Intervista a Enzo Dong: lo specchio di una generazione

Enzo Dong ha pubblicato oggi il suo primo album, un biglietto da visita che ha voluto presentare con una serie di ospiti che colpiscono prima l’occhio e poi il cuore. Ascoltandolo una, due, tre o quattro volte, vi renderete conto che niente in questo disco è stato lasciato al caso, c’è tutto, tutto quello che Enzo è stato, vuole essere e diventerà.

Dio Perdona Io No” è un progetto vissuto per anni, gli anni in cui il rapper è diventato tale senza neanche rendersene conto, catapultato in una Milano che gli ha dato tanto ma che gli ha tolto le sue strade. Enzo ha un solo obiettivo, una sola premura, quella di far mangiare la sua famiglia ed è pronto a prendersi tutti quanti i colpi di 50 Cent pur di tornare a casa con la vittoria in mano.

Lo abbiamo incontrato e dopo averci fatto ascoltare qualche traccia, partendo da una prorompente “Dalle Vele”, ci ha spiegato qual è la battaglia che sta combattendo, la paura del pregiudizio e il cambiamento che ancora non si aspetta.

Hai aspettato a fare un disco perché non ti sentivi maturo. Da cosa dipende la maturità di una persona secondo te e cosa ti ha fatto sentire davvero pronto a realizzare un album?

“Io penso che un artista, agli albori delle sue uscite, non debba per forza esordire con un album. Penso che bisogna prima costruirsi una fanbase solida, vivere certe cose e sentirsi pronti; avere una visione larga di come dovrebbe essere il proprio album. Prima di farlo mi sono domandato varie volte se era il momento giusto, perché allora avrei fatto il mio primo disco due anni fa e magari non sarei stato ancora pronto, sarebbe stato un flop e oggi non sarei qua. Quindi mi sono ritagliato il mio tempo – a parte le difficoltà che si sono aggiunte per costruire l’album – per cercare di capire il momento giusto per farlo.”

C’è stato un momento in cui hai detto “è ora”?

“Sì, ed è stato tipo un mese fa (ride, ndr).”

Dove Ognuno Nasce Giudicato. Pensi che con l’arte si possa riuscire a liberarsi dalle etichette? C’è un modo per uscire dal pregiudizio?

“Io credo che l’arte sia fondamentale per dare una chance ai ragazzi che nella vita non hanno avuto niente. Ad esempio, nel mio quartiere i ragazzi sono costretti a fare un certo tipo di cose, quindi io venendo da là voglio rappresentare quelle persone e voglio fargli capire che con l’arte, la musica, il teatro, il cinema, il disegno, con qualsiasi cosa che sia artistica si può arrivare a prendersi delle grosse soddisfazioni. Infatti al giorno d’oggi il rap sta aumentando molto anche a Napoli, in periferia.”

Essere giudicati è un rischio da correre quando si osa e quando si è sé stessi.

Enzo Dong

“Essere giudicati è un po’ la paura di tutti, come la mia, per questo mi chiamo Dove Ognuno Nasce Giudicato, perché faccio sempre le cose per come le sento, per come le penso, mostro sempre me stesso per come sono, la verità per com’è. Essere giudicati è un rischio da correre quando si osa e quando si è sé stessi. Ma non significa per forza che sia una cosa negativa che ti porta a fallire, l’importante è insistere e poi sorprendere le persone, farli ricredere.”

La copertina del disco è un riferimento a “Get Rich Or Die Tryin’” di 50 Cent. Com’è nata l’idea e cosa vuole rappresentare?

“Questa copertina rappresenta la mia reazione a tutti i problemi che ho avuto nel passato, a tutte le volte che mi hanno messo i bastoni tra le ruote, che hanno cercato di uccidermi come 50 Cent, nel senso musicale, artistico, hanno cercato di snobbarmi, di levarmi di mezzo. Io mi sento di rappresentare la persona che subisce le ingiustizie, quindi “Dio Perdona Io No”, io non perdono le ingiustizie che mi sono state fatte; come 50 Cent, gli hanno sparato 7/8 volte ed è ancora in vita, io sto facendo la stessa cosa con la musica.”

