Kendrick Lamar merita già un altro Premio Pulitzer 

Sembra strano a dirsi, ma io e Kendrick Lamar abbiamo qualcosa in comune: ci siamo entrambi avvicinati al rap un po’ per caso. Lui a otto anni, quando seduto sulle spalle di suo padre ha assistito alla registrazione dell’iconico video di Tupac e Dr. Dre “California Love”, girato allo Swap Meet di Compton, a pochi chilometri dalla casa dove è nato. Io a quindici, quando – trascinato un po’ a forza da un’amica dell’epoca – sono rimasto folgorato dall’unico live italiano di Jay-Z, per intenderci quello in cui il popolare rappresentante della East Coast ha rappato su un beat del nostrano Fibra. 

Sarà anche per questo che mi sento personalmente coinvolto da ogni mossa che Kendrick fa, e allo stesso modo ho sofferto di ogni sua debolezza. Ho avuto occasione di indossare ciascuna delle maschere pirandelliane che ha descritto nei suoi album e di pormi buona parte delle domande che ha sigillato nelle bottiglie di vetro delle sue canzoni. Tra mille dubbi – però – un’unica certezza: i lavori di Kendrick hanno bisogno di tempo. Per essere assimilati, analizzati, digeriti. 

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Dopo 1855 giorni di silenzio dal precedente “DAMN”, che gli aveva regalato un Premio Pulitzer e molte altre responsabilità che si sarebbe probabilmente risparmiato volentieri, il rapper di Compton è tornato con un album difficile, rapsodico e intimo, spalmato su 18 tracce suddivise equamente tra “Mr. Morale” e “The Big Steppers”, la cui unione dà il titolo al disco. Kendrick trascorre un’ora e 13 minuti guidando gli ascoltatori attraverso un pellegrinaggio musicale che si configura come la prosecuzione spirituale di “To Pimp A Butterfly”, nella sua natura disordinata ma allo stesso tempo solenne.  

Eppure, rispetto ai precedenti lavori, “Mr. Morale & The Big Steppers“, nonostante gli sforzi corali di artisti del calibro di Thundercat, Beth Gibbons, Ghostface Killah, Baby Keem, Sampha e molti altri, è un disco decisamente più introspettivo, il diario di un uomo che esamina il trauma esistenziale di arrivare dal nulla e ritrovarsi improvvisamente tra le mani tutto. A fare da cornice a questo taccuino musicale, una pandemia che ha innegabilmente cambiato le regole del gioco (quasi mai in meglio) e la condanna a dover indossare sempre i panni del rapper iconico: un ergastolo che sembra pesare a Kendrick ogni giorno di più. 

In tutte le 18 tracce di “Mr. Morale & The Big Steppers”, questo tiro alla fune tra conflitto e riconciliazione emerge con un’intensità tale da farne presagire uno strappo. Eppure alla fine, Kendrick riesce ad affrontare le proprie debolezze facendo quello che gli riesce meglio: il rap. Una disputa da cui esce vittorioso, proprio perché attraverso la musica è in grado di esorcizzare i propri conflitti interiori, che sono poi gli stessi della nostra società. Come quando tenta di combattere la misoginia in “We Cry Together”, un vero e proprio flusso che assume la forma di un’accesa discussione tra lui e una donna – probabilmente la fidanzata – doppiata dall’attrice Taylour Paige, o in “Auntie Diaries”, una lunga e sincera ballata rap a favore della comunità transgender, rappresentata per l’appunto da sua zia: un territorio completamente nuovo per l’hip hop mainstream. 

Oltre che a noi, Kendrick Lamar sta cercando con questo album di parlare direttamente ai propri colleghi rapper. “Mr. Morale & The Big Steppers” è infatti un grido rabbioso contro il politicamente corretto che sta soffocando l’hip hop e contro gli artisti che non esprimono più le proprie opinioni per paura del contraccolpo dei social. Ciò emerge particolarmente in “Worldwide Steppers”, un condensato di sesso, paure e religione in cui Kendrick sentenzia: “I media sono la nuova religione, hai ucciso la coscienza”. Anche l’aver schierato all’inizio di questo brano Kodak Black, accusato di violenza sessuale, è una presa di posizione potentissima contro la cancel culture, su cui Kendrick si era già espresso nel 2018, quando aveva minacciato di ritirare il suo catalogo da Spotify se la piattaforma avesse rimosso R. Kelly e XXXTentacion dalle proprie playlist. 

Kendrick Lamar sembra sempre meno interessato alla moralità artefatta e imposta, e sempre più coinvolto invece nell’analisi di come l’ambiente circostante finisca per forgiare le persone e i loro comportamenti. Del resto, lui stesso è nato all’interno di una famiglia con profondi legami criminali e ha trascorso buona parte della propria carriera a cercare di far pace con il passato. Suo padre era notoriamente un membro dei Gangster Disciples e pare che la famiglia allargata del rapper fosse collegata addirittura alla famigerata banda dei Bloods. Sulla copertina del suo secondo album, il capolavoro “Good Kid, M.A.A.D City”, un giovanissimo Kendrick è raffigurato assieme a suo nonno e due dei suoi zii, i cui occhi sono coperti da una riga nera. Un biberon giace sul tavolo della cucina, accanto alla bottiglia aperta di un superalcolico. In un’intervista a FUSE, il rapper disse: “In quella copertina non vedi gli occhi di nessuno, vedi solo i miei occhi innocenti che cercano di capire cosa stia succedendo”.

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Quegli stessi occhi che un tempo erano puntati sulla sua famiglia, sono oggi rivolti verso di noi. Ci scrutano senza mai giudicare e ci ricordano che siamo tutti troppo vulnerabili per crederci immortali. E come se non bastasse, Kendrick Lamar – con gli stessi occhi innocenti e curiosi che aveva da bambino – celebra ancora una volta la più pura promessa creativa dell’hip hop, quella di trasformare la rabbia personale in rabbia strutturale, facendoci vivere la speranza che esistano ancora molti modi per salvare il rap dalle consuetudini.