Quando a novembre 2024 è stata presentata a Torino la versione italiana del torneo ideato da Piqué, vedere insieme Ibrahimovic, Buffon, Pirlo, Del Piero e Totti bastava per capire che non si trattava di un progetto qualsiasi. Con nomi così, era chiaro che le aspettative intorno alla competizione non potevano essere basse.
Restava solo un’incognita, la più importante: come avrebbe risposto il pubblico alla Kings League in Italia? È lecito chiedersi come sia andato questo esperimento in un Paese che fa del calcio classico una religione senza eguali e che, almeno sulla carta, sembrerebbe poco incline ad accogliere una sua versione alternativa.
In Spagna, dove ha le sue origini, il successo è clamoroso: 5 edizioni (chiamate split), con l’aggiunta di una coppa extra, la Kings Cup, una lega giovanile ed una lega femminile, Prince Cup e Queens League, e una lega mista, la Kingdom Cup. E continua a crescere, coinvolgendo nuovi volti come Lamine Yamal che sarà presidente de La Capital CF. In Italia, il cast è altrettanto spettacolare: Marchisio, Bonucci, Toni, Vieri, Caputo, Fedez, Blur. Ognuno con un ruolo diverso, ma tutti con lo stesso obiettivo: rendere il calcio più intrattenente.
Nonostante ciò il paradosso però resta: si vuole scappare dal calcio “noioso”, ma lo si usa come modello. Non tanto nel gioco in sé, quanto nella struttura e nella narrazione. Il gioco comunque funziona: azione continua, campo piccolo, imprevisti e momenti dettati dal caso: non c’è un momento morto. Ho guardato la semifinale Boomers-Zeta in contemporanea con Venezia-Fiorentina. Una giocava per salvarsi, l’altra era semifinalista in Europa. Partita da seguire, sulla carta. Ma mentre la sfida di Serie A si sbloccava solo nel secondo tempo, la Kings League metteva a referto tre gol in dieci minuti, e finiva 6-7 in 40 minuti totali.
Fin qui tutto bene. Ma allora la domanda è: può davvero attecchire in Italia?
Per ora, la risposta sembra sì. I numeri sono forti: si parla di circa 5 milioni di persone raggiunte per ogni giornata, tra Twitch, YouTube, Sky e i canali dei presidenti. Non solo quelli in campo: molti di loro streammano anche quando non giocano. L’arena di Torino era sold-out per la finale italiana (che si giocava durante lo stesso evento di quella spagnola e francese), con il picco di pubblico proprio per la versione nostrana.
E soprattutto, il pubblico è variegato: non solo adolescenti o fan degli streamer. Dai ragazzini ai trentenni, un tifo genuino, non violento, molto lontano dalla tensione del calcio professionistico. E, cosa forse più importante, le persone si divertono davvero tanto a guardarla.
Ok, ma tutto questo è sostenibile economicamente? Sono trapelati video dei presidenti che parlano di problemi di budget, non potendo richiedere altri sponsor esclusivi per la loro squadra il primo anno. Per il resto della competizione, invece, la pubblicità è onnipresente. La gabbia da cui parte il pallone è brandizzata Kinder Bueno, il dado è JD, la busta della carta segreta è Fonzies., l’ecommerce live è Bazr. Tutto brandizzato, tutto integrato nel gioco. È una pubblicità non skippabile. E se mi ricordo tutti questi sponsor, vuol dire che ha funzionato.
Il rischio di superare il limite c’è, arrivando al punto di trasformando la competizione in una rassegna pubblicitaria. Finchè resta così, però, può anche andar bene. Per funzionare davvero, la Kings League dovrà dimostrare di non essere solo un circo mediatico – come l’aveva definita all’inizio Javier Tebas il presidente de La Liga spagnola. Dovrà costruire storie, rivalità, appuntamenti fissi. Dovrà rinnovare i suoi protagonisti e magari cercare identità locali più forti. Oggi si guarda “perché c’è Blur”. Ma domani?
Per ora, i presidenti sono il cuore della competizione. Sono loro a dirigere l’orchestra. La regia lo sa bene: dopo ogni gol, prima ancora del replay, l’inquadratura va su di loro, l’esultanza del calciatore che ha segnato passa in secondo piano. Per l’intrattenimento, la loro reazione vale quanto (se non più) del gesto tecnico. E forse è proprio questo il punto: la Kings League non vuole sostituire il calcio, ma offrirne una versione alternativa. Al momento funziona e il pubblico c’è e ci sarà, perché chi segue uno streamer lo segue ovunque. Per durare davvero, però, dovrà andare oltre l’effetto novità e innovarsi ancora. Deve costruire una narrazione forte, capace di tenere legata una fanbase già pronta a restare. Allo stesso tempo, dovrà mostrare di essere una competizione davvero per tutti.