Quando Night Skinny ha annunciato l’uscita del suo nuovo album, Containers, lo ha fatto con la voce di Click Head: «Skinny sei ancora fatto eh?». Per chi segue da tempo Night Skinny, la mente è andata subito al suo terzo album, Pezzi, che veniva introdotto dalla voce di un uomo dall’accento slavo che, appunto, chiedeva al producer se fosse ancora fatto.
Era dicembre 2017 e da allora TNS ha sfornato altri due album, Mattoni e Botox. Nessuno dei due, a differenza di Pezzi o di Zero Kills, inizia con una vera intro: Mattoni partiva con la strofa di Noyz in Rap Advisor, Botox con quella di Side in Fernando. È solo un dettaglio, vero, ma nell’hip hop italiano, soprattutto in quello mainstream, le intro sembrano essere scomparse, così come sembrano scomparsi tutti quei passaggi che non costituivano delle vere e proprie canzoni: le interlude e le outro, cioè.
È una dinamica giustificata dall’evoluzione del genere, forse, ma anche dal diverso tipo di fruizione e dal diverso modo di confezionare gli album. Intro, outro e interlude, di solito, non vengono prodotti per essere ascoltati da soli, acquistano senso solo se inseriti nella cornice più ampia dell’album che li ospita. Si tratta di passaggi utili a inquadrare il viaggio dell’artista, a dare coerenza al contenuto. La progressiva scomparsa di pezzi del genere, allora, è il riflesso di come sia mutata la concezione di album: non più un progetto unitario, coeso, ma spesso un semplice contenitore dal quale «fare cherry-picking dei brani più adatti da aggiungere alle proprie playlist personali», come ha scritto Simone Motta su queste pagine. Va da sé che in un periodo storico in cui l’ascolto del singolo brano conta più dell’album nel suo complesso, un pezzo di sola strumentale, o al massimo con delle voci sopra, risulterebbe poco vantaggioso in termini di streaming.
Uno degli ultimi casi di interlude dura e pura è Salvatore, episodio cardine dell’omonimo album di Paky: tre minuti e mezzo di confessione del rapper di Rozzano, in cui racconta dell’incidente mortale di suo zio. Un passaggio crudo, necessario per rafforzare il concept dell’album, ma che, appunto, non è una canzone e non è fatto per comparire in nessuna playlist, anche perché privo di tappeto musicale.
Brani interlocutori come Salvatore sono sempre più rari, ma il rap italiano ne ha prodotti alcuni davvero pregevoli.
I Club Dogo, ad esempio, volevano mettere in chiaro quale immaginario li avesse avvicinati all’hip hop. Così, prima che Gué e Jake potessero dare fuoco ai microfoni, Don Joe, sull’inconfondibile «one, two, three!» di Wilson Pickett, aveva innestato spezzoni di classici del rap italiano: Giorno e notte di Inoki e Joe Cassano, Lo straniero dei Sangue Misto, Toro scatenato dei Colle der Fomento, 4° sotto zero dei Gatekeepaz Crew.
1223, così si chiama ufficiosamente l’intro di Mi Fist, pur senza rime raccontava le radici dell’album: per i producer soprattutto, una intro può essere utile a definire che spirito avrà un determinato progetto. Lo stesso intento, un anno dopo, aveva mosso DJ Shocca nel confezionare l’intro di 60 HZ, premessa di un’opera che accoglieva tutti i migliori mc dell’epoca: «Dedicata alla musica», recita tra uno scratch e l’altro la voce a inizio pezzo, prima di far partire un delicatissimo campione dei Pink Floyd, inframezzato dal flow martellante di Fat Joe e da alcuni dei principali riferimenti di Shocca (Pete Rock, Jay Dilla, Madlib, A Tribe Called Quest).
Se in alcuni casi pezzi del genere sono stati utili a definire lo stile di un album, in altri prodotti, però, hanno avuto lo scopo di trasmettere un messaggio. La realtà può fare irruzione nella musica attraverso le rime, certo, ma anche con le parole dei suoi veri attori, le figure a cui un rapper si ispira osservando la realtà del quartiere. Un intermezzo, così, può diventare una fotografia dal basso della realtà, un vero e proprio reportage: è questo l’uso che di solito gli album più street fanno di intro, outro o intermezzi.
