Nel fare interviste, così come nello scattare foto sul set, Francesco Stasi, in arte Kid Yugi, non trova certamente la dimensione da lui prediletta. Lo percepisco durante tutto il pomeriggio trascorso assieme, seppur lui non si ponga mai in maniera schiva o scortese con nessuna delle persone che gli passano attorno, una dozzina in tutto. Lo capisco quando fra un cambio di outfit e l’altro sceglie di isolarsi con le cuffiette e ascoltare musica. O quando si prende volontariamente del tempo per chiamare un amico di giù, raccontargli degli impegni lavorativi che lo stanno coinvolgendo e promettergli che andranno presto a cena assieme. «Non vivo molto bene il rapporto con il successo. Sono una persona a cui piace stare nel suo, piuttosto che al centro dell’attenzione o sotto i riflettori. Sai a me piacerebbe continuare a passare inosservato per la strada, poter fare una passeggiata e perdermi fra i miei pensieri, che è sempre stato una valvola di sfogo e creatività». Poi allarga la riflessione spiegandomi che se qui a Milano la popolarità è qualcosa di ormai abbastanza digerito e metabolizzato, perché è più comune incontrare personaggi famosi anche per strada, in provincia la fama porta ancora con sé un’aurea quasi mistica. «Da noi è così raro avere successo che la gente non è abituata, a volte mi vedono come un’entità magica. Non si spiegano come sia stato possibile».
Incontro Yugi durante un servizio fotografico organizzato con JD, con cui ha intrapreso una collaborazione. Da poco è infatti diventato il nuovo volto del brand per la campagna natalizia, una campagna che al centro ha il concetto di famiglia, intesa come legami che si costruiscono attraverso le connessioni con persone incontrate durante la propria vita, non solo quelle accomunate dallo stesso sangue. Ci vediamo qualche settimana dopo l’uscita di Tutti i nomi del diavolo, la versione espansa del secondo album ufficiale del rapper classe 2001. Otto nuove tracce che arricchiscono l’originale, completandolo. «I nomi del diavolo aveva bisogno di un’integrazione. Alcune delle tracce presenti nella Deluxe le avevo scritte già all’epoca del disco, ma l’uscita in due momenti temporali diversi può portare il pubblico a capire meglio il concept e ad apprezzare ognuna delle 22 canzoni del progetto». Al suo interno, a spiccare sugli altri, una serie di dettagli indirizzati ai fan di più lunga data. Penso, ad esempio, alla nuova versione di Ex Angelo, con la seconda strofa di Yugi, che si trovava solo nel vinile del disco e che era diventata un po’ un culto fra una certa nicchia di pubblico. In realtà il richiamo più immediato va a S.X.S.I.C., la traccia che più ha fatto scalpore della repack, per ovvi motivi, e che nelle ultime settimane ha rappresentato il principale argomento di discussione fra pubblico, colleghi e addetti ai lavori nella bolla del rap italiano. Sono trascorsi 22 anni da quando Bassi Maestro pubblicava la prima e memorabile versione di S.I.C. All’epoca Kid Yugi aveva appena un anno.
Però si sa: l’andamento della storia della musica è da sempre ciclico, ovunque nel mondo, tanto più se si parla di hip-hop. E anche se quest’ultima si rinnova, cambiando estetica e formato, conseguenza di trend planetari che sarebbe stupido contrastare, succede che a volte ritorna senza aver perso i suoi segni più peculiari. «Nelle settimane in cui stavo chiudendo il disco ascoltavo in continuazione la traccia. Sono fan sia della primissima versione sia del primo remix, con Fibra. Volevo tributare una canzone di cui sono innamorato, con un secondo remix e così l’ho chiesto a Bassi. Lui si è dimostrato immediatamente disponibile, ha rinfrescato il beat ma ha mantenuto quel giro di piano iconico che è, a mio parere, uno dei più belli del rap italiano e che ha fatto la storia del genere. Penso che ci saranno sempre delle dinamiche dell’industria musicale che più di altre influenzeranno questo genere. Anzi, con il continuo sviluppo che il rap sta avendo come mercato ve ne saranno sempre di nuove. Secondo me è giustissimo sottolinearle in una traccia e criticarle senza paura».
