Quando nel 1991 lo scrittore canadese Douglas Coupland viene incaricato di un ritratto generazionale della popolazione “intorno ai venticinque”, il primo nome che gli viene in mente per definire i nati tra il 1965 e il 1980 è una lettera: una X. Il monogramma più vago nel nostro vocabolario. E tuttavia ai protagonisti del romanzo di Coupland – Generazione X – la non definizione di questa lettera si addice benissimo: Andy, Dag e Claire sono tre venticinquenni che, per sfuggire alla prospettiva asfissiante di un lavoro fisso, presumibilmente sottopagato, e di una costruzione familiare standard, magari in una villetta a schiera da quartiere residenziale, scappano nel deserto californiano attorno a Palm Spring. Qui, vivono una vita arrangiata, tra un lavoro saltuario e l’altro, in bungalow da campeggio. Nel deserto di Palm Spring, “un non-luogo senza clima e senza classe media”, provano a tracciare un nuovo finale per la loro storia, diverso da quello che la generazione che li ha preceduti, i boomer, avrebbe voluto per loro.
La forza del racconto di Coupland, presto divenuto un caso letterario globale, non risiede solo nella narrazione: accanto al testo troviamo materiali extra-narrativi, come illustrazioni, slogan e neologismi, a dare un nome e una definizione a certi fenomeni lavorativi tipici della generazione X. Tra questi, McJob, “impiego a paga irrisoria, basso prestigio e bassa dignità” o recinto da ingrasso“ postazione lavorativa angusta e scomoda, occupata dai dipendenti non qualificati”. Dal 15 maggio 2024 Generazione X di Douglas Coupland torna in libreria, ripubblicato da Accento Edizioni, con la traduzione aggiornata di Marco Pensante, per raccontarci le parole di una generazione invecchiata – Andy, Dag e Claire oggi avrebbero cinquant’anni, mentre il loro posto è stato preso, in successione, dalle generazioni Y e Z. E verrebbe da chiedersi quali neologismi troveremmo in un possibile Generazione Z di Coupland.
Se allo scoccare della campanella feriale lasci la scrivania e, senza guardarti indietro, semplicemente vai, stai praticando quiet quitting – letteralmente, “abbandono silenzioso”. Lo fai anche quando, al termine dell’orario lavorativo, non ti fai bloccare dall’essere il primo ad andarsene né ti preoccupi di chiedere, con tono remissivo-interrogatorio, “io andrei, se non c’è altro…?” – con il sottinteso che, se altro ci fosse, saresti disposto a fare dietrofront per completare quell’ultima task job – inglese per “incarico”. O quando ti rifiuti di rispondere alla notifica del collega su Slack – l’ultima piattaforma di comunicazione aziendale, una sorta di WhatsApp del lavoro – prima delle nove. O, ancora, se respingi l’idea di impiegare parte delle ferie nel viaggio annuale di team building, dove la “costruzione” del “team”passerà necessariamente per conversazioni di lavoro, sul lavoro, per implementare il lavoro.
Benché il verbo to quit, da cui quitting,appartenga al lessico informale del licenziamento, se affiancato all’aggettivo quiet ne troviamo una versione edulcorata, smorzata nella ridondanza delle q: quiet quitting non significa che ti stai licenziando, ma che hai deciso di non andare oltre. O meglio, di fermarti, di licenziarti se vogliamo, al di qua dell’orario prestabilito, delle mansioni regolari e dell’altro che potresti fare dopo le 18. Rimanendo nell’ambito del lessico informale, un altro significato di quiet è quello di abbassare o ridurre il volume. E, in effetti, il quiet quitting è tutta una questione di volumi: è percepire il lavoro come un brusio fuori dalla finestra della quotidianità, e non come una televisione a tutto volume che assorda ogni altra percezione. È fare del lavoro una nota secondaria, anziché dominante.
Se le tue opportunità di avanzamento vengono silenziosamente sabotate, con pratiche non chiare e spesso mortificanti, il tuo capo sta facendo quiet firing. Lo fa affidando incarichi non gratificanti o impossibili, revocando promozioni o non concedendo aumenti salariali. Il tutto, lo suggerisce l’aggettivo quiet, avviene sotto traccia, secondo una modalità tanto sottile quanto affilata: esausto ed esaurito dalle peggiorate condizioni lavorative, sarai infine spinto a licenziarti. Lo farai volontariamente, evitando al datore i costi finanziari che un licenziamento imposto implica. Ma in realtà, senza rendertene conto, sei stato “silenziosamente licenziato” – questa la traduzione letterale di quiet firing.
