Jacopo Pesce ci racconta Island, l’etichetta dei record

Il 2020 è stato un anno senza precedenti da ogni punto di vista. Che si tratti di situazioni mediche, sociali, politiche, economiche, sportive o musicali, questo anno scandito dalla pandemia ha riscritto il concetto di adattamento, obbligando qualsiasi attività a reinventarsi completamente, dal punto di vista gestionale e commerciale. Quello musicale è stato un mondo particolarmente colpito per via della distanza obbligata col pubblico, e non parliamo di social distancing. Niente concerti, niente in-store, niente party, niente presentazioni e niente attivazioni di alcun genere hanno portato l’intero panorama a fermarsi a riflettere su cosa andasse fatto per cambiare, per continuare a bilanciare calendari, profitto e soprattutto l’aspetto creativo di un’arte che ha bisogno di esperienze di vita vissuta per essere raccontata dai suoi autori e interpreti. In tutto questo marasma di continui tentativi al buio, c’è una realtà che ha portato a termine un 2020 strepitoso fatto di successi, 365 giorni che non hanno fatto altro che testimoniare la correttezza e l’efficacia di un percorso intrapreso tanto tempo fa. Questa realtà è Island Records, l’etichetta, parte di Universal, che nel 2020 ha piazzato 22 singoli e 30 album nella Top100 Fimi, con 4 album nei primi 6 posti. Abbiamo quindi cercato di capire come ha fatto Island Records a raggiungere questo livello grazie alle parole del suo direttore Jacopo Pesce.

Come lavora un’etichetta di alto profilo? Come si gestiscono gli artisti? Come si crea, si pubblicizza e si lancia un album di successo? Ma soprattutto: quali sono le azioni che avvengono dietro il grande e affascinante sipario dell’industria musicale senza che il pubblico se ne renda particolarmente conto? «Forse in primis non comprendono che questo è un lavoro vero, complesso e strutturato. Parliamo della fatica di 20-25 persone, più tutti i partner e i collaboratori esterni. I progetti musicali sono uno sforzo di gruppo tra artisti, manager, label indipendenti e molte altre figure. Parliamo di tante diverse iniziative che devono avere un focus: mettere l’artista al centro. Io? Sono l’allenatore, poi in campo scendono gli altri, pur rimanendo io vicino agli artisti e ai loro team per un continuo confronto. Ciò di cui il pubblico non si rende conto è che dietro a ogni risultato c’è un lavoro enorme. Un esempio. La presenza di Sfera Ebbasta a Times Square non è un giochino, non basta comprare lo spazio per essere lì, è un’attività durata mesi, portata a termine con un lavoro progettuale lunghissimo di relazioni con Spotify e Amazon. Abbiamo coinvolto i partner facendoli sentire parte del progetto, con loro abbiamo parlato innanzitutto di musica, abbiamo fatto ascoltare i pezzi in largo anticipo, abbiamo spiegato le potenzialità del progetto e mostrato le basi per la costruzione della comunicazione sul piano internazionale. Solo dopo questi e tanti altri passaggi si può pensare di provare ad avere una visibilità di quel tipo. È Times Square, quindi abbiamo dovuto anche rispettare delle regole ben precise sulle immagini, tagli delle stesse e tanto altro. Non è un giochino, è una cosa gigante. A noi interessava essere lì per il lavoro internazionale che stiamo facendo, non tanto per il ritorno d’immagine italiano che senz’altro ci sarebbe stato. Come dire, l’operazione era importante e complementare».

Tutto questo lavoro ha un principio, dei punti cardine e soprattutto delle finalità. «La nostra storia dice che vogliamo costruire delle carriere, non solo fare il singolo di successo. Poi ovvio, a spiccare sono le vittorie, ma una carriera non è fatta solo di queste. Sai quante difficoltà ci sono seppur invisibili da fuori? Sai quanto è facile sbagliare? La nostra forza è essere preparati, cosa che viene fuori soprattutto in un momento come questo, così particolare, diverso e difficile. La normale e rapida interazione da ufficio si trasforma in decine di chiamate, cosa che rallenta il processo, specie per la realizzazione di progetti molto importanti».