Nonostante sia circondato dal suo team e da amici che si è portato appresso, mentre mi parla è molto accorto. L’impressione che ho, sin da subito, è quella di trovarmi davanti a un ragazzo di 23 anni che altro non vuole che proteggere la sua musica e la sua idea artistica con cura. Gli chiedo come mai, nella Deluxe del disco che lo ha consacrato come uno dei nomi più importanti e interessanti del rap italiano e in una fase di carriera dove avrebbe potuto ospitare chiunque, abbia fatto due scelte ben precise di featuring. Mi racconta di considerare le liriche di Massimo Pericolo sposarsi molto bene con la sua attitudine, di essere fan suo e della sua scrittura e che reputa Glocky un ragazzo giovane e talentoso, che ha quindi genuinamente deciso di spingere. «Io stesso in passato sono stato spinto da alcuni colleghi e big della musica. Penso ad esempio a Tedua, che dopo aver ascoltato la mia musica ha deciso di mettermi nel suo disco più importante. È una cosa molto hip-hop, che oltreoceano si verifica più spesso che in Italia e che ho fatto in maniera spontanea: lo vedo come un rapporto mutuale, dove tu non devi per forza guadagnare qualcosa da un feat, anche se ospiti l’artista in un tuo disco».
L’impressione precedente trova conferma non appena il piano della discussione si fa più serio, nel momento in cui gli chiedo come vive l’altra faccia della medaglia del successo, vale a dire l’emergere, assieme a tanti fan, anche di alcuni haters. Alludo ai commenti sul web che alle volte lo accusano di essere un prodotto dell’industria musicale, altre di proporre musica monoflow. «The Globe, il mio primo disco ora certificato platino, è di mia assoluta proprietà. Fu solo in distribuzione con Universal ma appartiene a me al 100%, feci io persino i video. Credo che nessuno nell’industria musicale avrebbe mai puntato un capitale ingente su un ragazzino di provincia sovrappeso del sud. È una bugia detta in faccia alla realtà».
Dopo un attimo di silenzio e un peso delle parole sensibilmente maggiore, riprende. «Trovo l’accusa di essere monoflow altrettanto infondata. Spesso non so che concezione abbia la gente di flow e di flusso». Prova a convincermi con un esempio. «Uno dei miei rapper preferiti era Nipsey Hussle. Quando mettevo in play una sua canzone capivo immediatamente che era Nipsey Hussle, dalla prima barra all’ultima. Anzi, la trovavo una cosa figa, pensavo: questo artista è in grado di mantenere la mia attenzione per oltre due minuti solo con le parole, senza mai una variazione di metrica. L’idea di iniziare una canzone con un flow e concluderla con lo stesso è una caratteristica comune a molti rapper americani, sicuramente ai miei principali ascolti d’oltreoceano: penso a 21Savage, ad esempio, o a Lil Baby. Più recentemente sto in fissa anche con BigXthaPlug che è un altro artista molto dritto e coerente in ciò che fa».
