In un contesto come quello del rap-game ogni parola sembra permessa: su un beat si possono insultare le madri di tutti, confessare qualsivoglia genere di reato o sconsacrare ogni tipo di Dio, senza che nessuno batta ciglio, perché fa parte delle regole del gioco. Ma ci sono termini ben più pettinati, come ad esempio “documentario autobiografico”, che per molti in questo ambito suonano invece fuori posto.
Siamo abituati a vedere i rapper come persone con una certa tendenza all’autocelebrazione, aspettandoci da un documentario di cui sono i protagonisti esattamente la stessa attitudine, ma oggi ci siamo dovuti ricredere. Ketama ci ha insegnato che si può parlare di sé stessi senza cadere, neanche per un secondo, nello specchio d’acqua di Narciso.
Per 17 minuti il cantante della Love Gang ha aperto le porte della sua vita privata in un mini-film che, tra confessioni e riflessioni, ripercorre tre giorni della sua estate trascorsa nella capitale.
Katy parla della sua Roma amica-nemica, della famiglia 126 unica nel suo genere, del legame con i fan, del suo altalenante processo creativo e di come secondo lui spesso avere troppe cose, troppe possibilità, ad un certo punto finisca per farti perdere la strada.
Quando avevo 16 anni ho scoperto il rap grazie a tutti gli amici della Love Gang. La musica ci siamo messi a farla per passare il tempo, piano piano le cose si sono evolute, sono pure andate oltre ogni più rosea immaginazione, ci speravamo ma nessuno ci avrebbe scommesso.
Il risultato è un racconto intimo e accogliente, sempre leggero ma mai frivolo, in cui la musica è il denominatore comune, il centro e la valvola di sfogo. Quell’amica che, anche se non fosse arrivato il successo, Ketama non avrebbe mai abbandonato.