Non è un caso che il telefono di Jacopo Pesce sia sempre acceso, sempre attivo tra chiamate, messaggi, mail e file vocali da e verso artisti, A&R, manager, etichette e molto altro. Si è definito un allenatore e infatti è come tale che gestisce i suoi atleti, ovvero gli artisti, tanto al telefono quanto sul set dello shooting che abbiamo realizzato per questa Digital Cover speciale di Outpump. Li direziona, li segue, li motiva e cerca di capirne il valore professionale quanto quello umano, in un interessante mix di accortezza e risolutezza che diventa particolarmente importante in periodi come il 2020 e 2021, così privi di certezze. Come detto, questo ultimo anno non ha precedenti in alcun settore, tanto meno in uno caratterizzato da rapporti con il pubblico, esperienze vissute in prima persona, viaggi, collaborazioni e contatti umani. Island però ha cercato di trovare diverse soluzioni. «Le difficoltà sono state enormi. All’inizio eravamo spiazzati, con Marra ad esempio dovevamo girare due video di “Persona” e dare spazio ad altre idee che c’erano in cantiere, ma ad un certo punto abbiamo dovuto necessariamente bloccarci. Nel primo lockdown ci siamo inventati l’iniziativa “Island Presents”, con una pubblicazione al giorno, pur di tenere la testa occupata. Non è stato un bel periodo ma gli artisti erano pronti a uscire, quindi ne abbiamo approfittato per preparare al meglio questi drop e creare cose che con la fretta non avremmo mai fatto. Diverse uscite sono scalate e altre sono passate all’anno successivo. La difficoltà sta nel fare un lavoro armonioso, come è poi stato, nel gestire comunque bene tutti gli slot».

«La gente è rimasta colpita dal lancio di Sfera, ma non si immagina minimamente cos’altro c’era in programma, cose che non sono andate in porto per via del COVID-19. È frustrante: lavori per tantissimo a un progetto, hai tutto pronto e poi devi ricominciare da zero per motivi indipendenti da te. In compenso, ora abbiamo maggiore consapevolezza di dove possiamo arrivare e abbiamo iniziative fantastiche che potremmo utilizzare in futuro. Sono felice però che la gran parte del pubblico non si sia resa conto di tutto il casino che noi stavamo vivendo, vuol dire che abbiamo fatto un buon lavoro. Per fortuna le cose sono andate alla grande ugualmente e per questo devo ringraziare il mio team e Shablo con cui abbiamo stretto un rapporto di fiducia che era già solido. Abbiamo fatto davvero squadra. L’industria in quel momento doveva dare un segnale forte: noi ci siamo, non ci fermiamo e non siamo feriti. Anche per questo a giugno abbiamo realizzato una campagna al Duomo di Milano, in occasione dell’uscita degli album di Ernia e Guè, con la scritta “Il rap italiano riparte da Milano”, per dare un segnale, per far capire che continuiamo a fare investimenti rilevanti e a pubblicare dischi importanti, due messaggi fondamentali da recapitare tanto al pubblico quanto agli artisti». Si tratta, questo, di un punto di vista non scontato, perché la promozione, la comunicazione e le attivazioni pubblicitarie non servono a colpire solo il pubblico, ma anche a dare fiducia a chi la musica la realizza. In un momento in cui tutto si ferma, la mia musica è ancora una priorità? La mia etichetta crede in me e nei miei messaggi come quando i problemi erano minori? Queste sono domande che un artista può giustamente porsi, anche perché stiamo parlando di un mondo strettamente legato al marketing e quindi non necessariamente nelle corde di un produttore, un cantante o un autore.

«Se vogliamo trovare il lato positivo, lo stop alle attività tradizionali è stato una grande opportunità per noi e per tutta l’industria musicale perché ci ha portato a cercare nuove modalità di lavoro e metodologie di comunicazione. Io non sono mai stato un grande fan delle attività tradizionali e lo abbiamo dimostrato già nel 2015 quando uscì “Vero”, il disco di Guè, in cui avevamo fatto un pop-up store a Milano, o con Elisa, con cui avevamo organizzato degli eventi nei cinema. Questa è l’occasione per creare qualcosa di nuovo e per velocizzare un processo evolutivo che già era chiaro a tutti, ovvero l’estinzione degli in-store: provare a vendere i dischi e a fare gli streaming anche senza la macchinetta dell’incontro tra fan e artisti per fare le foto che negli anni ha estremamente dopato le vendite. Nel 2012 o 2013 si facevano tre o quattro settimane di in-store passando da tutte le città possibili e immaginabili, ora invece si fanno giusto quattro o cinque località fondamentali. È una dinamica che già stava andando a morire, anche perché ora la società è cambiata e i social media hanno reso gli artisti molto più accessibili, forse troppo. Poi io personalmente ho sempre lottato per non relegare tutto a quella singola situazione, perché a rimetterci finisce per essere la musica. Sai quante volte i ragazzi si dimenticavano i dischi sul tavolo? Servono sempre idee nuove e d’impatto, bisogna costantemente cambiare le regole del gioco».

