Da Jun Takahashi a Chitose e Junichi Abe, i designer giapponesi hanno conquistato il fashion world

Alla fine degli anni ’70 l’arrivo a Parigi degli stilisti giapponesi diede una scossa al fashion system, assuefatto al massimalismo tutto lustrini e paillettes dei couturier dell’epoca e, dunque, spiazzato dalle mise destrutturate, cerebrali, spesso monocromatiche di Rei Kawakubo, Issey Miyake e Yohji Yamamoto.
Oggi le peculiarità stilistiche di questi ultimi sembrano essere state assimilate da un gruppo di connazionali, nel quale spiccano i nomi di Junya Watanabe, Chitose e Junichi Abe, Yosuke Aizawa, Jun Takahashi e Hiromichi Ochiai; tutti creativi pronti a ritagliarsi spazi sempre più ampi nel pur sovraffollato panorama odierno, soprattutto grazie ad una visione che punta sulla (felice) contaminazione tra moda “alta” e novità provenienti dalla strada, tradizioni sartoriali e attitudine urbana, funzionalità ed estetica d’avanguardia.

Considerata la facilità ad attingere da molteplici aspetti della contemporaneità, non sorprende che i suddetti designer abbiano fatto ricorso spesso e volentieri, nel tempo, alle collaborazioni più disparate, associandosi a colossi dello sport mondiale, brand simbolo del casualwear a stelle e strisce, maison di lusso e così via. La si potrebbe definire una sorta di via nipponica a quel luxury streetwear che, negli ultimi anni, ha trovato i suoi massimi interpreti in Demna Gvasalia, Kim Jones o Virgil Abloh.
Non va poi dimenticato come i vari Watanabe, Takashashi, Abe & co. abbiano lavorato per i maestri della prima generazione, quasi a chiudere un cerchio ideale tra passato e presente. Rei Kawakubo, in particolare, rappresenta in questo senso una figura cruciale, perché supporta da sempre i talenti formatisi alle sue dipendenze, affidandogli la direzione di specifiche linee all’interno della “casa madre” Comme des Garçons, oppure assortendone le collezioni per le boutique Dover Street Market, l’insegna multimarca cult di proprietà anch’essa della CDG Company Ltd.

È emblematico il caso di Junya Watanabe che, entrato ventenne nell’ufficio stile della griffe, si guadagna ben presto la stima della fondatrice, tanto da poter lanciare, nel 1992, un marchio personale: Junya Watanabe Comme des Garçons – questa la denominazione completa – si caratterizza per la volontà di nobilitare gli item elementari del guardaroba (bollati, nelle parole del diretto interessato, addirittura come «dumb clothes»), trasformandoli in capi dal forte impatto. Unendo il rigore della sartoria, l’abilità nel drappeggio e la ricerca sui materiali – perlopiù tecnici – il designer declina in modi ogni volta diversi biker jacket, camicie, trench e capi in denim, mantenendo allo stesso tempo un certo pragmatismo, lontano dalle trovate ad effetto buone solo per la passerella. Proprio l’interesse per categorie di prodotto così specifiche lo ha spinto a siglare, in tempi non sospetti, numerose collaborazioni, tra le quali si distinguono quelle con Levi’s, Carhartt, The North Face, New Balance e Converse, divenute un oggetto di culto per gli appassionati, che ancora scandagliano Grailed e affini alla ricerca dei pezzi migliori.

