In Sicilia c’è la più grande comunità di italo-albanesi

Fenici, greci, romani, vandali, ostrogoti, bizantini, arabi, normanni, svevi e spagnoli. Tra le popolazioni che nel corso dei secoli hanno lasciato il segno sul territorio siciliano, ci sono anche gli albanesi, o meglio, gli arbëreshë. Bisogna spingersi nell’entroterra per trovarli, ancora lì dove si sono insediati più di cinquecento anni fa dopo essere scappati dagli ottomani – non dopo una strenua resistenza – ed avere evitato di finire sotto la loro dominazione. Lontano dal mare e dalle località più turistiche, la comunità degli albanesi di Sicilia resiste ancora in una terra dove in tanti, negli ultimi decenni, continuano ad andare via per costruirsi una vita altrove. Se i comuni di Palazzo Adriano, Contessa Entellina, Santa Cristina Gela e Mezzojuso (tutti nella provincia di Palermo) non fanno intendere granché dal punto di vista etimologico, il significato di quello di Piana degli Albanesi è invece inequivocabile: si tratta del centro abitato più importante e più popoloso tra tutti quelli in cui è presente l’etnia albanese, anche se, anno dopo anno, gli abitanti (poco più di cinquemila secondo i recenti conteggi) vanno diminuendo sempre più.

La prima cosa che si nota è che, tra di loro, i pianesi continuano a parlare in arbëreshë, l’antica lingua originaria del sud dell’attuale Albania, la stessa lingua che, ultimamente, i giovani parlano sempre meno. Basta fare un salto in paese per rendersi conto del bilinguismo, ad esempio sentendo chiacchierare le persone al bar, oppure osservando le insegne delle attività commerciali e i cartelli stradali scritti in doppia lingua, come accade in Alto Adige con il tedesco. L’influenza albanese è tuttora presente anche in molti cognomi, che col tempo sono stati italianizzati ma che mantengono una evidente radice balcanica, e in molte parole di uso comune. Ne discuto anche con Francesco, che nonostante sia poco più che ventenne, fa parte di coloro che hanno già assorbito le abitudini dei padri e dei nonni: «sia per l’impossibilità di tradurre certe parole nuove, sia per l’avvento degli anglicismi, l’abitudine di utilizzare alcuni vocaboli si sta perdendo, come è normale, soprattutto tra i più giovani. E poi ci sono anche alcuni termini, come ad esempio “cetriolo”, che in molti ormai traducono diversamente rispetto a chi usa ancora l’albanese autentico».

Oltre che per la sua storia indubbiamente singolare, di quelle che vengono citate nei libri di scuola elementare, Piana degli Albanesi è rinomata anche per il suo lago artificiale, per la strage di Portella della Ginestra (l’attentato avvenuto nel 1947 ad opera di Salvatore Giuliano, che andò in atto poco distante da Monte Pizzuta) e – come testimonia la probabile prima voce nelle ricerche di Google – per i cannoli di ricotta, considerati tra i più buoni della Sicilia e per cui in molti decidono di passare per questo luogo, magari deviando l’itinerario, fregandosene delle difficoltà logistiche per raggiungere il paese. Anche questa è una forma di turismo.

Chissà che tra qualche anno Piana non venga anche ricordata per la propria squadra di calcio: il San Giorgio Piana, come il santo patrono. Rifondata nel 2014, alla fine della scorsa stagione calcistica ha centrato un obiettivo mai raggiunto prima, la promozione nel campionato di Eccellenza, la quinta serie della piramide calcistica italiana. E lo ha fatto con l’aquila nera bicipite sia nello stemma sociale che nel design della maglia da gioco, il simbolo che appare sulla bandiera della Repubblica d’Albania dal 1912 e che si trova esposta in tanti balconi e negozi del luogo. Il memorabile traguardo calcistico è arrivato grazie a un allenatore locale molto promettente, Filippo Chinnici, e un patron albanese, Evis Troka, giovane imprenditore che si è stabilito in Sicilia e che ha dato il via a questo ambizioso progetto sportivo. 

