza che va al di là della moda strettamente detta, parla invece di come sono io come persona. Ibiza, ad esempio, è una terra più libera e sento di potermi vestire più liberamente, anche conciato male o conciato strano se mi va – ogni tanto sembro quasi un pagliaccio, guarda. Ed è giusto sia così: la moda deve saper anche essere divertente. Io la vedo così.

La vedi così a Ibiza. A Milano invece…

Milano è effettivamente meno libera.

Ma leggevo in una delle ultime interviste che hai rilasciato prima di questa chiacchierata che stai recuperando un po’ il rapporto con Milano.

Per me personalmente il Covid è stata una fortuna: mi ha aiutato a staccarmi da certe dinamiche, che lo volessi o meno. Io per venticinque, trent’anni sono stato sempre in mezzo alle persone, sempre, e per lo più a Milano. Ci pensi?

Vero. E via via sempre più sotto la lente d’ingrandimento dell’attenzione, del giudizio e della curiosità altrui. Senza potersi prendere delle pause da questo.

Esatto.

Correndo. Correndo sempre.

Già. Ma poi mi sono chiesto: sì, sto correndo, sento che lo devo fare, ok, lo sto facendo; ma dietro a cosa sto correndo di preciso? A un certo punto tutto si è fermato. All’improvviso. E io ero qui, a Ibiza, e mi sono detto: “Ehi, fermi un attimo. Io resto qui. Io qui sto bene”.

E ti sei costruito un rifugio bellissimo.

È incredibile qui, vero? Senza contare che Ibiza mi ricorda un po’ la Patagonia. E il mio obiettivo nella vita da un certo punto in avanti è diventato potermi dividere fra tre posti: Patagonia, Ibiza, Milano. L’ho raggiunto, questo obiettivo. Sia chiaro: mi piace oggi tornare a Milano. Anzi, ora ho anche preso una casa nuova, in Via Vittor Pisani, la sto rifacendo tutta, mi piace l’idea di avere una base che sia completamente nuova, una ripartenza. Quella che già ho e che ho da ormai sei, sette anni resta, ma diventerà praticamente un mio archivio personale. Comunque, i legami con Milano anche adesso non possono che essere forti: mio marito vive lì. E non vuole venire a vivere qui.

No?

Viene qui ogni due settimane, o vado io da lui. Ma ecco, non è che ora Milano sia scomparsa dalla mia vita, mi fa sempre piacere tornarci. Però non è più la mia base: la mia base è qui, qui a Ibiza. A Milano ci vado, ma ormai faccio sempre in modo di non starci mai più di uno o due giorni. Giusto per la sfilata i giorni sono diventati cinque, sei, ma appena finita la sfilata, il giorno dopo a mezzogiorno già stavo volando verso Ibiza.

Qual è il tuo rapporto coi soldi, oggi?

Buonissimo. Perché in passato non li ho mai avuti.

Quindi ora ne puoi apprezzare il valore.

Li apprezzo. Do loro un valore importante. Anche se ogni tanto mi capita di fare qualche spesa d’impulso.

E poi c’è la Fondazione.

La Fondazione credo sia il progetto più importante e ambizioso che ho in questo momento. Anche perché è un progetto “aperto”, che mi permette di fare qualsiasi cosa, di spendermi in più campi: posso creare un festival particolare con Arca, posso dare vita a una scuola di nuoto in Kenya, posso rendere possibile una performance speciale di Davide Giannella in Triennale. Abbiamo ora in cantiere la produzione di due libri: uno sul razzismo nel mondo della moda e uno sugli incendi in Patagonia, in collaborazione con un fotografo di National Geographic.

Sei pronto a litigare con un sacco di persone, quando uscirà quello sul razzismo nel mondo della moda?

Litigare? No, io non litigo più.

Ah.

Non ci tengo. Non ho più tempo. E poi, scusa: se c’è da litigare su una cosa del genere, sul fatto che nella moda il razzismo ci sia o non ci sia, allora guarda, mi sa che non abbiamo semplicemente nulla da dirci. Evitiamo pure di confrontarci. Chiaro? Se pensi che nella moda il razzismo non ci sia, non stai capendo un cazzo.

Il problema insomma c’è.