Il percorso professionale di Watanabe incrocia quelli di Chitose e Junichi Abe, coniugi nonché fondatori, rispettivamente, di Sacai e Kolor; entrambi, infatti, hanno lavorato sotto la sua direzione.
La storia di Sacai inizia nel 1999, quando la sua creatrice, dopo l’esperienza da modellista nello staff di Comme des Garçons, decide di mettersi in proprio, realizzando personalmente una piccola quantità di maglie da proporre ai buyer. Dati gli ottimi riscontri, l’attività si espande gradualmente, allargandosi al menswear, fino all’ingresso nel calendario della settimana della moda francese. Aumenta nel frattempo l’elenco dei retailer, tutti di primo piano, mentre rimane invariato il plauso della critica, affascinata dal modo in cui Abe riesce ad amalgamare decostruzione, maestria nella confezione, studio delle forme e sovrapposizione di tessuti e fit differenti; elementi in teoria inconciliabili, eppure sintetizzati efficacemente nei suoi abiti, che si presentano il più delle volte come ibridi tra, ad esempio, cappotto e bomber, giacca e camicia, maglione e felpa, con superfici percorse da zip, cinghie, tasche e pannelli a contrasto, per offrire la possibilità di personalizzare i capi, conferendogli così un’ulteriore nota di versatilità. Lo stesso mix di codici e reference contraddistingue le co-lab che, finora, hanno scandito l’evoluzione del brand: basti pensare, oltre al profilo “sbordato” e al doppio swoosh sovrimpresso delle famigerate Sacai x Nike LDV Waffle, ai lacci e cerniere che spuntano sulle calzature Sacai x Hender Scheme, o ancora alle stampe folk dalle tonalità brillanti dei capispalla Sacai x Pendleton.

Junichi Abe condivide con la moglie i trascorsi nello staff di CDG, lasciato nel 2004 per dedicarsi a Kolor, dove partendo di volta in volta da ispirazioni militari, sportswear o abbigliamento formale, pone l’accento su sperimentazione, volumi e costruzioni a regola d’arte. Nello specifico, quelli che apparentemente sembrano errori (orli asimmetrici, cuciture in rilievo, pattern irregolari, patch in materiali o colorazioni diversi) vengono enfatizzati al punto da risultare un marchio di fabbrica, tanto insolito quanto efficace.

Fondere l’innovazione tecnica dello skiwear con l’estetica ricercata della moda high-end è invece il mantra di Yosuke Aizawa, anch’egli ex assistente di Watanabe, dal 2006 al timone di White Mountaineering. Le collezioni della label presentano una profusione di imbottiture, layer, termonastrature, bande riflettenti e altre specificità tipiche degli outfit d’alta quota.

Una creatività sui generis, allergica alle classificazioni di sorta, è la cifra del brand Undercover, che rispecchia appieno le passioni del fondatore Jun Takahashi, ossia punk rock, sottoculture giovanili, fotografia, design industriale, il variopinto street style nipponico e altro ancora. La sua carriera trentennale si è snodata tra l’esperienza di Nowhere, negozio di Harajuku gestito insieme a Nigo di BAPE, i gadget per Medicom Toy, il merchandising per la propria (immaginaria) etichetta discografica e le sfilate prêt-à-porter intrise di riferimenti musicali (David Bowie, Patti Smith, Joy Division giusto per fare alcuni nomi), oltre alle numerose collaborazioni con i giganti dello streetwear, da Supreme in giù.
Senza dimenticare la partnership di lungo corso con Nike: per l’azienda di Beaverton Takahashi ha ideato negli anni Gyakusou, linea performante per il running, ma soprattutto è intervenuto da par suo su alcune tra le silhouette più iconiche dello swoosh, dalle Air Max 720 con inserti di colore punteggiato e suola contornata dalla scritta We make noise not clothes (claim di Undercover, nda) alle Daybreak “spigolose” in versione patchwork.

L’ultimo arrivato è, infine, Hiromichi Ochiai di Facetasm, marchio creato nel 2007 che già dal nome, un’allusione alle tante sfaccettature della realtà (facet in inglese), certifica il proprio eclettismo. Ochiai procede per accumulo, a livello sia pratico – con look estremamente stratificati – sia concettuale, sforzandosi di conciliare gli opposti, dunque maschile e femminile, tecniche da atelier e vestibilità oversize, influenze street e chic parigino, ecc. Un talento poliedrico già lodato da Karl Lagerfeld, dalla giuria dell’LVMH Prize e da Giorgio Armani, che nel 2015 aveva invitato Facetasm a sfilare all’Armani Teatro. Un’ulteriore conferma di come, partendo da Tokyo e dintorni, gli eredi del trio Kawakubo-Miyake-Yamamoto abbiano ormai raggiunto una dimensione internazionale.