
Giovedì 6 ottobre, Highsnobiety ha presentato assieme a Christie’s una collezione denominata Art Handler in onore dell’apertura del nuovo Department X della casa d’aste dedicata alle sneakers, allo streetwear e agli oggetti da collezione. Protagonisti di questa commistione erano proprio gli art handlers, ovvero coloro che nel mondo dell’arte ci lavorano quotidianamente a livello pratico: si parla infatti di quelle persone che manualmente si occupano di spostare e maneggiare le opere d’arte nella maniera più consona. Il merch prevedeva t-shirt, felpe e borse di cotone targati Art Handler, con tanto di nastro adesivo brandizzato, con prezzi che partivano da un minimo di cinquanta dollari per la shopper in tela fino anche a centoventicinque dollari. La campagna recitava: “the era where the lines between streetwear and luxury have officially blurred”, a conferma di un trend già chiaro da tempo: l’effettiva entrata dello streetwear nel mondo del lusso. Dopo poche ore dalla pubblicazione sia sul sito che sui social media di Highsnobiety, l’azienda ha rimosso tutto per via delle critiche che si erano scatenate online.
Ma facciamo un passo indietro. Highsnobiety da diverso tempo si sta occupando di realizzare collaborazioni meno canoniche, come quella con Colette Mon Amour o il Bar Basso a Milano. Per entrambi aveva realizzato delle capsule – ancora in vendita sul sito – con il fine ultimo di avvicinare i pubblici (principalmente dai 20 ai 30 anni) a un immaginario diverso da quello identificato dall’immaginario definibile come “hypebeast”. Highsnobiety ci guadagna anche in reputazione in quanto questi tipi di azioni aumentano la percezione nei propri utenti.

Christie’s è una delle più importanti case d’aste a livello mondiale. Di origine britannica. Fondata nel 1766 da James Christie, è oggi sotto la direzione del Gruppo Pinault e può contare uffici e dipartimenti dedicati in Europa, America e Asia. Nel 2017 batterono il dipinto attribuito a Leonardo Da Vinci “Salvator Mundi”, che batté il record come opera con il prezzo più alto mai pagato durante un’asta.
A scatenare le critiche online intorno alla collezione Art Handler furono proprio gli stessi lavoratori di Christie’s, adirati che la collaborazione li avesse come protagonisti, in quanto il loro ruolo è spesso sottopagato e sfruttato. Gli Art Handler sono coloro che, all’interno di istituzioni d’arte o per collezionisti privati, si occupano di maneggiare le opere, entrando in azione durante gli spostamenti, allestimenti o durante le operazioni di restauro, tra le altre. Si tratta di una figura altamente specializzata e fondamentale per queste realtà, ma che si trova a lavorare in condizioni precarie, tanto da non potersi nemmeno permettere la collezione stessa.
Infatti, da quando è scoppiata la pandemia, i lavoratori dell’arte si sono ritrovati i propri stipendi ridotti – senza contare chi il lavoro lo ha proprio perso – e alle loro continue richieste di spiegazioni da parte di grosse istituzioni come Christie’s si sono spesso sentiti rispondere che i soldi mancavano, e non potevano fare di più. Questa collezione per loro è stata come uno schiaffo. I prezzi degli oggetti in vendita per i loro stipendi sono inaccessibili ma, soprattutto, un investimento del genere da parte della casa d’asta, avrebbe generato introiti che non sarebbero andati ad aiutare o migliorare la condizione degli art handlers.
Per capire come siamo giunti a questo punto, dobbiamo tornare al ventesimo secolo, e guardare con attenzione ai ragazzi del secondo dopo guerra. In quegli anni si assistette a un’importante separazione tra la figura dell’adolescente e giovane adulto da quella dei propri genitori e nonni. I ragazzi rivendicavano nuovi valori e ideali politici e queste rotture si manifestavano attraverso lo stile, spesso in controtendenza rispetto a quello che gli avevano imposto fino ad allora. In quegli anni si diffuse l’utilizzo dei jeans, degli eskimo o del parka, abiti nati per l’utilizzo operaio o militare, che ora venivano svenduti alle bancarelle dei mercati. Il nuovo gruppo sociale che si era andato a creare possedeva fondi cospicui ed era disposto a spendere. Ciò che più importava però è che aveva motivazioni forti per farlo, significati che andavano oltre all’estetica. Questi erano legati al bisogno di trovare un abbigliamento che parlasse di uguaglianza, che portò a creare abiti unisex, ovvero non più legati a un’ideologia gender, e soprattutto senza distinzioni tra alta o bassa estrazione sociale: la rivendicazione politica degli ideali della classe operaia di cui ora adottavano l’abbigliamento, ma anche la necessità di creare coesione di un gruppo.
Questo cambiò anche l’acquisto e la percezione generale verso la moda. Infatti, le parole – che posseggono un potere informativo forte – vennero aggiunte alla forma della t-shirt, da sempre riconosciuta per il suo valore neutro e democratico, con lo scopo di poter raccontare le loro idee senza il bisogno di parlare. La ragione era la loro voglia di cambiare il mondo e sentivano il bisogno di dichiararlo pubblicamente, creando degli statement riconoscibili, e utilizzando come mezzo la moda. Da qui nascono le t-shirt con frasi e motti stampati, che dimostrano il potere comunicativo della moda rendendolo il più esplicito possibile.
Il collegamento tra moda e slogan politici è diventato più forte nel 2017, con la creazione del merch repubblicano durante il percorso elettorale di Donald Trump. Fu proprio quella frangia politica a basare la propaganda puntando principalmente sulla moda, da cui nacquero t-shirt e accessori con frasi quali “Make American Great Again”, che ben riuscirono a influenzare la popolazione e portare avanti la sua retorica. In risposta, i designer risposero durante le seguenti fashion week, facendo sfilare in passerella abiti che dimostravano il loro punto di vista su questioni politiche quali il cambiamento climatico, il femminismo (come le t-shirt di Dior recitanti “we all should be feminist”) e il sostegno alla comunità LGBTQIA+. Ad oggi, stiamo assistendo a una politicizzazione della moda come espressione di protesta e dissenso, e questo è ciò che è accaduto con la rivolta verso la collezione Art Handler.
Instagram si è rivelato chiave, come spesso succede. La necessità di condividere e la democraticità con cui ciò è fatto, punta l’obbiettivo verso le persone “normali” e la loro quotidianità. Ciò porta alla nascita di immaginari talmente potenti da aprire le porte a una nuova – e più importante – diffusione dello street style. Così facendo, anche delle t-shirt arricchite da uno slogan chiedono un’apertura dello streetwear al mondo del lusso.
Christie’s ed Highsnobiety hanno dimenticato tutto ciò. Affidandosi alle regole economiche del lusso e hanno deciso di lanciare una partnership rappresentante una visione, prontamente rivendicata da chi in quel mondo ci vive, ma soprattutto di coloro che hanno sempre posseduto e coniato lo street style. Non c’è quindi da stupirsi quando l’account instagram @sugarbombing ha pubblicato una collezione sul proprio e-commerce che riprende dell’originale sia i caratteri che la forma, ma questa volta riportando “Christie’s Exploits Art Handlers”, a dimostrare che lo streetwear è ancora in mano alle grandi masse, e non ha mai perso la spinta nel rivendicare i propri valori e ideali politici.