BigMama è una delle nuove leve più interessanti e promettenti del rap italiano. Classe 2000, cresciuta con Salmo e accolta nella famiglia di Pluggers appena all’inizio del suo debutto.
Sono pochi i pezzi che Marianna ha fatto uscire, ma bastano per dimostrarci la grinta e l’audacia con cui porta avanti la sua passione, quella con cui sa esprimersi. Di traguardi ne ha già raggiunti, a piccoli passi. BigMama si è presa i palchi come voleva da bambina – anche se il sogno è arrivare a San Siro, ci dice – e ha fatto il suo ingresso in quel mondo che ha sempre cercato. Nell’ultimo disco di Inoki, infatti, c’è proprio lei: il brano è “Mani” ed è uno dei più belli del suo repertorio nonché la traccia migliore del disco, a nostro parere.
In occasione del suo primo concerto nel metaverso, che si terrà questa sera su LIVENow, abbiamo parlato con BigMama del suo presente, passato e futuro, ma anche della consapevolezza dell’importanza dei temi che porta.
Ti ho conosciuta durante il periodo di pandemia, quando pubblicavi freestyle sul tuo profilo Instagram. Arrivate le tue prime tracce ho detto: “finalmente”, perché nel rap mancava quella componente femminile forte, che sta in piedi da sola e che non ha nulla da invidiare ad altri. Perché sei così diversa da tutte le altre? Lo percepisci?
Io non sono una di quelle persone che crede di avere qualcosa in più rispetto agli altri. Nel mio caso, forse, quello che può fare la differenza è il fatto che le parole che dico e le scelte musicali che faccio, quindi i messaggi che porto, non risultano spinti perché sono l’immagine di quello che canto. Molte volte ho ascoltato pezzi di altre colleghe e colleghi che cercavano di portare messaggi importanti, ma non nelle vesti giuste. È normale che se io parlo di body shaming e una persona mi guarda mentre lo sto facendo si rende conto che è letteralmente reale. È quello che mi è successo, parlo di una storia vera. Magari è questo che mi differenzia un po’. A livello tecnico, da autodidatta, ho studiato il rap per anni e quindi sono arrivata a una piena consapevolezza di come utilizzare parole e ritmo insieme.
Spesso per rompere le acque si ha bisogno dell’esempio, di chi ti dimostra che puoi farcela. Da chi ti senti rappresentata?
Mi sono avvicinata al genere con Salmo. Ero piccolissima, avevo 13 anni e mio fratello mi portò a un concerto di Salmo, io ne uscii completamente innamorata. Adesso non sono più fan girl (ride, ndr) ma da lui, come persona, non mi sono mai staccata. La stima è tantissima, mi emoziona ancora. È importante non dimenticarsi mai da dove si viene, l’umiltà per me è sempre al primo posto e dal momento che lui per me è stato un punto di rifermento, lo riconoscerò sempre.
Sei giovane ma ti sei fatta già portavoce di grandi battaglie, sia di salute fisica che mentale. Mi sembra tu lo faccia con molta leggerezza, ma come in tutte le cose credo ci sia anche un’altra faccia della medaglia. Ci sono dei momenti in cui è pesante?
Io più che altro penso di essere abbastanza brava a non fare l’attivista. Il messaggio che io mando è un po’ involontario. Io faccio musica per sentirmi meglio con me stessa, per sentirmi io una figa e per sentirmi io al centro dell’attenzione. Poi sono felicissima che la mia musica aiuti delle persone, ma allo stesso tempo non ho mai preteso di farmi messaggera di qualcosa in cui io non sono propriamente competente. L’attivista lo lascio fare a chi è bravo nel farlo, molti miei amici sono bravissimi, attenti e si dedicano al 100% a questo. Quindi non sento il peso addosso di dover dire per forza la cosa giusta.
Come dico in “TooMuch“, “se dico, lo penso”. Per farti un esempio, mi invitarono al Magnolia per parlare della mia malattia e l’ho fatto nel modo più sbagliato possibile, perché il tumore che ho avuto non mi ha cambiato niente, se non farmi stare peggio. Magari in un’occasione del genere c’era bisogno della paladina che diceva di esserne uscita forte, ma sono dinamiche che io non ho vissuto e che quindi non ho voluto raccontare. L’importante è che io mi senta bene con quello che scrivo e che dico.
Da quando sei qui ti associano 9 volte su 10 alla body positivity, che da una parte è una cosa bellissima, ma dall’altra magari uno vorrebbe che si parlasse di rap. Ti ha già rotto questo fatto o in realtà ne sei orgogliosa e va bene così?
