L’hip hop, le periferie, la Palestina: a trent’anni da “La Haine”, una conversazione con il più anticonformista dei registi europei
27 ottobre 2005, Clichy-sous-Bois. Due ragazzi di 15 e 17 anni entrano in un trasformatore elettrico per sfuggire alla polizia che sospetta abbiano rubato in un cantiere. Muoiono fulminati.
Per vendicarli, decine di giovani iniziano ad attaccare i vigili del fuoco, gli agenti di polizia e gli edifici pubblici. Durante le notti successive, le rivolte si estendono e arrivano a coinvolgere 274 comuni francesi. Lille, Lione, Tolosa, Marsiglia: le periferie di tutte le più grandi città francesi sono in fiamme.
Vengono mobilitati oltre undicimila agenti e, dopo circa dieci giorni di rivolte, il Governo decreta lo stato di emergenza, una misura concepita dalla Francia solo durante i movimenti di decolonizzazione del 1955 in Algeria, e del 1985 in Nuova Caledonia. Questo decreto concede poteri straordinari allo Stato e amplia notevolmente lo spettro d’azione della polizia. La rivolta viene infatti soffocata da una brutale repressione.
Anche i media in quei giorni sembrano spaesati. Dopo aver mostrato centinaia di volte le stesse immagini di auto, cassonetti, scuole e stazioni di polizia a fuoco, iniziano ad avvitarsi attorno ai dibattiti sulle responsabilità politiche e sulla negligenza trentennale delle istituzioni nei confronti delle banlieue, accorgendosi ben presto di essere stati i primi a dimenticarsene.
I cronisti delle tv francesi si dividono fra quelli – più coraggiosi – che tentano di ghermire qualche parola di rabbia e odio ai giovani banlieusard e quelli che si accomodano – con maggiore comfort – di fronte alla casa parigina di un giovane regista di nome Mathieu Kassovitz. Assediato in poche ore dai giornalisti di tutto il mondo e incapace di soddisfare le centinaia di richieste, decide di non rilasciare più interviste e di rendere pubblico ogni suo pensiero solo attraverso un blog. Il suo primo post, pubblicato l’8 novembre, è un feroce attacco all’allora Ministro dell’Interno Nicolas Sarkozy, che poche settimane prima aveva definito racaille (feccia) i ragazzi dei quartieri più difficili, annunciando che avrebbe utilizzato un kärcher (conosciuto per i grandi aspirapolvere) per ripulire le banlieue da queste presenze.
Oggi Mathieu Kassovitz ha 57 anni, ha da poco rischiato la vita in un incidente stradale ma parla come fosse immortale. Quella reputazione da combattente e anticonformista l’ha guadagnata trent’anni fa esibendo in un film le più profonde faglie – razziali, economiche e generazionali – della Francia moderna. Il suo “La Haine”, “L’Odio” per gli italiani, è un film che ha cambiato la vita di molte persone, a iniziare dalla sua, facendogli guadagnare a soli 28 anni 3 César (gli “Oscar” del cinema francese) e l’ambitissima Palma d’Oro per la Regia al Festival di Cannes. Ma il vero motivo che ha concesso a questo immortale racconto della periferia un posto d’onore nella storia del cinema di tutti i tempi, è lo stesso per il quale i giornalisti lo aspettavano impazienti davanti a casa e tutt’oggi lo assediano ogniqualvolta le banlieue francesi tornano ad infiammarsi: aver ribaltato radicalmente il concetto di ribellione, allontanandola dallo stereotipo hollywoodiano degli anni ’50 e riportandola invece sulle strade, proprio come ha fatto il rap nella storia della musica.
Quando Kassovitz mi chiama su WhatsApp – senza prima avvisarmi – ho in mano un vinile dei PNL, “Le Monde Chico”. L’avevo acquistato pochi giorni prima perché volevo ascoltare come suonano i Deux Frères del rap francese sul supporto più cool del momento. Lui invece è in macchina, sullo sfondo defluiscono le sirene di alcune ambulanze e i motori delle auto, lo stesso tappeto sonoro dell’Odio si mescola con la sua voce a tratti profonda, a tratti sarcastica: «Cosa posso dirti sui PNL, amico mio? Ho 57 anni, se mi piacessero i PNL sarei nei guai. Non li conosco così bene, sono troppo vecchio per questi giovani artisti». Anche se mi pare una presa di posizione, più che un’effettiva disconoscenza, gli spiego che non è reciproco: i PNL conoscono benissimo i suoi film e citano continuamente “La Haine” nei loro testi. Ademo, in un verso del brano “Hasta la vista”, sembra rivolgersi a un nemico non ben identificato, che potrebbe corrispondere alle istituzioni francesi: “sono felice che il mio odio vi piaccia. Felice che vi stiamo fottendo”.