Sono un essere umano, anche io soffro, anche io piango, mi mostro forte e allegro ma anche io ho i miei punti deboli.

Enzo Dong

Parli della tua città cercando di rappresentare tutti coloro che non necessariamente vivono a Napoli, ma che provano gli stessi sentimenti. Qual è la battaglia che stai combattendo?

“Penso che la battaglia che sto combattendo principalmente è quella con me stesso. Sto lottando per dimostrare a me stesso che io, avendo sofferto un determinato tipo di cose, posso reagire e dimostrami che quelle cose mi servivano come spinta, come reazione per prendermi delle soddisfazioni e levarmi dei macigni dalle scarpe. Poi ovviamente voglio cercare di dare voce ai ragazzi come me, perché io sono una persona come tante, sono un essere umano, anche io soffro, anche io piango, mi mostro forte e allegro ma anche io ho i miei punti deboli.

Io penso che una persona diventi forte quando afferma e dimostra i propri punti deboli.”

È pesante la responsabilità di essere la voce di una città così complicata e incompresa?

“Io penso di non essere la voce di una città. Vorrei diventare la voce di una generazione che va al di fuori di Napoli. Io voglio rappresentare le persone che soffrono e basta, possono soffrire per qualsiasi tipo di problema, se loro si rispecchiano nella mia musica e sentono raccontare da me quello che hanno vissuto, allora succede un altro tipo di cosa.

Io non voglio rappresentare solo un posto, una zona, io voglio rappresentare le persone che vivono in un posto, che può essere qualsiasi.”

Rappare in napoletano permette di dare un grande spazio al contesto ma, se vogliamo vederla anche da un altro lato, ci sono persone che in questo modo capiscono più difficilmente ciò che vuoi dire. Cosa determina il fatto che tu scriva in italiano o in napoletano?

“Nell’album in “O’ Rass” c’è il ritornello in napoletano, poi le strofe sono in italiano, mentre su Spotify c’è qualche slogan in napoletano e anche su qualche altra traccia ci sono delle citazioni. Io però riesco a mantenere la mentalità napoletana anche in un brano in cui rappo prettamente in italiano, come è stato per “Higuain”, “Secondigliano Regna” o “Italia Uno”, che sono dei pezzi che hanno una mentalità napoletana, però alla fine nel brano sto comunque rappando in italiano.”

Penso che il mio punto di forza sia proprio questo, quello di riuscire a trasmettere in italiano una chiave napoletana del mio messaggio.

Enzo Dong

Non ti viene mai la voglia di scrivere in napoletano?

“No, perché mi trovo meglio in italiano, mi sento più forte. Per la tecnica, le punchline, per le cose che posso fare. Infatti in italiano non ho ancora dimostrato tutto il mio potenziale.”

Soldi e droga sono molto sdoganati nei brani di oggi e pure tu ne parli, ma – dimmi se sbaglio – mi sembra che tratti il tema delle droghe in maniera più cauta. È volontario questo approccio?

“Io penso che chi parla di droga, pistole, armi dal mattino alla sera non le ha mai vissute. Io che sono cauto lo faccio perché so cosa significa vedere – e rischiare – certe cose quotidianamente. I miei amici, a Secondigliano… le cose si sanno come stanno, no? Sono nato e cresciuto nel mio quartiere, che è un quartiere comunque criminale, nonostante ci siano tantissime brave persone. Queste cose hanno un peso, non puoi parlarne come se fossero dei giochi, con leggerezza.

Ci sono persone che vivono queste cose realmente dalla mattina alla sera; a me i rapper che ne parlano sempre, però poi obiettivamente non hanno mai visto un cazzo, mi danno fastidio capito? E non mi fanno paura, sono dei pagliacci.”

Alla fine tu vai a spostare l’attenzione, che spesso è messa su cose superficiali, su qualcosa che invece è reale e può servire ai ragazzi.

