“Il tocco di Mida” è il libro di Don Joe, un libro che parla della storia dei Club Dogo e che attraverso essa ripercorre gli anni in cui l’hip hop americano iniziava a seminare la sua cultura in Italia.
Tra i successi, le avventure e le cadute, Don Joe ha raccontato in modo genuino e sincero la sua scalata fino alla posizione in cui si trova adesso. Abbiamo pensato che nessuno meglio di lui potesse svelarci i segreti del mestiere.
Cosa determina il successo
Ha capito fino in fondo che ce l’avevo fatta, a camparci, solo quando mi ha visto per la prima volta in televisione.
Il tocco di Mida
Fa strano vedere che i genitori, o comunque gli adulti, considerino la televisione come un traguardo, un rapper in tv 15 anni fa non era cosa da poco. Come è cambiata l’immagine che la televisione dà del rapper?
“Oggi è cambiato il metodo di fruizione dell’informazione, oltre al social che certe volte non dimostra realmente quello che sta succedendo, allo stesso modo la televisore enfatizza un po’ troppo.
Non so fino a che punto è cambiata. Anche perché quali rapper vanno in tv? Quelli ad un livello di carriera di 15/20 anni, c’è J-Ax, Guè Pequeno, Jake, Sfera che è un fenomeno perché rappresenta la nuova generazione, però è l’unico che ha avuto oggi un successo così eccessivo, tanto da andare in televisione, perché è questo che serve a loro, vedi X Factor.”
Il fatto è che la mentalità di quel periodo lì era “trovati un lavoro che abbia un contratto.
Don Joe ad Outpump
“Il problema qual è, che la televisione è un’arma a doppio taglio. Se non sei forte a gestirla rischi anche che ti penalizzi, quindi non so, non ti so dire se era meglio ieri o oggi. Noi l’abbiamo vissuta male nel momento di successo, perché ci chiamavano per romperci il cazzo, per parlare solo di cose scomode, non per aiutarci nella crescita. Io l’ho vissuta male, devo dire la verità, però sai, se sei bravo a gestirla funziona ancora oggi.”
Ma non c’era davvero altro che i tuoi genitori potevano vedere per rendersi conto del tuo successo?
“Vedevano che andavo in giro a far serate, a lavorare, ma vengo da una generazione in cui la mentalità era ‘trovati un lavoro che abbia un contratto’. Io mi sono trovato davanti a un bivio: se fare il ragioniere, quello per cui avevo studiato, o fare musica, e avevo richieste grosse dalle banche. Loro l’hanno visto molto lontano il discorso del successo e del mantenermi da solo, quindi finché non mi hanno visto in televisione… Per loro rappresenta una cosa gigante, capisci? È il luogo in cui hanno sempre visto Ramazzotti e Claudio Baglioni.”
Copiare l’America non serve
Se avessi cercato semplicemente di copiare quello che andava di moda in America, non sarei mai arrivato da nessuna parte.
Il tocco di Mida
Per fare successo in Italia bisogna necessariamente fare musica per l’Italia? O può essere giusto e produttivo fare musica ispirandosi a quello che viene fatto in America?
“Sicuramente ieri era così, dovevi utilizzare un linguaggio molto vicino a quello del fruitore della tua musica, anche per età. Adesso non c’è più limite, nello slang spesso e volentieri si usano parole in inglese che era impensabile usare 20 anni fa.
Uno come Sfera ad esempio è nato e cresciuto con il social, vuoi o non vuoi, devi dare un immaginario, Instagram funziona per immagini. La sua rispecchia perfettamente quello che succede in America, nelle nuove generazioni, sia nei testi che nel modo di vestire, di approcciarsi, di parlare, di stare in televisione.
Secondo me ha anche un po’ dovuto farlo, credo che chiunque si accorga che non è il linguaggio, a livello culturale, che lo ha fatto diventare famoso, semplicemente è molto vicino ai beniamini dei ragazzi americani e incarna perfettamente quella cosa lì: il ragazzo che fa successo, che ha l’orologio coi diamanti. Non sono contro, però è lo specchio di oggi, dei tempi. Che sia bene o male, ognuno ha il suo pensiero.”
Fermarsi è importante
Con gli anni ho imparato a riconoscere quando devo fermarmi e, quando arriva quel momento, non ci sono cazzi che tengano: cascasse il mondo, mi fermo.
Il tocco di Mida
È facile capire quel momento?
