Anche quest’anno Milano ha aperto le porte alla Music Week, portando informazione, spunti ed esperienze in mano a coloro che amano l’industria musicale. Unione, riflessione e prospettiva sono le parole chiave necessarie per affrontare gli eventi proposti. Il Linecheck, in particolare, è riuscito a creare un luogo di incontro tra esperti e curiosi, addetti ai lavori e artisti stessi.
Date le premesse, tra ospiti e speaker c’era una persona che non poteva sicuramente mancare, Paola Zukar, che ha occupato un’intera giornata con una masterclass sui temi del management.
Abbiamo deciso quindi di farle qualche domanda, così da capire i suoi punti di vista su un genere che nel 2019 non è sicuramente lo stesso di quando ha iniziato questo lavoro.
Spesso in Italia quando un artista fa i soldi con la musica viene poi etichettato come mainstream e quindi non più “degno” del genere che rappresenta. Qual è il giusto compromesso per andare lontano senza sporcarsi le mani?
“Oggi il mainstream e l’underground si fondono come non mai. Grazie ai social e a Internet un artista può partire dal nulla e diventare grossissimo, piacere al pubblico per condivisione, per cui il concetto di underground è quasi un concetto stilistico. Chi vuol diventare mainstream oggi può farlo da camera sua, fortunatamente quello che dici è un po’ finito.
Artisti come Massimo Pericolo o Tha Supreme, sono così, immaginano la loro musica così e la propongono e la distribuiscono così. Credo che i compromessi nella parte artistica siano sempre meno, il vero compromesso oggi è quello di iniziare a lavorare, cioè ad essere professionali, presenti, parte del meccanismo e questo non a tutti piace. Anzi, quelli che di solito sono più artisti, non sono anche degli “impiegati della musica”, non stanno così dietro ai social o all’immagine.”
Quando Sfera ha portato Quavo nel suo album c’è stato un periodo in cui tutti volevano il featuring internazionale, ma ora la situazione sembra che si sia nuovamente ristabilita. Collaborare con artisti esteri è davvero conveniente per un rapper italiano?
“Sfera con Quavo aveva fatto veramente il boato, anche perché all’epoca i Migos erano grossissimi, avevano appena pubblicato un album di enorme successo e quindi è stato un colpaccio, suo e di Island.
Bisogna averne un po’ il desiderio del featuring internazionale, per esempio Marracash proprio recentemente ha detto: “io non sono mai stato così ossessionato dal riconoscimento internazionale, perché non ci ho creduto come i ragazzi più giovani che invece si sentono parte di un movimento internazionale”, che poi è quello della trap.
È vero che le lingue sono diverse – francese, inglese, italiano, tedesco – però le melodie si assomigliano e quindi un featuring internazionale ci sta anche di più su determinati tappeti musicali. Oggi è più facile che mai contattare artisti stranieri e averli sulle proprie tracce, sono anche più interessati: il nostro mercato era piccolissimo finché era relegato alla distribuzione del disco fisico, ma oggi non è più così, gli album vengono streammati e condivisi ovunque.”
Il rap non è stato percepito dall’Italia come un genere musicale
Paola Zukar
All’inizio della tua carriera, in realtà forse ancora prima, hai passato del tempo in America. Qual è il più importante insegnamento di cui hai fatto tesoro e cercato di riproporre ai tuoi artisti o, comunque, nel tuo metodo di lavoro?
“A me gli Stati Uniti hanno insegnato un mestiere. È stato il mio ‘stage’ – che poi non lo era, non ero pagata, andavo lì con i miei soldi e cercavo di imparare ogni tipo di segreto. L’insegnamento più importante è stata la qualità del lavoro, non che gli americani lavorino sempre e comunque meglio di noi, però hanno un culto della qualità, del dettaglio che fa la differenza.
Ho sempre pensato che per affermare il nostro genere in Italia avremmo dovuto avere una qualità impeccabile, un team impeccabile, sotto tutti gli aspetti, perché ci avrebbero comunque puntato il dito contro. Il rap non è stato percepito dall’Italia come un genere musicale, ‘non cantano, non hanno una bella voce, non ci sono gli strumenti sul palco’, insomma, erano sempre tante le scuse per non far passare il rap come un genere solo perché era nuovo. Quindi ho pensato che fossero queste le cose che ci servivano, la qualità, la ricerca dell’originalità, di una propria identità, e sono cose che ho imparato guardandoli lavorare.”
Oggi si pensa che il rap sia accettato soltanto perché è primo in classifica, ma continuano a esserci episodi che ci dimostrano che nonostante tutto è ancora malvisto. Nel 2019 cosa bisogna fare per lottare contro questo pregiudizio? Ce n’è bisogno?
“Il pregiudizio contro il rap c’è perché è una cosa nuova, misconosciuta, fraintesa, quindi è importante andare avanti su questa strada. I ragazzi più giovani stanno davvero facendo la differenza e credo si pongano anche molto più educatamente di quanto non facessimo noi negli anni ’90/2000. Forse anche troppo, ai nostri tempi c’era un’attitudine molto più punk, perché eravamo più vicini a quel tipo di cultura musicale lì, anche geograficamente.”