“Sì, in un album, in 15 tracce, un artista non può mostrare sé stesso. Avrei dovuto fare dieci dischi di 20 tracce a testa per raccontare tutto ciò che vorrei, però in un disco cerco di mettere me in tutte le versioni, a 360 gradi, tutti i temi che ho vissuto, tutte le cose che ho visto. Potrei parlare di qualsiasi argomento alla fine, anche facendolo con leggerezza.”

Nonostante quest’ondata di rap stia coinvolgendo e facendo muovere migliaia di ragazzi, Napoli mi sembra ancora un po’ restia. Volevo chiederti: quanto si vive l’hip hop a Napoli, ma soprattutto, quanto ci si butta? O è solo difficile uscire dalla propria città?

“Secondo me a Napoli una scena sta nascendo, ci sono tanti ragazzi che stanno iniziando a fare musica, a rappare. Anche se si sta creando un po’ di confusione, non è che tutti sono nati per cantare, da un lato sta diventando anche una moda, quindi qualsiasi personaggio si improvvisa, accende il microfono, mette l’autotune, fa le cover delle canzoni e, giusto perché su internet funzionano i fenomeni da baraccone, riescono a fare milioni di visualizzazioni, ma poi gli artisti sono finiti perché di artista non hanno niente.

A prescindere da questo, la scena a Napoli sta nascendo, ci sono tanti bravi ragazzi, tanti bravi rapper. Non so, forse la voce di Napoli arriva meno per il dialetto, per le infrastrutture o per la spinta, non te lo so dire per quanto riguarda gli emergenti. Però, per quanto riguarda i non emergenti da oggi in poi ci sono io (ride, ndr).”

Nell’album hai deciso di mettere tutti nomi molti importanti. Come mai non troviamo nessuno delle tue parti?

“Non è stato voluto, le mie collaborazioni sono nate con naturalezza. C’è la Dark, Tedua, che siamo amicissimi da un sacco di tempo, quindi era già in programma di fare delle tracce assieme. Le altre sono nate perché comunque Fibra per me è uno dei padri del rap italiano, è un artista con il quale ho scoperto e iniziato ad ascoltare il rap italiano.

Ci sono tutti artisti con i quali ho voluto collaborare in questo momento. Ovviamente ci saranno altri dischi e altre collaborazioni. Però non c’è un motivo per il quale non c’è un altro artista napoletano, è un caso.

Il mio disco è un disco italiano e punto ad arrivare all’Italia, forse anche per questo sono stato influenzato nell’avere un certo tipo di featuring, che nascono comunque per apprezzamento reciproco.”

Nonostante il successo, ad esempio dopo “Higuain”, hai detto spesso che la tua vita non è ancora cambiata. Qual è il cambiamento che cerchi? Pensi di trovarlo con questo disco?

“Il cambiamento che cerco non è mai avvenuto perché in Italia siamo in un Paese dove diventi povero ma famoso. Nel senso, sei famoso però non hai ancora i soldi per definirti tale. Il famoso viene accostato al ricco, però non è così. In Italia gli artisti sono famosi però non hanno i soldi dei rapper americani, che esplodono e ne fanno un sacco. Qua in Italia il discorso secondo me è diverso, anche perché siamo in una cerchia più ristretta, ci sono meno collaborazioni rispetto al panorama mondiale. 

Il mio cambiamento non so se arriverà dopo questo disco, perché comunque il lavoro è lungo. Ho in testa delle cose future da fare.”

Il cambiamento che cerco io in realtà non so quale sia, non è basato solo sui soldi, capito?

Enzo Dong

“Vivere il non cambiamento è pure un motivo per il quale uno fa la musica con il dolore di farla. Se le cose cambiano e iniziano ad andare troppo bene magari si perde anche quella forza che si ha nei brani. Magari ad alcuni gli vanno talmente bene le cose che poi musicalmente calano perché hanno perso quella fame, hanno perso quella rabbia di raccontare le cose in un certo tipo di modo. Il cambiamento che cerco non è preciso.”

Ascoltate qui sotto “Dio Perdona Io No”.