“Sì, è necessario conoscere il proprio limite. Io mi ritengo uno abbastanza cosciente. Se Dogozilla è una realtà che è partita da produttori più giovani, che portavano la musica ad un altro livello – mettendomi anche in mezzo, perché sono un po’ regista – è perché credo nella lungimiranza, nel fatto che poi devi passare il testimone.
Il mio limite lo riconosco perché le nuove generazioni lavorano in un modo che è completamente diverso dal mio. Io posso metterci due mesi a lavorare a delle cose, mentre loro ci mettono due giorni. È necessario riconoscerlo per far andare avanti la macchina.”
Qui parli anche dei giovani rapper e della spensieratezza che voi, al contrario loro, avevate, ma non dovrebbe essere il contrario? Oggi le possibilità ci sono, prima no. Io sarei stata più preoccupata nel vostro caso.
“Si tratta di spensieratezza nel fare musica, nel non dover gestire all’inizio di una carriera cose che non ti riguardano. I ragazzi oggi hanno un concetto di self made che è un po’ sbagliato, come devo fare tutto io, perché sono in grado di farlo, ma magari ha due anni di carriera. La spensieratezza la intendevo in quel senso lì: noi facevamo musica, poi c’era tutto il resto.”
Però anche voi, soprattutto all’inizio, facevate tutto da soli.
“Sì, ma noi sapevamo che avevamo il compito di fare musica, non avevamo il compito di gestire tutta la faccenda manageriale e i social. Oggi vanno in un’ansia che non hai capito, io lo vedo anche negli artisti che ho sotto contratto con Dogozilla, la mattina si svegliano pensando a cose che non riguardano la musica, che è sbagliato.
Tu cosa fai, il cantante? Pensa a scrivere. Non è che non credono nel team di persone, ma soffrono il fatto di dover controllare tutto in prima persona e questo gli provoca un’ansia tremenda, tanto che poi non riescono neanche più a fare il loro.
Se lo vai a dire a chiunque abbia dieci anni di carriera ti dirà che state sbagliando voi oggi, non noi prima. Io la mattina mica mi sveglio e penso oggi alle 14 cosa posto? A me non me ne frega un cazzo, posto quando voglio.”
Vendersi o non vendersi?
Molti avevano la percezione che puntare sul mercato mainstream, ovvero cercare di farsi ascoltare anche al di fuori del circuito dei puristi, equivalesse a vendersi. A furia di chiudersi in sé stessa, la scena aveva finito per sabotarsi da sola.
Il tocco di Mida
Sapersi vendere è una parte integrante dell’industria musicale, eppure se fai soldi – secondo alcuni – non appartieni più al mondo che il rap dovrebbe raccontare. C’è un giusto compromesso per equilibrare le due cose?
“Io ho lavorato 6 anni in uno studio e non ho mai guadagnato una lira, però il mio pensiero era quello di assimilare, prendere le conoscenze e poi applicarle a quello che sarebbe diventato il mio lavoro. Il tric più o meno è lo stesso.
Oggi ci sono i modi per farsi conoscere, senza aver bisogno per forza di vendere o vendersi. Stiamo parlando di ragazzi che hanno 20 anni e che non vogliono lavorare perché vedono che con il rap possono fare successo, ma non è quello il tric. Vuoi farti conoscere? Pensi di essere bravo nella musica? Okay, dimostralo.”
Io facevo due lavori e poi la sera andavo in studio, non è che sono io un ritardato.
Don Joe ad Outpump
“La giornata è fatta di tante ore. Io lavoravo, avevo vent’anni, un’altra energia e avevo voglia di farlo. Se hai voglia di farlo lo fai. Se vuoi portare la tua musica a un certo livello e continui a farlo come un hobby evidentemente stai sbagliando qualcosa.”
I ragazzi ti scrivono mai per farti sentire le loro cose?
“Mi mandando tantissime cose in DM e alcuni sono a un livello imbarazzante, eppure quando ti mandano la mail ti scrivono ‘tu non hai mai sentito una cosa del genere, sto solo aspettando che qualcuno creda in me’. Ma cosa stai dicendo? I ragazzi devono riconoscere il limite, sennò significa che hanno un problema con loro stessi e non posso risolverglielo io e nemmeno la gente che li ascolterà domani.”
Non ci sono scuse per fallire
Il messaggio più forte che io ho percepito da questo libro è che non ci sono scuse al fallimento. Lo hai sempre pensato anche tu o hai dovuto lavorarci?
“Sono sempre partito con quell’idea lì, da quando ho iniziato. Le persone che mi hanno insegnato il lavoro erano molto più grandi di me e mi hanno inculcato delle cose quasi come se fossero dei genitori. Oggi anche quello manca, una guida. Tanti si ritrovano soli e hanno idee abbastanza confuse su quello che potrebbe essere il successo.