Del resto, i giovani delle banlieue e di tutte le periferie si nutrono da sempre del mito cinematografico de “L’Odio”, utilizzandone i frame per comporre i propri videoclip, postandone le immagini sui social e utilizzando le stesse espressioni del film che si sono così sedimentate sull’intera cultura hip hop europea. A sua volta, Kassovitz è stato profondamente influenzato dal rap, lui che – cresciuto nel centro di Parigi – è rimasto sedotto dalle banlieue grazie al coinvolgimento nella nascente scena B-boy parigina. Una piccola rete di negozi di dischi e quelli che somigliavano a dei Block Party improvvisati, diventano il punto d’incontro di tutte le classi sociali nella Parigi degli anni ‘80 e dei primi anni ‘90, anche della petite bourgeoisie, la piccola borghesiada cui provengono Kassovitz e Vincent Cassel, uno dei protagonisti del film, il cui fratello minore Mathias è stato anche membro fondatore degli Assassin, gruppo pioniere del rap francese.
La figura del rapper è da sempre indigesta al cittadino medio francese e anche i genitori di Mathieu, il regista ungherese Peter Kassovitz e la montatrice Chantal Rémy non hanno mai smesso di chiedersi perché loro figlio frequentasse così tanto la periferia. Una domanda rimasta in sospeso fin quando hanno potuto a loro volta vedere “La Haine”, che ha messo ordine anche in famiglia, racconta Mathieu. “L’Odio” viene spesso descritto in Francia come un film coup-de-poing, ovvero un ”pugno nello stomaco”: una pellicola impetuosa, urbana e sporca, che segue il destino di tre giovani banlieusard per 24 ore e nasce dall’indignazione personale dello stesso Kassovitz per un fatto di cronaca avvenuto pochi mesi prima, l’uccisione del giovane Makomé M’Bowolé da parte della polizia francese, del quale si vedono scorrere alcune immagini nei titoli di testa, accompagnate dall’inno pacifista di Bob Marley “Burnin’ And Lootin’”.
Nel 1995 la disoccupazione a Parigi è altissima e le banlieue sono composte prevalentemente da alloggi sociali, un tempo costruiti per i lavoratori dell’industria automobilistica. Lo strato di rumore di questi luoghi – prodotto dalle sirene, dai vetri rotti e dalle grida degli scontri – si fonde completamente alla colonna sonora del film, creando uno street sound irripetibile. Ne parlo con Mathieu, anche lui è d’accordo: «se ci pensi bene, non c’è musica direttamente nel film. La musica è sempre riprodotta da una radio, da un DJ, vive nei luoghi. Così come l’hip hop, la sua cultura è sempre presente nel film perché parla di strada e il rap riguarda la strada, abita in strada».
E se l’hip hop è riuscito così bene a sconvolgere e compiacere, lo stesso ha fatto l’estetica di “La Haine”, che non a caso attribuisce un ruolo di grande rilievo al rap, ben oltre la colonna sonora: «ho raccontato una storia su qualcosa che accade per strada e l’hip hop fa parte della strada, non potevo fare diversamente – spiega Kassovitz – è un concetto che valica la trama, i giovani protagonisti e tutto il resto: la cultura è lì perché l’hip hop è la strada».
E se nei suoi 50 anni di storia l’hip hop ha contribuito ad accrescere la consapevolezza e ad accelerare una serie di cambiamenti sociali, si è trasformato oggi in qualcosa di molto diverso, pur senza perdere l’abilità nel raccontare uno struggle sociale ampiamente diffuso. Ne parlo con Mathieu e gli chiedo se il rap riesce ancora a dar sfogo a quell’odio del quale lui è considerato tra i maggiori narratori: «oggi non esiste una vera cultura hip hop. C’è l’hip hop della vecchia scuola, e poi c’è un enorme massa di musica normale. Quindi no, non credo sia esattamente la stessa cosa. Vedi, tutto sta nel messaggio che invii: ora gli artisti hip hop sono le persone più ricche del pianeta, quindi direi che è molto diverso». Mentre sto pensando di dissentire, preparando una serie di esempi della golden age che hanno dilapidato un capitale, preferisco rilanciare con una domanda secca che non ho mai fatto neanche a me stesso: «pensi quindi che l’hip hop sia morto?». Mathieu fa una breve pausa, per la prima volta da quando abbiamo iniziato a parlare, poi risponde con sicurezza mista a tranquillità: «Per quello che è stato finora, sì».
La scelta di una colonna sonora stratificata, che abbraccia dal reggae alla musica classica, è solo uno degli espedienti narrativi con cui Kassovitz cerca di arricchire la banlieue, trasformandone la sorveglianza in contemplazione. La troupe e il cast hanno vissuto lì per la quasi totalità dei sei mesi che sono serviti a lavorare sul film: l’obiettivo era quello di ottenere la totale fiducia della comunità, per fornire una rappresentazione distante da quella dei media tradizionali. Ciò ha creato un realismo da documentario, rafforzato dai filmati di repertorio e dall’utilizzo del bianco e nero, che contribuisce a rendere la pellicola senza tempo e di cui chiedo a Mathieu il motivo: «non c’è una ragione precisa nella scelta se non quella estetica. Avevamo girato il film a colori, ma sapevamo di volerlo distribuire in bianco e nero, perché inizialmente non aveva un così bell’aspetto».
