Dopo anni di singoli riconosciuti all’interno della scena, Bresh ha capito che era il momento di pubblicare “Che Io Mi Aiuti“, un album intenso che ci permette di ripercorrere una storia partita dai sobborghi di Genova e arrivata finalmente a un punto di sfondamento.
Nonostante ormai abbia casa a Milano, Bresh la sua vita a Genova se la porta tutta dietro. Si sente nelle sue parole, nel suo entusiasmo, si percepisce dal suo modo di vivere la musica.
In occasione del lancio del disco l’abbiamo incontrato per capire cosa si nasconde dietro al ragazzo cresciuto al fianco dell’ondata genovese.
“Che Io Mi Aiuti” è un titolo molto interessante. Quali sono le difficoltà che hai trovato e in cui ti sei dovuto aiutare da solo?
“È un vortice di cose che possono comprendere sicuramente la carriera e il settarsi nella vita in generale, quindi trovare una casa, trovare un equilibrio – che non esiste ancora oggi. Che io mi aiuti nel senso che a una certa devi prendere le tue idee e chiarirle, perché il vero problema di tutti noi è che non abbiamo le idee chiare, no? Dal momento che ce le hai poi vai dritto, altrimenti non vai da nessuna parte.”
Questo disco arriva dopo 4 anni di singoli. Come mai è passato così tanto tempo?
“Sono andato avanti di singoli un po’ perché appunto, non avere le idee chiare significa anche non occupare tempo a far musica. Io a fare una canzone non ci metto molto, non sono uno di quelli lenti a scrivere. Uno dei miei problemi, ad esempio, è stato avere tante tracce in un certo periodo da non sapere più come metterle in un album. Allora mi sono detto di aspettare. Ero un po’ in confusione. Non ho aspettato tanto perché avevo paura di far uscire cose, ma perché non era la wave, ho fatto proprio altre cose nella vita, ho vissuto altro, mi sono trasferito qua, un po’ lavoravo, un po’ no, e quindi ho dovuto un attimo settarmi.”
Quando hai capito che era arrivato il momento per fare un album?
“Io pensavo di essere sempre lì a fare un album. Ogni volta che facevo una canzone pensavo sarebbe entrata nel mio ipotetico album, ma c’era sempre confusione. La concretezza è arrivata quando ho conosciuto Shune. Ci siamo trovati benissimo. Nel 2018 siamo stati tutta l’esatte a fare canzoni, le abbiamo fatte anche in breve tempo. Da quando c’è lui abbiamo concretizzato.”
Com’è stata scelta dei produttori e dei beat? È rinato tutto il processo quando hai conosciuto Shune o avevi già delle idee?
“Avevo delle idee, avevo il suono, e Shune è riuscito a prendere quel suono e a farlo nostro. Io avevo già un’idea del sound che volevo, del mio genere. Shune era la persona adatta.”
Che musica ascoltavi mentre eri al lavoro sul disco?
“Niente, te lo giuro (ride, ndr). Ora sto ascoltando musica, sono tipo otto o nove mesi di fila che ascolto musica, ma ho fatto dei periodi della mia vita in cui non ascoltavo niente. Magari durano 6 mesi, però succede. Poi mi faccio il periodo annuale di De André, quello sempre, fin da quando sono bambino. Oppure ascolto solo una cosa, qualcosa tipo Meek Mill, che è tutt’altro genere rispetto a quello che faccio io; io ascolto sempre roba diversa rispetto a quello che faccio. Per dire, preferivo Meek Mill rispetto a Mac Miller, anche se faccio questo genere. A pensarci, credo Meek Mill sia il mio artista preferito. Però anche French, Kanye… Ce ne sono mille, dovrei citartene una valanga.”
Mi faccio il periodo annuale di De André, quello sempre, fin da quando sono bambino.
Bresh
Parlando di origini, una delle cose che ci è piaciuta del tuo release party è che c’era il gruppo di amici, la famiglia, non era una cosa impostata.
“Sì perché poi le persone non si divertono mai a questi eventi, la gente dice vado? Con chi? Con il mio amico. Ci divertiamo? No. Era una situazione tranquilla, serena.”
Cosa significa per te avere il team? da chi è composto e come si evoluto negli anni?
“Se parliamo di famiglia artistica, sono sempre stati – partendo dallo Studio Ostile, che è lo studio da cui partiamo tutti a Genova – Nader, Dala e tutti i ragazzi di quella generazione lì. Quelli con cui poi sono rimasto legato sono Mario (Tedua, ndr), Vaz Tè, Disme, Izi, Rave, Sonny e Rkomi, perché comunque ci siamo trasferiti nel 2015 tutti insieme. Eravamo io, Mario, Rkomi e Sonny, siamo stati nella stessa casa per un anno e mezzo. Anche Mirko, volente o nolente, è entrato a far parte di questa ondata di Genova (ride, ndr).