Island Records non ha rivoluzionato le suddette regole solo per le attività promozionali e commerciali, per i successi raggiunti o per i numeri, ma per aver creato una strada. «Siamo stati gli unici a pubblicare dischi in estate, quando stava riaprendo tutto, tra l’altro prodotti non semplici, si pensi solo al disco di Ernia o a quello di Guè o Drefgold». In un momento in cui tutti stavano andando in una direzione, Island ha scelto un percorso mai battuto, pericoloso quanto potenzialmente appagante. «Non abbiamo fatto l’estate delle hit da spiaggia, anzi abbiamo lanciato “Chico”, “M’ Manc”, “Superclassico”, “Dorado”, “Defuera”. Era quello che volevamo fin dall’inizio. Il fatto di uscire con Mahmood e DRD a luglio era sintomo della voglia di uscire con qualcosa di diverso, di più sofisticato».

Come le classifiche 2020 hanno attestato, quelli di Guè ed Ernia sono dischi di importanza capitale, rispettivamente il quinto e il sesto più venduti dell’anno. Artisti ed etichetta erano certi di avere prodotti molto forti in mano, ma la scelta di rilasciarli in piena estate, senza nemmeno la possibilità di fare live mentre la gente sfruttava gli ultimi momenti liberi nel timore di un nuovo lockdown autunnale, non era scontata e non tutti nel mondo della musica l’avrebbero accettata. «Abbiamo la fortuna di lavorare con gente che si fida, artisti a cui abbiamo spiegato che si sarebbero dovuti dimenticare completamente qualsiasi tipo di situazione precedente alla pandemia, nulla sarebbe stato come prima. Da questa consapevolezza parte tutto, così possiamo affrontare una situazione del genere come una nuova sfida. Guè mi conosce da una vita e si fida ciecamente: quando mi ha visto convinto dell’uscita estiva è subito salito a bordo, e così Ernia».

Il disco di Ernia poteva contare su “Superclassico”, il quarto singolo più venduto nel 2020, una canzone che ha aiutato il rapper a raggiungere un pubblico la cui vastità non era mai stata toccata con i progetti precedenti. «È dalla fine del 2019 che dico a Ciro e Shablo che il 2020 sarebbe stato l’anno di Ernia, l’avevo scritto pure sulla mia lavagna. Quella di “Superclassico” è una bellissima storia perché sapevamo fosse una hit, infatti avevamo già tutto pronto, anche il video. Eravamo però convinti che le radio non l’avrebbero sposato subito per vari motivi, dalla mancanza degli spazi (inizialmente intasati dalle hit estive canoniche) allo status legato a un pubblico nazional popolare, quindi sapevamo che questo pezzo sarebbe dovuto funzionare prima in altro modo, conquistando così la fiducia delle radio. Infatti “Superclassico” ha avuto due vite: una a giugno quando è uscito in streaming e una ad agosto quando ha iniziato ad andare in radio».

Durante una pandemia non è solo difficile organizzare il lancio di un progetto, ma anche realizzare l’effettiva musica. Island è una di quelle etichette che ha sempre permesso ai propri artisti di viaggiare così da sfruttare contatti internazionali, ma anche solo per dare a loro la possibilità di lavorare creativamente in ambienti diversi e avere la mente libera dalle influenze ripetitive e stantie della routine. «Abbiamo dovuto fare ovviamente delle variazioni nel nostro modo di lavorare ma anche cercato di creare normalità: abbiamo preso per due mesi e mezzo una villa-studio in Toscana e l’abbiamo trasformata nel nostro quartiere generale. Ogni settimana c’era un artista diverso, così che tutti potessero distrarsi, suonare, registrare, mangiare e cambiare punto di vista in totale sicurezza. Ricreare normalità e serenità è importante, perché non vivendo la quotidianità alcuni hanno avuto difficoltà a scrivere. Ovvio, parliamo di un blocco durato un paio di settimane, non di mesi, ma comunque fa riflettere. Alla fine è giusto, noi solitamente andiamo a trecento chilometri orari ogni giorno, quindi frenare così tanto ti fa pensare e rivalutare tantissime cose».