Il primo periodo in cui pubblicavo pezzi con Pluggers, dicevo “ma come è possibile che anche i pezzi in cui non parlo di body positivity, vengono comunque collegati a quella roba là?”. Non lo capivo proprio e inizialmente mi pesava. Poi però l’ho analizzato al contrario e pensato, “ho sofferto una vita e adesso questa cosa mi sta portando il beneficio di avere un personaggio definito, che è comunque un tratto fondamentale per un emergente, quindi se le persone mi voglio accostare a quello e se è quello che fa notizia, che lo facciano pure. Io purtroppo l’opinione pubblica non la posso cambiare.
A livello lavorativo ci sono opportunità e opportunità, alcune che si sono create perché faccio buona musica, altre perché sono un personaggio abbastanza forte da quel punto di vista. Al momento non buttiamo niente (ride, ndr).
Vorrei parlare delle tue origini, perché ogni città lascia bisogni diversi alle persone. Com’è vivere in una città come Avellino? Cosa ti lascia?
Tutta la rabbia che butto nelle canzoni arriva da lì. Si sa come funziona una città provinciale, tutti parlano di tutti, sanno tutto di tutti e le persone sono chiuse mentalmente. Ti spezzano le ali senza che nemmeno hai iniziato a volare. Per gli artisti sopratutto è fondamentale andare via da lì.
È divertente perché alcuni sono affezionati, mentre altri non vogliono più vedere il posto da cui vengono.
Tra gli artisti, sono sempre quelli gangsta ad essere affezionati al proprio quartiere. Io studio urbanistica all’università, e il problema da questo punto di vista è che le persone che sono ghettizzate nei loro quartieri, finiscono per ghettizzarsi da sole. Quindi vedono solo il loro quartiere, tutto il resto è merda. Un milanese che abita al centro dice “Milano è bellissima ma San Siro fa schifo”, mentre chi abita a San Siro dice “Milano fa schifo, San Siro è bellissima”.
Un tempo gli artisti avevano tutto il tempo del mondo per pensare a chi volevano diventare, perché il successo arrivava dopo anni e anni di lavoro, mentre con i giovani oggi è tutto più improvviso. Ti sei data un obiettivo quando hai iniziato?
Ho scirtto i miei primi pezzi nel 2013 e ho iniziato a pubblicarli a 16 anni. Ho scelto di fare musica per prendermi quell’attenzione che nella vita non riuscivo ad avere. Nella vita ero quella che tutti nascondevano, mentre nella musica ci sono io sul palco e gli altri che stanno sotto. E quando ero piccola questa cosa mi bastava, era tutto quello di cui avevo bisogno, oltre che sfogarmi con la scrittura. Quindi il mio sogno è proprio quello: che le persone mi diano l’importanza che nessuno mi ha dato e che magari mi merito.
Il tuo pezzo nel disco di Inoki è forse uno dei più belli, sia dei tuoi che del suo disco. Com’è stato ritrovarti a lavorare a contatto con altri artisti così grandi?
Se ci fosse una storia bella e romantica, sarei felicissima di raccontartela. Ma la verità è che stavo giocando alla PlayStation tranquillamente, mi chiamano dall’etichetta di Inoki e mi dicono “guarda, Fabiano sta chiudendo un album e vorrebbe metterci un pezzo figo con una ragazza forte, ci vuoi essere?” e io ho detto sì. Ci siamo scritti e abbiamo parlato tanto, lui ha una storia lunghissima e complicatissima, ma ti accorgi subito che è una persona umile. Per me è stata una super notizia, poi vedere il mio nome sotto quello di Salmo, che ha prodotto il disco, mi è bastato per impazzire. Per la prima volta mi sono interfacciata con il mondo che volevo io.
Sembra un periodo più positivo per i giovani artisti che per quelli grossi, perché i primi trovano più facilmente serate in cui suonare. Com’è questo periodo per la tua musica?
L’ultimo anno per la mia musica è stato distruttivo, sopratutto perché un artista se vive nelle sue quattro mura tutti i giorni poi non ha più niente da scrivere. Della dimensione del live non ne parliamo, sopratutto per me che sono più forte sul palco che in un disco. Ed è il posto in cui mi diverto di più.
Che ne pensi di tutta questa storia dei concerti nel metaverso? Un mondo parallelo è quello che ci serve?
La tecnologia e l’evoluzione affascinano, si creano sempre nuove opportunità. Guardare un concerto nel metaverso non è certo la stessa cosa che vederlo dal vivo, ma è un ottimo compromesso per farlo comunque. Se vuoi vedere un live di Marilyn Manson puoi farlo. Ovviamente ci sarà da adattarsi e tutti quanti sperano che i concerti tornino ad essere dal vivo, ma questo permette anche a chi non può andarci di vederli lo stesso.
Il primo disco è lontano o ci stai lavorando?
La risposta che posso dare ufficialmente è: sto lavorando tantissimo e ho un sacco di pezzi in cantiere (ride, ndr).