Il pregiudizio rimane
Paola Zukar
Non c’è un’ammirazione per la genialità metrica di artisti come Marra, ma anche l’uso e la scelta delle parole di un autore come Massimo Pericolo, o la genialità di Tha Supreme. Credo che, come dicevo prima, il modo migliore per lottare contro questo pregiudizio sia con la qualità della musica.”
“L’arte è un appello a cui molti rispondono senza essere chiamati”. Leo Longanesi, giornalista degli anni ‘90, pronunciò questa frase in un altro contesto e periodo. Si può riproporre anche nei nostri anni?
“Non lo conoscevo questo aforisma di Leo Longanesi (ride, ndr). Beh, certo che si può riproporre anche in questi anni, anzi, lo trovo più attuale che mai.”
Era da un po’ che non prendevi nuovi artisti sotto la tua ala, eppure con l’ondata della trap, dal 2015/16 a oggi, ci sono stati diversi artisti giovanissimi che si sono affacciati al genere. Poi è arrivata Madame e l’hai acchiappata al volo. Cosa avevano tutti gli altri che non ti convinceva?
“Madame, ovvero una ragazza che si proponesse nel rap, l’ho cercata parecchio – non cercandola, perché gli artisti non li cerchi, altrimenti poi rischi di volerlo così tanto che poi prendi qualcuno che forse non volevi. Le cose giuste arrivano al momento giusto. Non è che non mi convincessero delle cose della trap, tanti artisti come Sfera, Ghali, erano già accasati, nascevano con un loro management.
Questa cosa di lavorare in team si è capita molto, soprattutto i questi anni dove devi essere trasversale su più livelli, per cui molti di loro erano già arrivati con un loro management. Alle volte magari improvvisato, ma molti si sono rivelati più che validi perché hanno sviluppato bene le carriere di tanti.
Quando ho sentito “17”, tornando a Madame, erano davvero anni che volevo contribuire a promuovere una traccia come quella. Io negli artisti mi devo riconoscere e per quanto siamo distanti di età con lei, o come siamo differenti con Fibra, Marra o Clemente, devono rappresentarmi per poter riuscire a farmi dare il meglio.”
Con Madame ti sei buttata in una nuova esperienza. Cosa trovi di diverso nel gestire un artista di una nuovissima, quasi prossima, generazione rispetto alla vecchia con la quale hai iniziato?
“Io lavoro anche con un altro ragazzo giovanissimo, Kina, che è un produttore di Acerra, ha 20 anni e ha svoltato un contratto con Sony Columbia, New York. Siamo andati a firmare in America insieme ed è veramente un genietto della produzione e di un nuovo filone musicale che non è trap, non è rap, ma ne ha diverse caratteristiche.
È molto diverso gestire un artista più giovane rispetto a quelli che sono più vicini a me anagraficamente. È molto interessante, sono molto curiosi, stanno molto ad ascoltare e devo dire che imparo molto dal loro modo di fare.”
Hai detto che i grandi artisti passano molto meno tempo sui social, ma oggi i tempi sono cambiati. È facile e, soprattutto, giusto e funzionale cercare di “allontanare” la carriera delle nuove leve dai social? Essendo ormai così radicati, è un metodo che funziona?
“I social sono una bella arma a doppio taglio. Secondo me nella musica, se sei veramente un artista, non hai bisogno di stare tanto sui social, perché il tuo punto di vista, la tua prospettiva, che invece metti nella tua musica verrà sempre cercato. Il successo di Marra è la prova del nove di quello che sto dicendo.
Lui per mesi, quasi anni, si è staccato dai social, poi è tornato. C’è stato un momento, tra l’annuncio e l’uscita dell’album, che ha preso qualcosa come 70.000 follower – per quello che può valere, appunto. Però se l’artista è autorevole nel suo lavoro, se è autentico, ha un punto di vista unico, le persone lo riconoscono e quindi ti dico la verità, non credo che i social facciano l’artista. Sono utili, possono mostrare un aspetto interessante, sono un canale diretto e questa è la cosa che apprezzo di più, non hanno mediazione, quindi tu ti mostri effettivamente così come sei, per quanto tu possa essere anche finto – cosa che non paga – ma puoi comunicare, raccontare, rettificare. Questo è il punto più utile, presi a piccole dosi non mi dispiacciono nemmeno.”
Qual è la tua idea di rap tra dieci anni? Dove lo vedi e dove vuoi portarlo?
“Dico la verità, non ho una risposta. Il mondo cambia così velocemente e poiché il rap è una fotografia dell’attualità, sarà quello che sarà il mondo tra 10 anni. Molto difficile a dirsi, io avrò 61 anni, i miei artisti – alcuni – ne avranno 50, Madame ne avrà 27 (ride, ndr), sarà tutto diverso.
Posso dirti quello che mi piacerebbe, cioè che si tornasse a dare un peso alle parole, un’importanza al significato. Quando le canzoni sono totalmente estetiche, puramente di intrattenimento, non mi ci ritrovo, non mi rispecchiano. Così come le canzoni d’amore, quelle un po’ studiate a tavolino. Tutto quel genere musicale non mi rappresenta e non mi rappresenterà mai. Spero, e credo, che rimanga sempre un valore aggiunto alla musica autentica, soprattutto al rap che per me, al suo meglio, lo deve essere.”