Proprio la lavorazione del pop è una tematica interessantissima quando si parla di Island Records, etichetta che può contare su Elodie, Mahmood, Elettra Lamborghini, Elisa, Tommaso Paradiso, Brunori Sas e tanti altri, perché gestisce questo genere come nessun altro ha fatto, con strategie lontane dal pop tradizionale, sia nel sound che nella metodologia di lavorazione e pubblicazione, qualcosa che in Italia non si era mai visto, anche se le influenze sono chiare. «Cerchiamo sempre di dare contaminazioni più urbane ai nostri artisti, ovviamente non a tutti e non sempre, ma ci proviamo. Altre volte utilizziamo solo delle modalità della musica urban. Pensiamo ad Elisa, la quale ha rilasciato un progetto strepitoso, uno di quelli di cui sono più orgoglioso. Dopo il successo di “Se Piovesse Il Tuo Nome” lo abbiamo riproposto in una nuova versione con Calcutta, stessa cosa con Carl Brave su “Vivere Tutte le Vite”, ovvero un iter più facile da vedere nell’hip-hop. Ripensiamo al primo singolo del disco di Rkomi, “Blu”, proprio con Elisa: fu lanciato mentre lei era già in radio con un altro pezzo. Un tempo questa dinamica non sarebbe mai e poi mai successa. Stessa cosa è successa per Mahmood ed Elodie, i quali sono arrivati in radio con più pezzi contemporaneamente».

«Molte testate giornalistiche l’anno scorso hanno chiesto spiegazioni sul lancio del disco di Elodie, uscito la settimana prima di Sanremo, e non dopo, come tutti fanno. Spinsi tanto per questa scelta. Avevamo lavorato due anni per quel progetto, cercando di proporre un pop nuovo, con un’ispirazione strategica internazionale, e non volevamo che tutto venisse ridotto al solito discorso sulla singola canzone sanremese una volta che questa fosse arrivata sul palco dell’Ariston. Quindi a gennaio abbiamo iniziato a far uscire i primi pezzi: uno con Gemitaiz, uno con Fibra. Se non avessimo fatto così a nessuno sarebbe importato del suo disco e noi invece volevamo far capire che avevamo un progetto vero, non un insieme di singoli. Abbiamo pubblicato il disco prima e poi abbiamo aggiunto la canzone di Sanremo, sfruttando tutte le potenzialità dello streaming digitale. Oggi Elo è la donna più ascoltata su Spotify e l’album di un’artista femminile più venduto. Sono fortemente orgoglioso di lei».

Proprio Sanremo è la vetta del grande pubblico generalista, un trampolino che permette di toccare un target estremamente vasto che spazia tra ampi range di età, classe sociale e preferenze musicali. «Quando si arriva a Sanremo, al mainstream, cambia poco nella gestione e nell’organizzazione. Dipende dalla volontà dell’artista. Ci si diverte molto. La scelta di arrivare a Sanremo di solito è per raggiungere un certo pubblico e non perché si ha un pezzo particolarmente adatto, difficilmente è qualcosa che si calcola fin dall’inizio. È solo un tassello, non si punta mai tutto su Sanremo, almeno noi non facciamo così. Ad esempio, con Mahmood lavoriamo in maniera completamente non ortodossa. Mahmood è esploso con Sanremo, ma con lui ad esempio abbiamo fatto “Dorado” perché non aveva mai fatto un pezzo a tre, più latino, ma abbiamo fatto anche “Moonlight Popolare” con Massimo Pericolo che volutamente non ha mai toccato le radio. Non ha senso essere conservatori, si vince perché si sorprende, non perché si raggiunge il pubblico nazional popolare con il classico pezzo leggero. A Sanremo Giovani portammo una ballad come “Gioventù Bruciata” e dicemmo che se fossimo andati tra i big avremmo portato “Soldi”, tanto non avevamo niente da perdere. Sapevamo che era un pezzo sperimentale, per nulla nei canoni del pop italiano. Noi pensavamo di avere vinto già per il fatto di essere lì, quindi abbiamo optato per il pezzo più difficile possibile, giusto per alzare il carattere dell’artista, senza velleità di vittoria. Non dimentichiamoci che siamo andati lì con una produzione di Dardust e Charlie Charles, in quelle sere siamo saliti sul palco dell’Ariston con Guè e una strofa tutt’altro che clean. Questo per dirti che il pop per me va fatto divertendosi, senza molte paure e con voglia di osare. Quest’anno non hanno avuto fiducia nelle mie proposte, peccato. Sfrutteremo il tempo in più che avremo per preparare meglio le prossime uscite, anche questa è un’opportunità».