A completare il nuovo vocabolario dello zeitgeist lavorativo troviamo il labour hoarding. Il termine si colloca su un versante opposto al quiet firing, laddove labour significa “manodopera”, e hoarding “riserva”. Dunque, nessun licenziamento, né di fatto né per silenti operazioni, quanto il mantenimento di una “scorta” di dipendenti. La pratica del labour hoarding si riferisce in particolare a quelle aziende che, anche in un periodo di crisi produttiva, decidono di mantenere la propria manodopera senza ricorrere al licenziamento. A lungo termine, la strategia è spesso vincente: in fase di ripresa l’azienda non dovrà operare alcun dispendioso adeguamento del personale né avrà disperso risorse economiche in liquidazioni, indennità di licenziamento o altro. Non si tratta di una nuova pratica lavorativa. Nell’eterno circuito di recessioni e riprese, la risoluzione al labour hoarding è stata di tanti. Ma nessuno la chiamava così.
Quanto Douglas Coupland anticipava nel 1991, e che oggi ritroviamo con maggior forza, è la necessità di dare ai fenomeni lavorativi un nome, di inscatolarli entro un vocabolario preciso e anglicizzato. Se infatti la moda ci ha abituato da tempo al suo repertorio di termini per definire ogni nuova micro-tendenza a suon di barbiecore, cottagecore, normcore, e -core viaandando, il mondo del lavoro è pressoché nuovo a tale uso. Così, infiocchettati nella forma di tag social, fenomeni che imperversano sul rapporto datore-dipendente da lungo tempo – il labour hoarding esiste dal secolo scorso, così come impiegati dediti al minimo indispensabile e modalità di licenziamento non etico, ma nessuno ne parlava – emergono come nuovi argomenti di discussione.
È così che la sezione #CareerTok è diventata tra le più visitate su TikTok, dove le tendenze lavorative, al pari di quelle moda, si misurano a peso di visualizzazioni, tag, post e repost. Ma non è solo una questione di vocabolario social. I numeri di #CareerTok possono infatti fornire un’interessante cartina tornasole sullo stato attuale del mondo professionale. Oltre ad aver dato un nome, e dunque un volto, alle dinamiche da ufficio, il merito delle nuove leve del lavoro è anche quello di porre tale vocabolario al servizio di dibattiti, on-line e off-line. E, rimanendo nel campo delle definizioni, il dibattito più attuale pare vertere sul divismo tra la vecchia hustle culture, la cultura della frenesia lavorativa da cui già Andy, Dag e Claire di Generazione X volevano distaccarsi, e la break culture, la cultura che incoraggia alle pause dal – e durante – il lavoro.
Vocabolario alla mano, i significati di hustle sono molteplici, da “attività febbrile” a “imbroglio”, da “affrettarsi” a “smania”. Termini figli di una narrativa della velocità, di una feticizzazione della vita senza pause, traghettata dal credo del fatturare. Ma, in una corsa tanto veloce, spesso si rischia di imbrogliarsi su sé stessi. Questa romanticizzazione del duro lavoro trova definizione nel cosiddetto hustle porn, che, a scanso di equivoci, con la pornografia ha poco a che fare: è l’esaltazione esasperata e quasi idolatrica del lavoro al punto che non riesci ad avvicinarti al divano senza provare un senso di colpa dilaniante. È l’affermare con tono compiaciuto “non ho mai un attimo di tempo libero”, crogiolandoti in una dipendenza dal lavoro piuttosto che nel riposo, meritato eppur negato. Perché, in fondo, c’è sempre qualcosa da fare, elaborare e, soprattutto, fatturare.
Espressione contemporanea e controversa di una hustle culture dura e pura, Elon Musk – CEO di Tesla, SpaceX, Neuralink e OpenAI, nonché membro fisso della top tredegli uomini più ricchi del pianeta – si è espresso più volte a favore di una vita lavoro-centrica. A sua detta, sono raccomandabili “ottanta ore di lavoro sostenuto”, se si vuole compiere qualcosa di effettivamente rivoluzionario. Nell’ottobre del 2022, all’indomani dell’acquisizione di Twitter – oggi ribattezzato X – Musk ha scritto ai suoi dipendenti: “D’ora in avanti, per costruire Twitter 2.0 e avere successo in un mondo sempre più competitivo, dovremo essere irriducibilmente hardcore. Questo significherà lunghe ore di lavoro ad alta intensità. Solo una performance eccezionale costituirà la sufficienza”. Quella di Elon Musk e delle aziende cui fa capo non è un’eccezione nel panorama lavorativo contemporaneo: secondo quanto riportato dallo studio della City University of New York Hustle Culture and the Implications for Our Workforce, quasi la metà dei lavoratori dipendenti globali supera l’orario di lavoro stabilito dal contratto, mentre un sondaggio di Deloitte riporta che il 77% ha avuto episodi di burnout da stress lavorativo e che il 42% ha pensato di lasciare il proprio lavoro a causa di tale stress.
