Questo articolo è stato scritto, cancellato e riscritto diverse volte perché non c’è un modo giusto di farlo. Kobe Bryant e sua figlia Gianna Maria-Onore (Gigi) non ci sono più e non c’è un modo bello per scriverlo.
La figura di Kobe Bryant va ben oltre il basket. Non è difficile capirlo, basti vedere quante persone hanno preso parte al cordoglio per la sua morte: ovviamente cestisti ma anche calciatori, sciatori, atleti di qualsiasi tipo, attori, musicisti e persino quell’amico o amica che non ha mai seguito il basket. Il perché è semplice, Kobe va oltre tutto questo. Basti pensare che Bryant è stato (e sempre sarà) uno di quei personaggi che si può identificare solo con il nome, e non ce ne sono molti. Basta dire Barack per collegare Obama, Ayrton per Senna, Steve per Jobs, Cristiano per Ronaldo, e così Kobe sarà per sempre e comunque Bryant, indipendentemente da quanti altri ce ne saranno in futuro.
Ed ecco quindi che Nipsey Hussle, figlio caduto di Los Angeles, vince il suo primo Grammy allo Staple Center, la vera casa di Bryant, il suo tempio. Contemporaneamente Neymar festeggia il gol facendo “24” con le dita, Nick Kyrgios entra in campo agli Australian Open piangendo e con la sua canotta, Trae Young (il giocatore preferito di Gigi) segna 45 punti e 14 assist giocando con la numero 8. In tutte le partite abbiamo assistito a infrazioni volontarie dei 24 secondi e degli 8 secondi a metà campo per ricordarlo, così come abbiamo visto giocatori e allenatori in lacrime, giustamente disinteressati alle partite in corso. Perché la morte di Kobe va oltre il basket, parliamo di un simbolo generazionale.
Persino per gli appassionati di sneakers il nome di Kobe era culto. Una trentina di modelli tra Nike e adidas portano il suo nome, scarpe che hanno cambiato la storia di questo sport dal punto di vista stilistico e tecnologico. Non a caso la Nike Kobe 4 è tornata a essere la scarpa più utilizzata in NBA proprio quest’anno che Nike l’ha riportata alla luce, nonostante sia un modello di dieci anni fa.
Kobe era amato oltre ogni limite perché era trasversale. Potevi amarlo per il suo gioco, per la sua mentalità ossessiva nei confronti della vittoria o per il modo di trattare i compagni, e poi potevi odiarlo per gli stessi identici motivi.
Kobe l’ho sempre un po’ odiato sul parquet. Non ho mai amato l’ossessione portata dalla Mamba Mentality, non ero nemmeno così incredibilmente fan del suo modo di giocare, spesso forzando eccessivamente. Ma in fondo era quello che piaceva a Kobe, la stessa persona che disse “friends come and go, banners stay up forever”.
Successivamente sono rimasto affascinato dalla sua vita post basket, una carriera che sarebbe stata una delle più brillanti mai viste dal ritiro di un atleta. Partito con gli energy drink Bodyarmor, si è poi spostato sul gaming, la tecnologia, i libri per bambini e media di ogni tipo. Per non parlare del fatto che ha portato a casa un Oscar per il corto di animazione “Dear Basketball”, basato sulla sua lettera di ritiro, un documento zuccheroso e decisamente lontano dal Kobe giocatore quanto vicino al Kobe uomo, come poteva far capire il rapporto con le figlie, specie Gianna Maria-Onore, aka Gigi, anche lei scomparsa nell’incidente in elicottero.
Grazie a Gigi era stata fondata la Mamba Academy, centro in cui Kobe si era messo ad allenare giovani ragazzine, guidato dalla passione della figlia per lo stesso sport che gli ha dato tutto e gli ha consumato la possibilità di gestire normalmente i rapporti umani in ambito competitivo. Gigi era un talento enorme, anche perché era come lui. Gli occhi, il modo di mordere le labbra, la posizione delle mani lungo il corpo nei momenti di pausa. Kobe 2.0, Mambacita. Il fatto che anche lei, tredicenne, sia tra le vittime di questo tremendo incidente fa ancora più male. Fa male perché era solo una ragazzina, perché era la versione successiva del papà e perché noi appassionati di basket l’abbiamo vista a bordo campo dalla nascita e non vedevamo l’ora di vederla in WNBA.
Di Kobe si potrebbero elencare momenti iconici all’infinito: l’intera carriera ai Lakers, gli 81 punti, i cinque titoli, l’amore/rivalità con Shaq, i paralleli con Jordan, il suo rapporto con l’Italia e molto altro. Tutti hanno un Kobe moment preferito, anche chi l’ha odiato, e ognuno dovrebbe ricordare il suo. Il mio è molto semplice.
Molti, a ogni latitudine, gridano “Kobe!” quando cercano di fare un canestro nelle azioni quotidiane, tipo tirando un pezzo di carta in un cestino, un pezzo di ghiaccio in un bicchiere o qualsiasi altra cosa. Nel mio gruppo di amici è sempre stato così. Il mio Kobe moment è questo, un semplice grido mentre si cerca di prendere un cestino o di dare fastidio a un amico durante una cena lanciando oggetti vari. Perché mi ricorda il passare il tempo con gli amici. Perché questo siparietto può accadere ovunque. Perché metà dei miei amici non hanno mai guardato una partita di basket. Perché se persone che non sanno nulla di basket sono così influenzate da un singolo nome un motivo ci sarà.