La mentalità di Jacopo Pesce, dei suoi collaboratori e di tutta Island Records è sicuramente originale e avanguardistica, anche perché guarda con attenzione a tutte le dinamiche che ogni anno alterano il panorama musicale. Nulla come i social media e lo streaming hanno reinventato la music industry negli ultimi anni, al punto che le dinamiche commerciali del 2013 sembrano ormai lontane di decine e decine di anni, vecchie e decrepite. L’evoluzione di Instagram, di TikTok, la raggiungibilità degli artisti, la differente mentalità di chi con i social network c’è cresciuto dal primo momento, l’esplosione dello streaming, addirittura piattaforme come Netflix e Prime Video hanno obbligato le label a cercare nuove vie per promuoversi, a considerare le vendite in maniera diversa per via delle nuove dinamiche online. Si pensi solo al fatto che, fino a pochi anni fa, l’uscita dello streaming era successiva a quella della copia fisica in quanto si temeva che ne avrebbe limitato le vendite, così come la precedenza fosse data a YouTube. Ora sarebbe impensabile. Col senno di poi parliamo di ragionamenti ovvi ma non sono così banali quando si parla con artisti importanti, legati a grandi investimenti. «Bisogna avere artisti che ci credono, come Sfera Ebbasta nel 2016. Lui arrivava da YouTube, ma sapevamo che il nuovo mercato era lo streaming, quindi con “Figli di Papà” siamo usciti prima lì che col video ufficiale. All’epoca era stranissimo. Bastava solo che la gente si innamorasse un minimo delle nuove piattaforme, dovevamo fargli venire la fame così da far traghettare pubblico e artisti da una piattaforma all’altra».

La realtà degli streaming si è poi affermata, modificando radicalmente il panorama dei dati di vendita ma anche la comunicazione a essa legata. «Abbiamo “usato” un po’ i numeri e il traguardo delle certificazioni in termini di comunicazione, era l’unica maniera per far capire alla gente che quello era il nuovo mercato e che solo con quei volumi il proprio artista preferito avrebbe avuto successo. Ecco, forse questa cosa ha preso delle dimensioni sproporzionate ed oggi ci ritroviamo con la gente che non aspetta altro che le certificazioni o pensa ai milioni. Non ha ancora capito niente di come funziona oggi il gioco, che nel frattempo è già cambiato. Esce un disco e i primi commenti che ritrovi sono “già platino”, “già oro”. Sui magazine leggo “700mila stream nel weekend”. Ormai interessa più a loro che a noi e agli artisti. C’è ancora tanto lavoro da fare, soprattutto nell’educare la gente a qualcosa di sano. Spero che prima o poi vengano fuori realtà più professionali e meno amatoriali. Voi ad esempio siete sulla buona strada, o almeno lo spero. Sarebbe importante per la scena e anche per l’industria».

Allo stesso modo la già citata esplosione social ha reso gli artisti molto raggiungibili, cosa che ha permesso loro di creare un legame maggiore col pubblico, ma ha anche portato all’arrivo di nuovi problemi, organizzativi quanto umani. Ormai i commenti degli artisti sono cosparsi di una sola cosa: le richieste sulle nuove uscite. «Questo poi ha delle ripercussioni sul nostro lavoro perché l’artista in questione si sente sotto pressione, ha maggiore fretta e spesso ci dice di voler uscire il prima possibile perché la gente lo richiede». Lo sottolineano sia Jacopo Pesce che Federico Paolo Cirillo, capo degli A&R di Island. «Il campione dell’utente che commenta è un termometro per l’artista. Un disco non deve uscire quando lo chiede la gente ma quando questo è completo, ben fatto e nel pieno rispetto della visione di chi lo ha creato. Questo è ciò che va capito dal pubblico. Poi gli artisti si fanno delle domande perché sono umani, anzi loro hanno una sensibilità ben maggiore di quella degli altri perché il loro lavoro è inserire la vita dentro un progetto professionale».

Le dinamiche digitali dei social e dello streaming prendono poi un nuovo significato se parliamo di featuring. La collaborazione artistica è da sempre un mezzo meraviglioso per dare qualcosa in più a una canzone o a un album, specialmente nel mondo urban. Da quando a farla da padrone sono gli stream, il featuring è diventato anche un’arma di posizionamento, un tool utilizzato a scopo di marketing solo per trovare spazio nelle playlist e negli stream di altri cantanti, una dinamica che Jacopo e Federico conoscono bene. «Se le collaborazioni sono addizioni per posizionamenti di marketing e algoritmi non servono a nulla, se sono sentite allora portano alla vittoria. Il featuring deve servire alla canzone. Alcune collaborazioni strategiche possono dare una spinta all’inizio ma abbiamo visto artisti giocarsi già qualsiasi featuring al primo album. E poi cosa fai? Come lo stupisci il pubblico? Il featuring è un ottimo tool ma non puoi metterlo alla base della tua strategia. Ultimamente ho fatto una riunione in cui il primo argomento sono stati i featuring. Ho bloccato tutto e ho detto: scusate ma la musica? Partiamo da là. Poi si pensa ai featuring».