Eccome se c’è. È presentissimo. E lo è ovunque, non solo nella moda. Quindi bisogna parlarne eccome, bisogna parlarne costantemente. Esattamente come per i diritti LGBTQIA+: stessa cosa. Quando abbiamo fatto il lancio della Fondazione, le prime operazioni a cui ci siamo dedicati sono servite ad aprire Casa Marcella in Toscana, una casa rifugio per persone trans, e un rifugio per adolescenti omosessuali a Roma, in collaborazione con la Croce Rossa e il Gay Center locale. Una volta ero a pranzo con una persona, di cui non ti dirò il nome e non provare a chiedermelo, che a un certo se ne venne fuori con un “Ma che cazzo è, ma perché esiste ‘sto Gay Pride, ma diritti di cosa, avete già tutti i diritti che volete…”. Io, senza dire nulla, senza aprire bocca, mi sono alzato e me ne sono andato, pagando io il conto. Questo giusto per dirti che sì, esiste ancora tantissima gente che semplicemente non ha empatia: non si rende conto che dire “frocio” o “negro” o “quella travestita di merda” in qualcuno può causare delle ferite profonde – ed è un degradare una persona per la sua condizione sessuale o per la sua provenienza, il che è semplicemente assurdo, becero. Io per dire mi chiedo come sia possibile che ci siano ancora politici che possono dire certe cose liberamente, vedi la Meloni. Nella mia sfilata c’erano almeno dieci persone che non si sentivano di poter essere categorizzate come genere. Semplicemente, sono quello che sono. Chi se ne importa se la società ha deciso che bisogna essere o uomo o donna o gay. Ma sia chiaro: la Fondazione, come ti dicevo anche all’inizio, è super importante non solo per battaglie sociali ma anche solo a livello culturale, artistico. La performance in Triennale di cui ti parlavo non ha alcuno scopo benefico o di battaglia sociale, ma era semplicemente un progetto molto fico che avevo voglia si realizzasse. Questa è la cosa che amo dell’aver creato una Fondazione: puoi fare di tutto. Un giornale? Un concerto? Tutto. Qualsiasi cosa. Ora poi c’è in ballo una cosa molto bella che riguarda in parte la musica, ma non posso ancora parlartene.

Tutto bello, davvero. Ma non posso non chiederti: non ti senti ogni tanto tirato per la giacchetta? Ora che c’è questa cosa della Fondazione, ed è una Fondazione con un bel po’ di risorse, immagino tu abbia una coda di questuanti infinita: tutti che sperano di strappare un appoggio, un finanziamento. Che tipo di filtro usi?

Prima di tutto: i progetti della Fondazione sono miei, li decido io, consultandomi solo con le persone di cui mi fido di più. Punto. C’è una linea ben precisa, sia a livello etico che estetico: qualsiasi progetto finanziato deve appartenere in qualche modo alla mia storia personale, a cause, scelte, ambiti che mi sono sempre stati vicini. Per quanto riguarda quello che mi chiedi, beh, ti lascio immaginare cosa succede soprattutto in Argentina: lì i soldi sono veramente pochi, ci si attacca a qualsiasi cosa per poterli recuperare. Quindi figurati quando vedono che ho una Fondazione che distribuisce aiuti e contributi. Io non mi tiro certo indietro: dopo gli incendi in Patagonia ho contribuito a far ricostruire quarantasette case, quindi quarantasette famiglie hanno potuto di nuovo avere un tetto sulla testa grazie a noi. Ma avevo provato anche a investire in ospedali, per poi scoprire che il Comune – che doveva gestire i finanziamenti – stava semplicemente rubando i soldi. Infatti, mio fratello, che è colui che in prima persona sta gestendo tutti i finanziamenti, continua a dirmi: “Basta fare donazioni agli enti governativi e amministrativi, basta! Rubano i soldi, non si riesce a controllare nulla di quello che fanno, nulla di come utilizzano i soldi che diamo”.

Non ti viene un po’ di vertigine a vederti ora, illuminato e sereno mecenate, ripensando invece al Marcelo che nei suoi primi anni milanesi si sbatteva ovunque per raccattare più lavori possibile?

No.

No?

No. Perché davvero, mi sento sempre la stessa persona. La stessa di “Thoiry”, come ci dicevamo, e la stessa di quando non avevo nemmeno i soldi per i biglietti del tram. È cambiata la comodità di come vivo la vita, questo sì. Se devo andare in aereo e sono coi miei cani, posso permettermi di viaggiare in aereo privato, così loro non devono finire in stiva: giusto per farti un esempio. Quindi sì, le comodità sono cambiate, posso permettermi di fare un certo tipo di scelte.

Senza sensi di colpa.

Ma perché dovrei averli, scusa? Mi sono guadagnato tutto quello che ho. Non solo: la fortuna che possiedo, mi piace condividerla con gli altri. Tramite i progetti della Fondazione e non solo.

Non insomma per ostentare.

Ostentare? Ho un sacco di investimenti in atto. Decine e decine. Ho un gruppo di professionisti molto importanti che mi aiuta a spendere i miei soldi bene: entriamo in un progetto solo se vediamo garanzie, sicurezze, figure che ci ispirano fiducia. Non scialacquo nulla, insomma. È tutto ragionato, controllato. E anche quando decido di fare acquisti d’impulso, come la Mustang del 1965 che hai visto all’ingresso e che ho trovato a Palma, beh, prima di perfezionare l’acquisto ho voluto che un meccanico specializzato venisse con me, per controllare lo stato dell’automobile. Sono accortezze che devo a me stesso, ma che devo anche alle persone che sto supportando – e che supporterò in futuro. Soprattutto a loro. Ma senti, abbiamo parlato abbastanza. 

In effetti ormai è ora di pranzo, è quasi un’ora che il registratore è acceso.

Esatto. Basta. Andiamo a mangiare. Ti porto io in un bel posto, qui vicino…

Photo
Bratislav Tasic
Stylist & Art Director
Marcelo Burlon