Chi more pe’ mme è il massimo esempio di poesia di strada nel nostro Paese, la risposta italiana a The Infamous dei Mobb Deep. Se qualcuno, magari per l’ostacolo della lingua, dopo i primi pezzi non avesse capito quale urgenza muoveva le penne di ‘Nto e Luché, allora servivano le voci di coloro che più di tutti avevano sofferto il disagio della Napoli di quegli anni. È così che con Buonanotte pt.1 e Buonanotte pt.2 i Co’ Sang hanno spostato un po’ più in là il concetto di realness all’interno di un album hip hop in Italia. Buonanotte era la trasmissione di una radio di Napoli che serviva a portare i saluti ai carcerati. Pasquale, il suo conduttore, si trovava a gestire la commozione di madri, mogli e figlie che attraverso di lui potevano parlare ai propri uomini. Sulle note di un lugubre giro di piano, Luché aveva campionato le loro dediche in due intermezzi da brividi, messi lì a ricordarci che in alcuni contesti i concetti di bene e male siano più sfumati di quanto pensiamo.
Da sottolineare il pezzo neomelodico che si sente di sfuggita dopo una trentina di secondi e la donna interrotta perché stava per rivelare dettagli dell’incontro con l’avvocato: pezzi di realtà che si infilano sottopelle.
Con la stessa aspirazione a far parlare la strada attraverso i suoi protagonisti, quasi dieci anni dopo Achille Lauro apriva le porte del suo Immortale dallo stereo di una macchina: «Una vera e propria SPA della droga quella smantellata nel cuore di San Basilio», recitava la speaker di un giornale-radio, prima che l’uomo nell’auto procedesse a cambiare FM. «Uccide la moglie con cinquanta coltellate» ribatteva il notiziario della stazione successiva. Così, in mezzo al rumore elettrico dei cambi di frequenza, tra una notizia di cronaca e l’altra dalla radio risuonava qualche canzone. Su tutte, La solitudine di Laura Pausini, perché Lauro ci teneva a ricordarci che in certe periferie italiane, in realtà, la gente il rap non sa nemmeno cosa sia, e la musica che ascoltano quelli veri è ben altra. E poi la voce di Primo Brown per il tag del producer, 3D, e il sample di Barabba a introdurre il resto del progetto.
Se Achille Lauro e i Co’Sang avevano bisogno di presentare voci dall’esterno in chiave tragica, c’è chi invece ha utilizzato intro e skit con un tono ironico. Come non citare, allora, gli intermezzi del primo Roccia Music, con le imitazioni di personaggi dello spettacolo coinvolti in storie di cocaina che invitavano il pubblico ad acquistare il mixtape di Marracash, tra questi Skit N. 1, Skit N. 2 e Skit N. 3. Il claim «A Milano giro sulla mia Punto con la Dogo Gang e ascolto Roccia Music! Parola di Lapo Elkann» rimarrà per sempre nella storia.
I mixtape sono il contenitore perfetto per questo tipo di episodi: non trattandosi di dischi ufficiali, gli autori possono sperimentare e lasciar emergere il proprio gusto nel modo più genuino possibile. Così, quando Gué nel 2021 ha deciso di rispolverare la saga Fastlife, ha voluto fare le cose in grande e per la intro ha scomodato un doppiatore del calibro di Claudio Moneta. Gué voleva chiarire che si trattava di un progetto per teste hip hop, senza nessun compromesso, per questo nel prologo era necessario restringere il perimetro degli ascoltatori e chiarire che Fastlife 4 era dedicato a chi conosca «artisti come Lil Wayne, Dipset, G-Unit, Coke Boys e simili»: è sempre esaltante sapere di condividere i riferimenti dei propri artisti preferiti.
L’intervento di personaggi esterni al mondo dell’hip hop come Claudio Moneta non è una novità per questo tipo di pezzi. Fabri Fibra, ad esempio, in Fenomeno aveva invitato Roberto Saviano a parlare di droghe leggere. Nulla, però, potrà mai pareggiare la solennità di Carlo Lucarelli, che come potremmo immaginare nello studio di Blu Notte mentre parla dei «Cattivi Maestri del nostro Paese» e infila allusioni alla strategia della tensione nell’intro del sesto album dei Dogo, Noi siamo il club.
Insomma, non servono per forza le rime per trasmettere dei contenuti. Le intro, gli interlude o le outro possono servire a rappresentare uno spaccato di società così come a diffondere un certo tipo di cultura Hip Hop, a seconda dei gusti di chi le usa. Sono pezzi sempre più rari, certo, ma sarebbe un peccato non continuare ad aggiornare il catalogo di questo piccolo patrimonio del nostro rap.