La strategia di Island è ben diversa. Come detto all’inizio, l’etichetta parte di Universal ha posizionato in Top 100 del 2020 più album che singoli, segno che il focus del lavoro non è lo sprint ma la maratona, per parafrasare un noto detto sportivo ma anche Nipsey Hussle. Non è un caso quindi che Island sia sempre in costante collaborazione con realtà indipendenti, spesso e volentieri gestite da persone già legate all’etichetta e con un solido passato nel mondo urban. Ecco quindi che spiccano Thaurus di Shablo, BHMG, Tanta Roba Label con DJ Harsh, ma anche la ben più recente BFM creata da Luchè che ha aiutato l’esplosione di Geolier. «Da sempre sognavo un’impostazione discografica internazionale. Più famiglie sotto lo stesso tetto, anche di diversi generi, diverse realtà che fanno musica insieme a noi».

La struttura di Island e la mentalità dei suoi artisti chiave sono riuscite a portare tanta musica italiana all’estero, più di quanto non si fosse mai visto, specie nel panorama urban che storicamente è stato confinato dalle Alpi alla Sicilia, forse per motivi linguistici o forse per limiti autoimposti. «Noi facciamo il possibile ma il segreto non c’è, sta negli artisti. Se un cantante o un rapper ha già idea di arrivare oltre confine, ora come ora sa che dovrà utilizzare un sound e una costruzione più internazionale. Non è tanto una questione di lingua, è il sound che il più delle volte conquista il pubblico. “Soldi” ha raggiunto un successo internazionale in italiano e anche se la gente non capiva il testo si è goduta il pezzo dall’inizio alla fine».

Nelle altre Digital Cover di Outpump, specie quella con Marracash e con Madame, si è più volte discusso dell’identità della musica italiana e se il suono Made in Italy fosse realmente riconoscibile o interessante, in casa come all’estero, specie quando si parla di rap. «Ovvio che di base si guarderà sempre a qualcosa di straniero ma d’altronde parliamo di un genere che non fa parte della nostra tradizione, che invece si basa sull’opera, specie per nomea all’estero. Credo che l’identità di un sound venga fuori quando cresce la classe dei producer. Ora nei dischi italiani importanti c’è una maggioranza di produttori italiani, prima invece si cercava sempre il nome straniero. Oggi riesci a riconoscere il sound di un produttore, se senti un pezzo di Skinny, Charlie o DRD capisci subito che si tratta di roba loro. Ultimamente i dischi di produttori spuntano come i funghi, ma sono tutti uguali, mettendo questo e quell’altro. Se devo pubblicare il disco di un produttore ci deve essere un’idea diversa, altrimenti è sempre tutto uguale. Tipo Mace, che è un’altra roba. “La Canzone Nostra” arriva da una prima traccia ambient. Adesso è una hit». Le parole di Jacopo Pesce non sono che rafforzate da quelle di Federico Paolo Cirillo «Capisco quando si lamenta il discorso di prendere troppo spunto dall’estero, non a caso ora la quasi totalità di demo che ricevo nella categoria rap sono pezzi drill, ma ci sono tantissimi artisti italiani che non hanno reference straniere, specie nella nuova generazione. Uno come Blanco si può identificare con un equivalente straniero? No. Poi – aggiunge Jacopo – hai anche gente già affermata che propone prodotti unici, sia per metriche che per immaginario o scelta dei sample, come un Marra che in “Persona” ha utilizzato dei campioni molto riconoscibili per chi conosce la musica italiana, rap o leggera che sia». Non è un caso quindi che nella Top 100 da cui siamo partiti il disco di Marracash sia l’album più venduto del 2020 nonostante fosse uscito nel 2019.