A fronteggiare la hustle culture di vecchia generazione, troviamo la break culture. Una prima definizione del termine ci è fornita da Artis Rozentals, CEO di DesKTime e autore dell’articolo The Hustle Culture Has No Future – Enter The Break Culture: “Piuttosto che sostenere la hustle culture, sono sempre stato a favore di una break culture: vale a dire una cultura che promuove regolari pause durante il lavoro e un equilibrio tra vita lavorativa e privata. Contrariamente alla hustle culture, la break culture dà priorità al benessere mentale, e incoraggia le persone a lavorare meno ore, ma con una mente più lucida”. A condividere il pensiero di una riduzione delle canoniche quaranta ore – un limite stabilito nel 1926 da Henry Ford, quando lavorare otto ore al giorno dal lunedì al venerdì si chiamava “settimana corta” – troviamo oggi diversi casi studio. Tra questi, la 4 Day Week Campaign dell’inglese Joe Ryle. Lo studio, condotto nel 2023, prevedeva una sperimentazione di sei mesi con sessantuno aziende coinvolte nella riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni. Osservando come la riduzione delle ore non intaccasse i profitti, la quasi totalità delle aziende ha esteso la sperimentazione, mentre diciotto di loro l’hanno adottata in via definitiva. Anche in Italia alcune aziende hanno già sperimentato con successo la nuova settimana corta: Lavazza e Intesa San Paolo, seguite da Luxottica e Lamborghini.
Di sperimentazioni interessanti sul rapporto a due vita-lavoro ne troviamo anche nella storia meno recente. Già nel 2004 i responsabili delle risorse umane della catena di elettronica Best Buy avevano tentato un modello di autogestione del personale dal nome Result-Only Work Environment. Nella pratica, i lavoratori godevano di piena libertà decisionale in merito al dove e quando lavorare: si poteva lavorare da remoto quando necessario o sostituire un giovedì con un sabato, purché lo si specificasse su un sistema condiviso di gestione delle ore. La qualità della salute lavorativa è migliorata da Best Buy, così come l’umore collettivo. Esperimento riuscito, potremmo dire, se non che nel 2013 il neo eletto CEO Hubert Joly pone fine al programma. Non dà spiegazioni né giustificazioni: forse un eccesso di avanguardia per un 2013 ancora non maturo.
Ancor prima, nel 1991, la professoressa di sociologia ed economia dell’Università di Boston Juliet Schor pubblicava un saggio dal titoloThe Overworked American: The Unexpected Decline Of Leisure, in cui si evidenziava l’urgenza di riformare il sistema lavorativo americano, dove gli orari e le modalità stabilite quasi settant’anni prima erano ormai arretrate. Schor evidenziava anche che negli ultimi vent’anni, tra extra imposti o autoimposti, l’orario di lavoro fosse aumentato di circa un mese l’anno: perché continuiamo a preferire il tempo rispetto al denaro? Come scendere da questo tapis roulant della corsa al rialzo di ore (lavorative)?, si chiedeva infine la sociologa.
Non più tardi del 1940 il filosofo francese Georges Bataille descriveva “l’uomo affaccendato” come un essere narcotizzato, bloccato in un tempo fatto di scadenze, work in progress, task, call da schedulare ed eventi da mettere in calendar. Certo, ai tempi di Bataille si usava tutt’altro vocabolario, ma la sostanza del discorso rimane tale: impegnati a misurare e calcolare il tempo per trasformarlo in quanto più denaro possibile, gli affaccendati – i business menele business womendi oggi – vivono uno stato di alienazione lavorativa, dove le pause non sono contemplate, o vissute come una perdita (di tempo). Bataille vi opponeva il piacere di un tempo per sé stessi, in cui il dominio del dovere lascia spazio a quello del volere. E non si può fare a meno di intravedere in questo le tracce di una discordia che forse è sempre esistita, senza avere nome, o sotto altri termini: quella tra hustle culture e break culture.
L’attuale liquefazione del lavoro in micro-trend, dal quiet quitting al quiet firing, dall’hustle porn alla break culture, evidenzia alcuni fenomeni che, pur avendo radici in un tempo passato, appartengono alla sola attualità. Innanzitutto, l’aver compreso l’importanza di un vocabolario lavorativo, e del dare, banalmente, il nome alle cose. Perché senza le giuste parole da mettere in fila ne risulta inevitabilmente un discorso frammentario, senza possibilità di trasformarsi in fatti. In secondo luogo, l’inflazione di cui tali termini godono, tra media, social e sperimentazioni aziendali, mostra come il terreno sia fertile non solo al dibattito, ma anche al reale cambiamento.
Salvo poche eccezioni – si veda alla voce Elon Musk – il nuovo lavoratore medio desidera a “una vita piena, ma non di lavoro”. Il dato proviene dal The New Human Age. 2023 Workforce Trends Report, secondo cui il 33% dei lavoratori italiani impiegati sarebbe disponibile a cambiare lavoro entro un mese, se fosse previsto un maggior equilibrio vita/lavoro, mentre il 42% è insoddisfatto del bilancio tra le due parti. A livello globale, il 48% dei lavoratori fa straordinari regolarmente, mentre il 97% di quanti hanno provato la settimana ridotta vorrebbero adottarla come soluzione definitiva. E in questo maredi termini, numeri, percentuali, opinioni, dibattiti e idee, la via di una restaurazione del mondo lavorativo, sembra, quanto meno, più vicina di ieri, quando l’unica alternative per Andy, Dag e Claire era trasferirsi nel deserto di Palm Spring.