Io non faccio l’artista, faccio il produttore ed è ben diverso. Non ho magari le pare che può avere un ragazzo che fa rap oggi e deve fare i conti con diverse cose. Prima, ad esempio, non c’era lo sbatti di essere bellocci per andare su Instagram, ora è molto più paranoica la cosa, non è facile.”
Tanti si ritrovano soli e hanno idee abbastanza confuse su quello che potrebbe essere il successo.
Don Joe ad Outpump
“Ti diranno sempre che ci sono cose che funzionano di più o di meno, però alla fine si vede chi ha le caratteristiche giuste, funziona di più avere un po’ di quello, quello e quello, piuttosto che avere 100% di talento e magari zero di immagine.”
Uscire dalla fila è fondamentale
Era la foto di una scheda audio un po’ ammaccata. “Penso sia tua, bro: è di qualche anno fa” scriveva Charlie. “Ha fatto il suo dovere anche con me”.
Il tocco di Mida
Sei sempre stato dalla parte dei giovani e hai sempre dato una mano a chi secondo te meritava. Con Charlie non avevi capito al volo chi sarebbe diventato. Cos’è che ti fa dire “questo arriverà lontano”?
“Non è che non mi ero accorto di quello che avevo sentito, le cose di Charlie che poi hanno sfondato sono arrivate un anno e mezzo dopo, quindi ci ha dovuto lavorare. Quello che ho sentito io era un livello abbastanza basic.
Mi accorgo quando uno ha talento quando mi sveglia delle cose particolari. Come nei ragazzi che fanno rap, alcuni si capiscono ad esempio dal tono della voce, da come ti arriva. Ci sono voci che quando le registri non hai bisogno di far niente, ce l’hanno già, non devi enfatizzarle con frequenze particolari, è proprio originalità. Così nella produzione, quando esci dalla coda e vai da un’altra parte vuol dire che hai fatto qualcosa di originale.”
Chi non è vero la paga
Arrivati a un certo livello, molti cominciano a indossare una maschera per proteggersi, per potersi mostrare sempre al meglio senza dover rivelare troppo di sé.
Il tocco di Mida
Con i social secondo te, è più facile o difficile indossare la maschera? Perché è vero che puoi far vedere quello che vuoi però comunque mostri una buona parte della tua vita, mentre prima potevi far finta di essere chiunque, tanto nessuno avrebbe visto la tua vita da vicino.
“Bravissima. Questo per aggiungere uno sbattimento in più a chi fa l’artista oggi (ride, ndr). È una decisione personale, può esserci un management che ti dice come apparire, cosa postare, ma la macchina si muoverà dopo o no? Nel senso, quando avrai raggiunto un milione solo con le foto ci andrai in giro? Guarda che tanti, anche della generazione di Sfera, la stanno pagando.”
La stanno pagando perché?
“Perché hanno voluto far vedere che loro erano gangster, ma non ha funzionato. Perché poi vai in strada e non sei in cameretta con tua madre. Il rap è una cosa tosta, noi abbiamo fatto i conti diverse volte con questo.”
Devi stare per strada perché parli della strada.
Don Joe ad Outpump
“Okay, puoi fare il rapper che parla di cose simpatiche e nessuno ti dirà niente, ma quanti vogliono farlo? Il 70% dei ragazzi vuole parlare di quello che succede per strada, non di cose finte.
Io posso parlare della strada perché ci sono stato, tanti di questi ragazzi purtroppo no, quindi bella la faccia, ma quando poi sei per strada non è così e si rifletterà anche sulla tua musica, non funziona.”
Lo stesso Jay-Z in un’intervista ha detto che l’80% delle cose che i rapper scrivono nei testi sono false, mi ha stupito.
“Ma in America ancora di più, quell’immaginario è arrivato da lì. Vedi uno come Jay-Z, che viene dalla mia generazione, te lo dice, perché è stato in mezzo alla strada, ha visto quelle cose e le racconta, e non ha problemi a stare in mezzo alla strada così come nel salotto. Credo sia uno dei pochi insieme a Eminem, 50 Cent, che può farlo. Il successo non li ha mai mollati, sono stati proprio prescelti per fare quella cosa lì.”
Io consiglio di fare delle cose quando si è proprio nati per quella roba lì.