Proprio il discorso dell’internazionalità del sound, della riconoscibilità di certi elementi, viene toccato anche in un recente documentario musicale su Netflix: “Presque Trop”, il documentario dei rapper francesi Bigflo & Oli che affrontano per la prima volta non solo l’esibizione in alcuni stadi, ma anche diverse date in terra straniera di lingua non francese, come gli Stati Uniti, in un mix di esaltazione e insicurezza per i dubbi sulla risposta del pubblico. «Sfera e Mahmood saranno sempre di più all’estero, per la promo ma anche per le esibizioni. Mahmood l’ho visto in concerto a Madrid e mi ha colpito perché c’erano più spagnoli che italiani presenti, così come per Sfera a Berlino. Sono momenti per certi versi emozionanti. Ti confermo che negli altri paesi c’è voglia di conoscere musica nuova, anche perché lo streaming ha allargato i confini, a cui segue la voglia di vedere queste scoperte dal vivo, specie in città particolarmente globali. A gennaio 2020 ero a Los Angeles per gli ascolti dei dischi nuovi di The Weeknd, Justin Bieber e Pearl Jam. Te lo giuro, tutti i colleghi mi hanno parlato di Sfera. Ero impressionato, tanto che gliel’ho detto subito e non ci credeva nemmeno lui. L’internazionalizzazione della musica è qualcosa che stiamo provando a fare e sembra di essere sulla strada giusta, ma siamo solo agli inizi, c’è ancora moltissimo lavoro. Il too-big-to-fail non esiste, infatti non abbiamo pressioni né aspettative, è una grande sfida. Ci sono i prodotti forti e ne siamo convinti, la risposta è più che buona, ma siamo ai primi step». Mentre ci dice queste parole, Jacopo Pesce ci mostra decine e decine di spezzoni di telegiornali, programmi radio e media sudamericani che non fanno altro che parlare di Sfera Ebbasta, in quella che è una scena di interesse nei confronti del rap italiano, considerabile utopistico fino a poco tempo fa. «Il Covid ha limitato tutto ma il tour internazionale arriverà, d’altronde oggi “Baby” ha il 40% di plays dall’estero. Un’infinità. Però ripeto, siamo solo ai primi passi del percorso che stiamo facendo per il raggiungimento di un panorama realmente internazionale».

È normale quindi che l’orecchio di Jacopo Pesce debba essere sempre attivo, nell’ascolto della musica come dei pareri dei suoi artisti, ma anche del suo telefono, d’altronde quando si raggiungono certe posizioni nella musica internazionale non si sa mai chi ci può essere dall’altra parte e cosa potrebbe succedere. «Uno dei momenti più belli della mia vita? Passare due giorni in studio a Miami con Timbaland. Ero con Tiziano Ferro e stavamo lavorando a un suo disco. Vederlo lavorare dal vivo è qualcosa di incredibile, mi ricordo ogni momento. Quando si è messo a fare i vocalizzi io e Ferro ci siamo guardati e non ci credevamo, stavamo impazzendo. Poi andava alle sue macchine, alterava le voci, le faceva diventare degli strumenti. Si possono sentire bene in “Vai Ad Amarti”, probabilmente il mio pezzo preferito di quell’album di Tiziano».

«Tra i ricordi migliori includo sicuramente l’incontro con Rick Rubin durante la lavorazione del disco di Jovanotti. Parlare con lui è qualcosa di incredibile, specie considerando quanto è umile. Una storia davvero particolare però è la seguente. Sono a casa mia a Molfetta, in provincia di Bari. Ferragosto. Piena notte. Mi sveglia una chiamata da New York. I miei colleghi americani mi chiedono di trovare uno studio a Capri disponibile in poche ore. Ricordiamo che è notte ed è Ferragosto ma Travis Scott deve registrare la strofa per l’album di Post Malone. Chiamo un po’ di persone ma l’unico che trovo sveglio è Luchè che aveva concluso una data in Basilicata, il quale mi conferma che lo studio a Capri non c’è più, ma rimane l’opzione Napoli. Da New York danno l’ok e dicono che servirà per le quattro del mattino, inoltre penseranno loro al trasporto di Travis da Capri a Napoli a quell’ora. Non voglio sapere come. Dico a Luchè che può essere l’occasione della vita e di farsi quindi trovare là. Periodicamente da New York mi comunicavano il ritardo di Travis Scott, tanto che i ragazzi dello studio, ormai senza Luchè, sono rimasti aperti fino alle 14.30 senza vedere nessuno. Morale della favola, nessuno si presenta. Pochi giorni dopo, il 23 agosto, sono andato a Londra per ascoltare il disco di Post Malone. Appena entro si precipitano i colleghi internazionali che si scusano in tutti i modi: “Non hai idea di cos’è successo”. Andiamo al listening party e ancora non c’era la strofa di Travis Scott, tanto che quel giorno ascoltammo il pezzo solo con Posty e Ozzy Osbourne. Travis registrò la sua strofa solo pochi giorni dopo, a un passo dall’uscita dell’album. Ricorda un po’ l’aneddoto che avevo già raccontato a TRX con Paola Zukar della volta in cui, sempre di notte, feci smontare uno studio per portarlo nella camera di Kanye West a Firenze così che lui potesse registrare “No More Parties in L.A.”. Due anni dopo, per “Ye”, fece lo stesso scherzo, ma stavolta nella zona industriale di Firenze. Smontammo lo stesso studio e lo facemmo montare all’interno di una stanzetta dentro un capannone. Noah Goldstein, il suo ingegnere del suono, mi disse che mi doveva un favore. Provai a riscuoterlo per un progetto italiano una volta, ma purtroppo senza successo. Spero di farlo in futuro».

