Come crimine e odio razziale hanno distrutto la quotidianità di Jackson, Mississippi.
Dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, quando un’Europa rasa al suolo venne “invasa” prima dagli aiuti economici statunitensi dettati dal piano Marshall e poi da film, canzoni, trend e cibi americani, gli Stati Uniti hanno esercitato una sorta di attrazione per la maggior parte degli abitanti del mondo occidentale e non. Tralasciando le più o meno discutibili politiche estere o la simpatia verso questa nazione (che negli ultimi anni è iniziata a venire meno, almeno da questa parte dell’oceano, specialmente tra i più giovani), è incontestabile che i racconti, le storie e i personaggi legati agli USA facciano parte di un immaginario collettivo che ha saputo determinare i gusti e lo stile di vita anche al di fuori dei confini degli States. Se ciò accade per tutti indistintamente, per chi lavora nel mondo della musica, quella urban in particolar modo, gli States sono una vera e propria Mecca dove volare almeno una volta nella vita. Anche se immagini dei coast to coast, del Grand Canyon, del Texas o di Boston si trovano nelle pagine di tanti utenti, guardando i social possiamo vedere come Los Angeles, New York, Miami e Atlanta compaiano spesso nel feed di quasi tutti gli artisti italiani. Un po’ fuori dalle rotte turistiche preferite dagli europei, ma comunque molto frequentato dagli americani, è il Sud. Considerando l’importanza storica del territorio, l’influenza musicale e la narrazione un po’ romantica di quella parte di terra dove l’accoglienza e il calore sono di casa, ma dove la sconfitta subita nella Guerra Civile è ancora una ferita aperta, non è un caso se personaggi storici come Jesse James, il bandito del Missouri che rapinava i convogli provenienti dal Nord, è ancora ricordato come un simbolo del rancore legato alla sconfitta e un eroe agli occhi di molti. Io stesso ho subito il fascino di questa parte del Paese, tanto da chiamare il mio primo album “Come uccidere un usignolo”, citando chiaramente il titolo originale del libro di Harper Lee ambientato in Alabama. Ispirato da sempre dai racconti di Lansdale sul Texas orientale e da quelli di Mark Twain sul Mississippi, ho deciso di comporre parte del mio prossimo progetto in alcuni di questi Stati.
Se l’atterraggio ad Atlanta, città cardine delle nuove sonorità hip hop, il passaggio per la luminosa e accogliente Nashville, capitale del Tennessee e della musica country, e la meta finale di New Orleans, centro più importante per la musica jazz, sono state tappe obbligate, meno lo è stato il soggiorno nella cupa e piovosa Memphis: poco frequentata da turisti, con un altissimo tasso di disoccupazione, città prescelta da Elvis e luogo della morte di Martin Luther King. Per la prima volta nel mio viaggio, arrivato a Memphis ho iniziato a percepire l’ombra della segregazione razziale, che sia per le disuguaglianze sociali evidenti, la mancanza di lavoro in una città storicamente operaia o il fatto che, proprio in un centro a maggioranza nera, sia stato ucciso, come detto, il pastore King. Non è questo il luogo, né sono io la figura adatta per trattare il tema, ma è come se, nel tragitto che mi portava da Atlanta a New Orleans via Tennessee, a partire da Memphis ci si iniziasse ad accorgere di una sorta di “sottile linea scura” che divide le due comunità. A New Orleans, un centro vivace e con molto in comune con tante capitali europee, il nostro tecnico di studio rimase colpito dal fatto che, oltre a lavorare sulla nostra musica, noi fossimo interessati a intrattenerci con lui e a farci raccontare la città da un autoctono, perché «in genere i bianchi si girano dall’altra parte se ci si prova a parlare». Ciò succede anche viceversa.
Memphis è situata sulla sponda est del fiume Mississippi, in un angolino nel sud del Tennessee e, se attraversando il fiume si arriva immediatamente in Arkansas, la periferia meridionale della città sfocia direttamente in Mississippi, così che in macchina è un secondo varcare l’invisibile confine e trovarsi in uno degli Stati più poveri degli States. In Mississippi la vita scorre lenta, come il suo fiume. Girando fuori dalla interstate, nelle strade di campagna, sembra che il tempo per alcuni aspetti si sia fermato a diversi decenni fa, a un racconto di Mark Twain, a una foto sbiadita degli anni ’20 dello scorso secolo. Questo è l’habitat ideale di Cletus, il “redneck” de “I Simpson”. Ma se qui la vita scorre lenta, la calma che contraddistingue questi luoghi è sorniona, quasi sinistra, come fosse sempre successo qualcosa di grave durante la notte, e la mattina nessuno avesse nulla da dire. Silenzio. Che cosa bisogna dire d’altro? Ed è proprio il silenzio che ci accoglie al nostro arrivo a Jackson: 180mila abitanti, capitale fuori da qualsiasi rotta turistica o commerciale, tanto che tutti negli USA, quando ne parli, ti rispondono con «Ah sì! Jacksonville, Florida». Jackson, Mississippi è però ben altra cosa. La città è deserta: è l’ultima domenica di aprile, c’è un timido sole e la temperatura è gradevole, ma non c’è nessuno in giro. La periferia è vuota, davanti al municipio non c’è movimento di nessun tipo, molti negozi sembrano abbandonati. Una città fantasma.