Don Joe ad Outpump
“Oggi ricordi artisti che dopo 10 anni hanno ancora successo? Io ne ho visti mille arrivare ad essere milionari e poi sparire. Ti faccio un esempio italiano che funziona tantissimo: J-Ax. Lui oltre a fare musica da quartiere, ha fatto tante altre cose, ha fatto “Tocca Qui”, “Il Funkytarro”, “Così Com’è”, però a uno come lui la strada non gliela toglierai mai. Sa dove stare, sia in mezzo alla strada che nel salotto, e lo dimostra.”
Nella trap c’è un po’ questo problema, uno Sfera ad esempio è rispettato perché viene davvero da lì e lo ha raccontato.
“Sfera è molto vicino alle cose che abbiamo fatto noi all’inizio. Se tu racconti cose del quartiere, ma non dici che a casa hai l’AK-47, a me va bene. Se i tuoi amici smazzano coca tutto il giorno, va bene. Ma alcuni ragazzi sono imbarazzanti.”
Vorrei andare a vedere questo concetto di “trap house” di cui parlano tutti, vorrei andare a vedere dove vivono
Don Joe ad Outpump
Alzare la famosa asticella
Il viaggio in America è stato una rivelazione, hai lavorato con Chris Athens, conosciuto Rick Ross, French Montana, visto addirittura Tupac a Milano. Cosa ti sei portato nel bagaglio?
“Quando arrivi in America e sei un artista hip hop ti accorgi di quanto culturalmente da noi manchi questa cosa. Lì lo respiri, la musica la percepisci da qualsiasi cosa tu veda, dal taxi, dal club, le strade, i posti dove è nata: se vai a Brooklyn capisci perché Jay-Z, Biggie, gente venuta da là, parlano di quelle cose nei testi.
A noi manca, ci abbiamo provato a crearla, dei luoghi di culto ci sono anche qui, vedi il muretto, timeout – dove andavo a comprare i dischi – Metropolis, Vag – dove andavo a comprare i vestiti. La cosa che porti nel bagaglio è proprio questa, il voler fare qualcosa a quel livello.”
La curiosità porta cultura
Spesso mi sento dire che quello di oggi è soltanto rap e che non può essere accomunato alle ideologie che si trovano dietro la cultura hip hop. Tu cosa ne pensi? Rap e hip hop vanno sempre di pari passo?
“Rap, hip hop, trap, nessuno sa cosa sono. C’è un termine per definire questa cosa ed è ‘musica urban’. L’urban racchiude ciò che arriva dal concetto di underground, di strada, ciò è stato fatto per quella cultura. Alcuni, quando ero ragazzetto io, dicevano che l’hip hop era la parte di intrattenimento, mentre il rap era la parte sociale. Facevi rap ed eri i Public Enemy, facevi hip hop ed eri Jazzy Jeff & the Fresh Prince.
Quindi la definizione per me è urban, se hai la cultura ce l’hai di tutto. Poi questi ragazzi purtroppo non sono curiosi. Io dal brano hip hop che mi piaceva cercavo di capire perché era fatto così, da dove arrivava, perché quel campione? Di chi è il campione? Quella è curiosità e la curiosità ti fa acculturare. Oggi manca molto.”
Dietro al rap non c’è la cultura, semplicemente quello. Non si vuol sapere cosa c’è stato prima.
Don Joe ad Outpump
“Prendi Jake ad esempio, ha la terza media ma è un curioso e sa tutto di tutto. I ragazzi invece, magari diplomati, a 19 anni scoprono la trap e si mettono a fare dei testi stupidi, a cosa ti è servita la scuola? Sembra la pasticca di Maccio Capatonda, che la prende per usare il 2% del cervello.
Non voglio essere il maestro di nessuno, però questa cosa oggi fa veramente paura. E non ti dico neanche se sperarlo, perché c’è un’altra chiave di lettura, perché oggi non può esserci tutta questa roba? C’è il rapper motivazionale, c’è il rapper che fa trap, quello che fa musica da club, qual è il problema? La musica è di tutti, non l’ha inventata nessuno di loro.
Io faccio anche il DJ e anche se ho fatto i Club Dogo per tutta la vita non posso andare nel club e non mettere la trap perché sono un talebano del rap. Chissene frega se stai dicendo delle cose basic per far muovere la gente, però non prenderti troppo seriamente, perché se poi mi dici che vuoi insegnare ai ragazzi, fare il professore del rap, allora no. Riconosci il tuo limite, ma non è detto che non debbano coesistere le due cose, anzi devono starci. Siamo tutti diversi, la musica è musica e ognuno troverà in questa la propria esperienza di vita.”