Abbiamo incontrato Andrea Batilla, consulente per investimenti, branding e comunicazione per brand di moda e lusso, per chiedergli cosa ne pensasse della situazione attuale del mondo moda e che cosa potrebbe succedere nell’immediato futuro. Ne è uscito un video che discute l’impatto della pandemia di COVID-19 sull’industria fashion, evidenziando le difficoltà economiche e operative affrontate dai brand. La chiusura dei negozi fisici, il calo delle vendite e le interruzioni nella catena di approvvigionamento hanno portato a una crisi significativa. Le aziende hanno dovuto adattarsi rapidamente, spostando l’attenzione verso l’e-commerce e le vendite online. Alcuni marchi hanno invece trovato modi innovativi per rimanere rilevanti, utilizzando la potenza dei social media e instaurando collaborazioni creative per mantenere l’interesse dei consumatori. Tuttavia, la crisi ha anche messo in luce le problematiche preesistenti nel settore.
Questo è un periodo di profondissima crisi, ma non solo di crisi economica e di calo di mercati fondamentali come quello cinese. C’è anche assenza totale di quello russo ormai, quindi non solo crisi monetaria di introiti ma anche legata al contesto sociale nel mondo. È una crisi creativa, che è una parola brutta da dire, però è un modo abbastanza semplice e diretto per capirsi. Il lusso è stato considerato per molti decenni un punto di forza, anche se ci sono stati momenti di down molto forti, ma era una categoria che di base continuava a crescere, anche tanto, con dei margini di guadagno molto forti quasi sempre a due cifre. Questa cosa è andata avanti per tantissimo tempo per poi avere un rallentamento durante il Covid e poi una riaccelerazione subito dopo. Adesso, però, siamo tornati nel buio.
Ma è un buio un po’ diverso, sembra molto più strutturale. È differente da quello precedente perché sembra qualcosa che va nel profondo: cioè non pare che le persone semplicemente comprino di meno perché hanno meno soldi o perché ci sono le guerre ecc. Ma sembra che il meccanismo di dare così tanto valore a degli oggetti, ovvero quello che sta alla base del lusso, sia messo in dubbio. Questo cosa vuol dire? Significa che compriamo degli oggetti che ci piacciono tanto, da cui siamo attirati molto, che costano anche tanti soldi perché in qualche modo ne traiamo piacere o ci aiutano? No, è un meccanismo semplice che è sempre esistito e che la pubblicità a partire dagli anni ’50 ha sempre usato. Probabilmente perché ora siamo in un momento di grande cambiamento in generale. Quindi che cosa sta succedendo da un punto di vista di mercato? Tolto chi può spendere, 500.000 o addirittura 1.000.000, se non di più all’anno in vestiti, tutto il resto è in grande crisi. E con “tutto il resto” si intende la fascia nel mezzo che si chiama aspirazionale, ovvero quelle persone che non sono miliardarie ma che si comprano magari degli oggetti per essere appagati dal punto di vista dello status.
L’esempio classico sono state le sneakers, al centro di tantissimi successi e guadagni. Pensiamo a Balenciaga, per esempio. Adesso quel tipo di mercato aspirazionale sta svanendo, in parte perché abbiamo meno soldi, ma in parte anche perché le persone non si riconoscono più in questo meccanismo. Stiamo assistendo a una perdita di valore della narrazione della moda. I CEO, i direttori marketing e i direttori della comunicazione del mondo moda si sono fatti accecare da questo strano oggetto del desiderio che è stato chiamato quiet luxury, ovvero un lusso tranquillo, silenzioso. È una cosa di cui si è parlato molto negli ultimi anni e i riferimenti sono Loro Piana, Zegna, Hermès… i prodotti di questi brand che producono oggetti che in qualche modo vanno al di là della moda e al di là del cambiamento sono solo oggetti iconici.
A un certo punto si è creduto, e in parte si crede ancora, che questa fosse la ricetta per tornare a dare contenuto a questa cosa stanca che si chiama narrazione della moda. È un po’ come dire che alla 5ª puntata di una serie televisiva di successo la gente si stia un po’ stancando.
Il management delle grandi aziende del lusso si stanno infatti accorgendo che non funziona, ma fanno molta fatica a trovare la direzione giusta. Ci sono stati invece dei progetti che probabilmente hanno indicato qual era la direzione futura possibile percorribile. Uno di questi è stato Gucci di Alessandro Michele.
Se poi pensiamo, ad esempio, all’ultima sfilata Couture di Balenciaga e alla prima nuova collezione donna di Alessandro Michele per Valentino, c’è da essere ottimisti. Ma che cosa hanno di interessante questi due progetti che improvvisamente a causa delle cose che abbiamo detto prima sul quite luxury sembrano diventati obsoleti? Sono progetti che raccontano tanto, estremamente visibili, che hanno un sacco di livelli di lettura, che sono pieni di oggetti e che sono massimalisti da tutti i punti di vista. Questi progetti hanno di unico il fatto che riflettono sul sistema e sui meccanismi della moda. Se si pensa appunto all’ultima collezione couture di Balenciaga era esattamente quel tipo di esercizio.
Cioè mantengo le tecniche classiche dell’alta moda degli anni 50, ma senza usare neanche un tessuto prezioso, anzi, tessuti che vengono dal denim, dallo sport, dallo street, ecc. Questo modus operandi è una critica alle dinamiche della moda che, se ci pensiamo, sono le stesse dall’Ottocento: le sfilate non sono cambiate, sono uguali, e anche i metodi produttivi sono uguali.
Alessandro Michele, dalla sua parte, è stato prima salvatore della patria, poi accusato di essere ripetitivo e di continuare a fare le stesse cose. In Valentino ha fatto un’altra cosa estremamente interessante: ha riportato l’attenzione sul lavoro di Valentino Garavani che evidentemente nessuno conosceva perché la gente continua a scambiare Valentino con quello che faceva Pierpaolo Piccioli, ovvero quello che è stato un lavoro straordinario ma abbastanza lontano da quello del fondatore del brand.
Invece Michele ha riportato l’attenzione su quello e ha ricominciato a lavorare sull’archivio, che è il suo forte, in una maniera seria e in qualche modo sta anche dicendo che per quanto riguarda i brand di heritage come Balenciaga, come Gucci e come Valentino, o si ristabilisce una connessione profonda con il principio creativo che ha dato vita al brand o non funziona più. Anche questa è una critica al sistema, perché il sistema fino ad adesso ha quasi sempre detto che dei brand ce ne potevamo fare quello che volevamo: dimenticarci dei valori cardine del marchio e portarli dove il direttore creativo voleva. E quindi lui sta dicendo “forse ho fatto la stessa cosa anch’io ma magari è il caso invece di fare una riflessione diversa”. Quesi sono solo due esempi, ma sono abbastanza importanti per pensare che la luce in fondo al tunnel esiste. Forse questo qui è il momento di ricominciare. I momenti di crisi sono sempre più fertili.