Quella della veridicità è un’altra delle ossessioni narrative di Kassovitz: i suoi personaggi mantengono il nome di battesimo dei rispettivi attori e utilizza uno stile di ripresa nervoso, senza ridondanze, che è un po’ il suo modo di parlare e forse anche quello di vivere. Non è una coincidenza che i protagonisti siano black-blanc-beur (nero-bianco-nordafricano), un tricolore alternativo al blu-bianco-rosso della bandiera francese, sempre più utilizzato dai media in chiave canzonatoria, soprattutto dopo le rivolte del 1992 a Parigi.
È forse per questo che Kassovitz conserva una certa diffidenza verso i media, concretizzata ne “L’Odio” in una delle scene più celebri, ripresa e omaggiata anche da una parte della scena rap italiana. In questa sequenza si vede una coppia di giornalisti che tenta di intervistare i tre protagonisti in merito alle rivolte, senza neanche scendere dall’auto. La giornalista si sporge dal finestrino con il microfono in mano, ma non ha il coraggio di metter piede nel loro territorio. “On n’est pas à Thoiry” (“Non siamo mica a Thoiry”), le rispondono i ragazzi, riferendosi al famoso zoo safari francese.
E oggi, a trent’anni di distanza, qual è il rapporto di Kassovitz con i mezzi di comunicazione? «Ci sono troppi media e tutti sono giornalisti. Ecco che quando dici qualcosa, chiunque può prenderlo e cambiarne la narrazione. Questo fa sì che oggi tutti siano molto preoccupati di dire qualsiasi cosa, perché potrebbe rivelarsi un problema adesso o più avanti. Il punto è capire come siamo arrivati ad essere così preoccupati anche nel dire cose assolutamente ovvie e naturali». Inizio a capire il motivo per cui Mathieu rilascia pochissime interviste, soprattutto quando si sovrappongono alle narrazioni che già ha affrontato con la macchina da presa, il mezzo che più lo mette a suo agio. Andiamo avanti a parlare, il traffico parigino irrompe qua e là intercettando il flusso verbale. Gli racconto di Ghali, che durante la serata finale del Festival di Sanremo ha pronunciato la frase “Stop al genocidio”, riferendosi al comportamento di Israele verso i palestinesi di Gaza. Questa affermazione ha scatenato un terremoto mediatico e politico, la cui eco perdura ancora oggi.
Kassovitz ha origini ebraiche e il suo alter ego nell’Odio – quel Vinz interpretato da Vincent Cassel – è a sua volta un ebreo ashkenazita della classe operaia francese. Anche se so già la risposta, chiedo a Mathieu cosa pensa dell’attuale comportamento di Israele. Ribatte telegrafico, non vuole lasciar spazio a interpretazioni: «Non va bene, è qualcosa di veramente terribile. Non dovrebbero farlo».
A quel punto, mi chiede di più su questo rapper coraggioso di nome Ghali e io ne approfitto per testare la sua conoscenza della scena italiana. Racconta di aver incontrato alcuni ragazzi tempo fa, ma non ricorda i nomi. So per certo che si riferisce ad Emis Killa, di cui mi parla come un bravo ragazzo. «Ho visto del buon hip hop in Italia», aggiunge con un tono velatamente elegiaco. E chissà se vedremo anche qualche rapper italiano all’interno di quella che Kassovitz definisce un’opera urbana, alla quale sta attualmente lavorando come evoluzione del “L’Odio”: «è un adattamento del film sul palco, una sorta di musical con il ritmo cinematografico e gli stessi codici di un film. Voglio cercare di portare gli spettatori sempre più dentro a questa narrazione».
Ancora oggi – a trent’anni di distanza – “L’Odio” incarna la più potente storia di formazione non convenzionale ambientata in periferia, oltre a un’esplorazione sull’identità francese moderna che, attraverso il racconto di un’amicizia, sfida gli ideali di purezza nazionalisti. Chiedo a Mathieu se si aspettava che il suo film avrebbe continuato a raccontare il disagio di quei luoghi in maniera così viva e attuale. «Sono sorpreso, ma neanche troppo. Queste difficoltà esistono da sempre e sempre continueranno ad esistere. Del resto, non faccio film per risolvere i problemi, ma per sensibilizzare ogni singola persona».
Verrebbe da dire che i film non cambiano il mondo. Allora, a cosa servono? «I film scuotono le persone, e queste poi cambiano il mondo. Ecco perché dipende molto da come vengono visti e analizzati. Ma questo processo richiede tempo, ci vogliono intere generazioni». Il Primo Ministro dell’epoca – Alain Juppé – aveva provato ad organizzare una proiezione speciale de “La Haine” per i membri del suo dipartimento. Proprio in quell’occasione, gli agenti di polizia presenti avevano voltato le spalle allo schermo e si erano rifiutati di guardare il film, liquidandolo frettolosamente come un’opera contro la Gendarmerie Nationale. Lo stesso atteggiamento che oggi si verifica – tanto in Italia quanto in Europa – nei confronti di molti rapper, ignorati se non addirittura censurati, con la sola colpa della quale si sarebbe macchiato anche Mathieu Kassovitz: aver puntato il pericoloso riflettore dell’arte su ciò che non dev’essere mostrato.