Il rischio, a questo punto, è di confondere la coerenza e la fermezza di idee del rapper originario di Massafra con un’altrettanto statica concezione musicale e artistica. Non è così. La produzione e i ritornelli di due tracce come Donna e Diablo, ad esempio, così come l’inedito storytelling che confeziona in Loki, sono lì a dimostrarlo. Semplicemente, è possibile intendere evoluzione e musica viaggiare assieme, senza il bisogno che ciò si trasformi in contraddittorietà. «Non mi piace quel percorso preimpostato che esisteva fino a qualche anno fa in Italia e che ora per fortuna si sta in parte perdendo, dell’artista rap che prima si dà al pop e poi finisce a Sanremo – questo pop un po’ rappato per Sanremo (n.d.r.) -, come se fosse l’unica possibilità di sviluppo e crescita, artistica e numerica. Io mi sento comunque molto coerente con me stesso: l’evoluzione c’è perché fa parte della crescita, della musica e dell’arte, altrimenti continuiamo a fare sempre i dischi tutti uguali, annoiandoci noi artisti per primi e annoiando il pubblico poi. La morte della musica sopraggiunge quando smetti di divertirti nel farla». Continua: «se poi Giggino2008, per dire, scrive sui social che sono monoflow e industry plant dalla sua cameretta con sotto la musica di Fortnite fa niente, lo accetto. È solo l’altra faccia della medaglia del successo, una gogna che posso sopportare. Certe volte ancora mi infastidisco quando leggendo certi commenti noto una cattiveria a priori, perché in fondo non penso di meritarmela più di tanto. In generale, mi infastidisco quando mi rendo conto che la gente passa ore del suo tempo a odiare gratuitamente persone che non meritano ciò. Facciamo musica, nient’altro».
Allacciando un aneddoto all’altro, finiamo a parlare di quella che, ad oggi, è una fra le questioni che crea più attriti e disaccordi rispetto al successo mainstream che il rap ha raggiunto negli ultimi anni. Vale a dire il rapporto fra la musica che si fa, le immagini e i messaggi che si comunicano e un certo “potere” nell’influenzare i propri ascoltatori, tanto più se giovani. Gli faccio notare una barra del disco in cui è proprio Massimo Pericolo a toccare l’argomento: “Cercano saggezza in ogni mia strofa (Na-na) / Io sono un rapper, no una bella persona (Na-na, na-na) / E questa qui è la vita vera che suona (Na-na-na)”. Yugi mi guarda divertito. «Sono profondamente convinto che un rapper non debba avere alcuna missione pedagogica o didattica. Anzi, se l’educazione dei ragazzini deve essere affidata a me, che ho vent’anni, piuttosto che alla scuola italiana, siamo messi male» scherza per un attimo, per poi rifarsi subito serio. «Io come artista leggo il mondo nella mia maniera e nella mia musica traspare unicamente ciò, con un linguaggio alle volte diretto, altre sfacciato e scontroso, con momenti di luce e altri di buio. Se mi comportassi diversamente, con altri intenti, mentirei e non arriverei alle persone. Tra il mio pubblico ci possono essere sociopatici così come persone che scopriranno un nuovo farmaco e salveranno la vita a milioni di persone. Ma, verosimilmente, queste persone faranno quello che sono destinare a fare indipendentemente dal fatto che ascoltino o meno la mia musica. Il pubblico non te lo scegli e a me non è mai interessato educarlo. Non sono nessuno per attribuirmi tale diritto».
L’immagine che dopo oltre 60 minuti di intervista si delinea con maggior nitidezza non è così distante dalla percezione iniziale: Kid Yugi è un ragazzo che si sente davvero come tutti gli altri e che solo così vorrebbe essere considerato. Tanto nella musica, come nel modo di vestire. «Non denigro la moda ma neanche la amo. Proprio per questo motivo la collaborazione con JD è stata spontanea e ben riuscita: il brand rispecchia il mio modo di vestire solitamente, ovvero sportivo, come un ragazzo di provincia senza troppe pretese. Un jeans e una maglietta, come si vestiva Nino D’Angelo».
Sul finale della nostra chiacchierata, appare anche più sciolto. Come un qualsiasi ragazzo di 23 anni mi comunica di sentire innanzitutto la necessità di vivere. «Mi prenderò un periodo di pausa. Non troppo lungo. Negli ultimi due anni ho vissuto esclusivamente per la musica, è stato un susseguirsi di dischi e cambiamenti repentini. Non mi sono mai fermato. Ora ho bisogno di vivere un po’. Penso che la musica di qualità, quella fatta con la testa, abbia bisogno di un periodo di incubazione un po’ più lungo e che la fretta sia sempre nemica della prestazione. In ogni modo, ho già in mente il concept del prossimo disco e ne sto iniziando a delineare la strada».