Loro sono la famiglia artistica, poi se ne sono aggiunti altri, come Garelli. Siamo andati in studio a Corvetto e ci abbiamo fatto “Amici Miei”, lo abbiamo affittato per anni. E ovviamente anche Chris Nolan, Shune.”
“Amici Miei” è uno dei progetti più fighi degli ultimi anni. Non siete gente che fa musica insieme e basta, fate musica e nel tempo libero siete insieme, a fare la spesa andate insieme.
“Esatto, è quello. Quando parlo di team nel disco, lo faccio proprio con naturalezza. C’è una diatriba in corso con Mario su Amici Miei, siamo in due posizioni contrapposte sul metterlo o non metterlo su Spotify. È un piccolo cult, ha un filo conduttore.”
Uno dei temi che mi sembra di sentire dal disco è quello di voler arrivare tutti assieme, hai citato più volte il fatto di portare gli amici in alto. È una cosa che avete un po’ tutti tra di voi.
“È una forma di comunismo moderno, più solidale. Un comunismo capitalistico in realtà, dentro l’industria (ride, ndr). È una cosa molto naturale, perché quando sei in gruppo è la stessa cosa, se non hai 10 euro per la cena stasera te li metto io e viceversa. Mario e Izi hanno contribuito, a me piace farlo con Sonny, è un po’ una scaletta. Perché vogliamo divertirci tutti assieme, quindi se c’è da andare al parco divertimenti e possono andarci solo in due è un peccato, perché vogliamo andarci tutti. Siamo una compagnia artistica, anche se poi ognuno di noi ha le proprie compagnie di quartiere.”
La partenza dal basso, di vita operaia, è una cosa che si sente spesso. Quella del lavoro è un’impronta che ti ha dato la tua famiglia?
“Premetto, io vengo da una famiglia che non ha grandi problemi, ho avuto quello che potevo avere. Mio padre faceva il portuale, mia madre aveva una piccola impresa con due operai che era di suo padre, mio nonno, che costruiva con le mani muretti a secco. Poi la cosa si è un po’ evoluta, ma oggi non esiste più perché ovviamente l’edilizia è cambiata. Quindi c’è una grande umiltà, non siamo degli sceicchi, abbiamo una moto e due macchine.”
Quello che si sente molto della tua parte operaia è la vicinanza col mare, che va da “Il Bar Dei Miei” a “Marilena”, fino a molti brani dell’album.
“È passione per la sostanza, per la gente, per la società che si muove. Anche il confrontare due mondi, quello di Milano, vorticoso, industriale, metropolitano, dell’hype, dello spettacolo e quello totalmente differente di Genova.”
Avete anche un forte legame con lo sport, citate tanto il calcio, siete tutti tifosi?
“No, il tifoso sono solo io e basto per tutti (ride, ndr). Sono un malato del Genoa fin da quando sono bambino e a Genova è sentita tanto, ho anche dei tatuaggi. Ha molta rilevanza, l’ambiente dello stadio è molto riconosciuto da noi. La cosa assurda a Milano è che qua ci sono mille ambienti diversi quindi anche l’ambiente dello stadio è per forza di cose diverso. Io ho passato tutta la vita qua a vedere il Genoa e pensavo di essere un ultras, poi arrivi a Milano e non gliene frega un cazzo a nessuno (ride, ndr). Infatti tutte le domeniche torno a casa, perché non posso non vedere il Genoa allo stadio.”
Qual è il valore aggiunto che ti ha dato Genova?
“Non lo so, devi chiederlo a lei. Da quello che sento dire il fatto delle parole, questo sottofondo di poesia che io non voglio dire, però lo sento tra i fan. Questo forse, l’esperienza del cantautorato che c’è là.”
Una cosa che abbiamo notato è la volontà di avere un peso sociale. Lo fai riferendoti a te stesso o cerchi una visione d’insieme, quindi più ampia?
“In realtà anche le mie rime più impegnate socialmente sono sempre riferite a me stesso, però è chiaro che ciò si riflette e fa riflettere. C’è un po’ di critica perché io cerco di fare al meglio quello che devo fare, ed è normale che si vedano anche gli errori degli altri ma quelli cerco sempre di giustificarli. Non voglio cambiare e non puoi cambiare senza capire, perché facendo muro contro muro non si ottieni niente. Bisogna prima capire, poi si agisce a seconda di quello che si apprende. Vale per ogni tema o minoranza, se poi si trova il modo di assimilarlo, ognuno con la sua libertà, ben venga. Però non si può prendere una posizione per principio.”
In “No Heroes”, alla fine del ritornello dici “li hanno segnati, credo, sopra un taccuino nero”. Hai conosciuto persone che ritenevi degli eroi e che poi ti hanno deluso?
“È una roba che riguarda un po’ gli eroi che avevi da bambino, ad esempio quelli dei fumetti, che ormai sono cambiati. “Segnati su un taccuino nero”, nel senso che quelli che per me erano buoni non ci sono neanche più, li hanno messi da parte.”