Con chi Jacopo Pesce abbia provato a giocarsi il favore di Kanye West non è dato saperlo, anche cercando di ricostruire il puzzle, infatti, mancano dei pezzi di questa storia. Parlando però di musica futura, Jacopo è meno riservato e le sue parole permettono di avere una prospettiva su un 2021 che, riprendendo l’inizio dell’intervista, di certo ha ancora poco, ma non dal punto di vista delle uscite. «Quest’anno è ricchissimo. Abbiamo appena lanciato a Milano una campagna massiccia per far capire che questo 2021 deve suonare bene, un’iniziativa dell’intera label e di tutta la comunità artistica. Sono tutti al lavoro e vederli tutti così attivi è straordinario. C’è il disco di Mace che esce la prossima settimana, un disco di un producer che abbiamo fortemente voluto, con un progetto e un sound diverso da tutta la media dei produttori che si svegliano la mattina e dicono “oggi voglio fare un disco anche io”. Non è che funziona proprio così, ma ognuno fa ciò che vuole. L’approccio che stiamo tenendo con Shablo, con cui, dopo “M’Manc”, stiamo lavorando su idee e concept che non propone nessuno. Come con Skinny, che ormai si è costruito un suo mondo, ed è tra l’altro caldissimo: ho perso il conto dei pezzi che ha pronti. Un altro che ora come ora ha un’infinità di pezzi pronti è Lazza, infatti il suo ritorno sarà potentissimo. Ci sarà Marracash con un progetto nuovo che poi vedrete e che è in qualche modo collegato a “Persona”. Si tratta davvero di un grande lavoro, l’ennesimo, che mi rende davvero contento per Fabio: si è preso ciò che gli spettava e onestamente credo sarà difficile fermarlo, non vedo l’ora di vedere live il suo show. Andremo avanti a lavorare su “Famoso”, come anche per Ernia. Ovviamente ci sarà Rkomi con un album su cui punto parecchio. Mahmood ha pronta della musica pazzesca, di estrazione per niente italiana. Insomma, siamo pronti a partire. Abbiamo appena firmato Paky, uno dei pochi nuovi che per me rimarrà a lungo e con cui vogliamo costruire una carriera duratura. Stiamo facendo un bel lavoro su Quentin 40 che si era un po’ perso, ma ci crediamo e andremo avanti a fare bella musica». Jacopo sembra non fermarsi mai e alterna nomi di artisti e progetti molto attesi ad altri completamente inaspettati, ma dall’hype in rapida crescita. «Stiamo lavorando con Sottotono, ovvero Fish e Tormento. È una cosa a cui tenevo personalmente, uno di quei progetti che volevo fare da ragazzino e che oggi faccio per l’amore della musica, senza pressioni o aspettative di vendita. Il nuovo singolo è una hit radiofonica enorme. Tra pochi giorni vado a Napoli a sentire i pezzi nuovi di Luchè ma sono sicuro sarà un gran disco, d’altronde ormai siamo al terzo album insieme e abbiamo le nostre tradizioni da rispettare. Non vedo l’ora che escano. C’è Franco126, con cui siamo già partiti, a cui seguono tutte le pubblicazioni di Bomba Dischi e così anche quelle di Thaurus, Tanta Roba e BFM, con cui ormai c’è un rapporto di fiducia consolidato. Oggi abbiamo parlato anche dei nuovi artisti e posso dire che ovviamente stiamo continuando a lavorare su di loro, su tutti Blanco, ma anche Margherita Vicario, Claudym, Sina e Leon Faun che arriva da Thaurus e per me è veramente forte. Elisa e Tommaso Paradiso stanno preparando i nuovi rispettivi lavori e credo saranno dei dischi che segneranno nuovamente il pop italiano, sono tutte hit. Fammi chiudere col rap. Anche Guè è al lavoro su cose nuove ed è inutile dire che spaccherà come al solito, sarà un anno molto ricco di musica per lui».


Production
Outpump Studio
Photo
Francesca Di Fazio
Videomaker
Andrea Schiavini
Light assistant
Michael James Daniele; Giulia De Ponti
Make-up artist
Gaia Dellaquila