In occasione della penultima gara casalinga contro il Partinicaudace sono allo stadio: la partita è a senso unico a favore dei padroni di casa e il vero spettacolo è sugli spalti, dove ho l’occasione di conoscere anche alcuni tifosi rossoneri (non potevano che essere questi i colori sociali, a riprendere la bandiera albanese) del gruppo Ultras Curva West, che oltre a seguire la squadra nel weekend, si frequentano giornalmente nonostante le diverse vite e le differenze di età. Come accade nei centri così piccoli, ci si conosce tutti, e così accade anche a questi ragazzi, molti cresciuti insieme anche grazie alla passione comune per il Palermo: c’è chi segue i rosanero quando gioca in casa, chi si vanta di averlo seguito anche nelle trasferte di Reggio Calabria, Cosenza e Lecce, le più vicine. Il circolo che si trova nel cuore di Piana, nel quartiere Sheshi, è nato oltre un decennio fa proprio per guardare insieme le partite del Palermo, ma poi è diventato un luogo d’aggregazione da vivere tutti i giorni a qualsiasi orario. Alimentato dai risultati sportivi, recentemente il senso di appartenenza e la possibilità di avere anche una squadra locale da poter seguire ha preso il sopravvento, nutrendo il movimento cittadino e coinvolgendo sempre più tifosi di fede rosanero; quelli che la domenica sventolano fieri il bandierone che raffigura il condottiero Scanderbeg e quelli che, per festeggiare la vittoria del campionato di Promozione dopo un lungo testa a testa con Parmonval e S. Vito Lo Capo, hanno organizzato per settimane una maxi coreografia, dal significato profondo e ovviamente a tema: un omaggio alla Madonna di Odigitria e al suo viaggio dall’Albania alla Sicilia. Questa recita: “condottiera della retta via illuminaci di Eccellenza”. Come mi ribadisce Nicola, uno dei più autorevoli membri del gruppo, mentre mi fa felicemente e spontaneamente da Cicerone per le vie di Piana, «le categorie ci interessano relativamente: supportare la squadra è solo una scusa, l’obiettivo è mantenere il senso di aggregazione e rafforzare l’identità culturale che ci lega».

Pur necessitando di qualche restyling, il San Giorgio Piana gioca regolarmente le sue partite interne nel piccolo “Li Cauli”, sebbene abbia ormai da anni bisogno del rifacimento del manto erboso sintetico e di un vero settore ospiti, visto anche l’arrivo di tifoserie più numerose. Ma in futuro potrebbe farlo con un nuovo nome, visto che la società pare stia affrettando i tempi per un renaming pensato per consolidare il proprio status identitario: la squadra potrebbe infatti diventare FC Arbëria, come l’isola linguistica che comprende anche le minoranze site in Abruzzo, Basilicata, Campania, Molise, Puglia e soprattutto Calabria, in modo da essere maggiormente riconosciuta come la squadra degli albanesi d’Italia e diventare anche un punto di riferimento per le altre comunità stanziate nello Stivale. E poco importa se non potrà diventare l’Athletic Bilbao della Sicilia, visto che l’idea di portare avanti una squadra di soli arbëreshë rischia di rimanere solo un sogno, dati i tempi che corrono. 
Senza voler risultare fatalisti, è lecito chiedersi per chissà quanto tempo ancora l’influenza albanese continuerà a essere così rilevante visto come sta cambiando in fretta il mondo circostante: dal canto suo, la popolazione sta facendo di tutto per non abbandonare le tradizioni tramandate per secoli, quelle che ogni anno rivivono durante la celebrazione della festa di San Giorgio o per la Settimana Santa, rigorosamente di rito bizantino. Non solo, ciò avviene anche attraverso le facciate delle case della città stessa: recentemente l’amministrazione comunale e alcune associazioni culturali hanno inaugurato un museo a cielo aperto che si snoda per le strade semi abbandonate del centro storico, proprio lì dove si stanziò il primo insediamento urbano post 1488. Omaggi artistici, murales tra i muri turchesi delle abitazioni e sculture tra le rocce per tenere viva la memoria collettiva.

L’articolo originale è stato pubblicato sul Numero Quattro della nostra rivista: clicca qui per acquistarla.

Foto:
Umberto Coa