La attraversiamo in auto convinti che prima o poi, svoltando un angolo o imboccando una strada che ci porterà a qualche piazza, riusciremo a trovare l’evento, la manifestazione o il concerto che sta catalizzando l’intera popolazione cittadina. Non troviamo nessuno. Decidiamo quindi di chiedere perché la città sia stata abbandonata a una guida decisamente più esperta di noi che ci ha accompagnato in questo e in altri svariati viaggi della nostra vita: Google. La risposta è immediata e, se la domanda in inglese è semplice (why is Jackson, MS so abandoned?), il motore di ricerca risolve i nostri dubbi in maniera ancora più facile, con sole 5 lettere: Crime. Approfondendo la ricerca, scopriamo così che la città ha il più alto tasso di omicidi per utilizzo di armi da fuoco negli Stati Uniti, 180 l’anno, uno ogni due giorni praticamente. L’intera capitale dello Stato è in mano alle gang ed è sottoposta al coprifuoco per la paura di uscire dei suoi abitanti, anche perché si trova nei primi posti nazionali nelle classifiche riguardanti furti e rapimenti di persona. Calcoliamo, guardando alcuni dati, che se dovessimo uscire a Jackson tutti i giorni senza essere ammazzati, verremmo scavallati minimo tre volte l’anno.
Ecco, ci diventa chiaro quasi subito quindi che attraversare la città su un Suburban bianco targato South Carolina visibile a km di distanza e imbottito di bagagli è un ottimo modo per dire “siamo dei turisti pieni di valigie e con soldi da spendere!”. E infatti veniamo notati. Ci affianca una donna su un’auto di marca indefinibile tanto è rovinata e consumata dalla ruggine. Abbassando il finestrino, ci urla qualcosa utilizzando un inglese con un accento a noi totalmente incomprensibile che, alla nostra risposta corale «EH?», sgomma via senza aggiungere altro.
Nessuno dei membri della macchinata è mai stato parte di una gang e, che io sappia, nessuno di noi è mai stato coinvolto in una sparatoria, ma non siamo neanche il turista tipo nord europeo paonazzo e col calzino col sandalo, perciò capiamo che quello che la signora stava facendo è molto chiaro: sta testando, vuole capire di dove siamo e perché ci troviamo lì. Una volta capito che non solo non siamo locali, ma nemmeno americani, è andata ad avvisare chi di dovere.
Scappati in hotel, decidiamo di rimanerci fino alla nostra ripartenza e ci viene raccontato da un receptionist cubano, sposato con una donna del Mississippi, che la città è morta, non c’è nulla, e se non c’era lavoro prima, il covid ha peggiorato tutto, facendo sì che aumentassero anche la criminalità e le violenze. Ci racconta come, mentre Jackson è un’isola democratica a maggioranza nera, il resto dello Stato è Repubblicano, e della peggior specie: «Vi hanno detto che il KKK non esiste più? Fino a tre anni fa potevate chiamarlo trovando il numero sull’elenco telefonico. Nelle campagne, di notte bruciano ancora le croci». Jackson è un’isola di violenza, in un mare di altra violenza.
Il viaggio poi per noi è continuato, abbiamo raggiunto New Orleans in sicurezza dove abbiamo portato avanti alcuni pezzi che avevamo iniziato ad aprire a Nashville, e in seguito siamo volati a New York dove avevamo altri appuntamenti di lavoro. Il viaggio nel Sud degli States è stato incredibile e arricchente, in un territorio per molti quasi impossibile da indicare sulla mappa con precisione, ma ricco di città, paesaggi e cultura che consiglio e consiglierò a lungo a chi vorrà chiedermi suggerimenti su dove viaggiare. Ma, raccontando di quanto sia stata vasta la collezione di auto di Elvis, o di come ogni musicista di strada di New Orleans se fosse nato altrove probabilmente verrebbe considerato una leggenda della musica, in cuor mio saprò sempre che c’è un luogo dove per poco ho potuto vedere e cercare di capire perché alcune battaglie per i diritti vengono combattute ora in America, e di come la differenza tra gli ultimi e i primi sia ampia in questa nazione: Jackson, Mississippi.