C’è un elemento che va oltre l’età quando si parla di generazioni. Non è tanto una semplice questione anagrafica, piuttosto di esperienze, passioni e momenti storici condivisi. La mia generazione non è quella nata attorno al 1992, ma quella che ha scelto fra Squirtle, Charmender o Bulbasaur, ha esultato al rigore di Grosso o ha atteso l’uscita dell’ultimo libro di Harry Potter. E poi c’è la musica. La mia generazione è quella che di fronte all’ondata dell’indie nel 2016 ha sperato, forse a torto, che la musica italiana fosse di fronte a una rivoluzione (mentre probabilmente era solo una piccola ribellione, poi rientrata). Di quel momento l’alfiere è stato senza dubbio Edoardo D’Erme, in arte Calcutta. Calcutta è ciò che molti artisti sperano di essere e non sono mai stati: pop senza essere commerciale, e al contempo commerciale senza essere davvero pop. Calcutta è iconico come Contessa, ma all’atteggiamento da cantautore da cameretta ha accoppiato centinaia di milioni di stream, tantissime per un artista italiano, un’enormità per un cantautore indie.
L’impatto culturale di Calcutta però trascende gli ascolti, e anche l’aver impiegato letteralmente cinque secondi a riempire il parterre del Forum di Assago. Si trova piuttosto nelle piccole cose, come il numero di persone che affermano di averlo scoperto nel 2013, quando il suo primo album a quell’epoca aveva a malapena qualche migliaio di ascolti. Calcutta è più di un artista da ascoltare: è una spilletta da indossare, e lo è diventato appena entrato nel mainstream. A marzo 2016 girava ancora per localini di provincia – a Spaziomusica a Pavia in quel mese fece il record storico di ingressi, circa un centinaio – e a fine anno una generazione si riconosceva alle feste saltando sul ritmo in levare di Oroscopo.
L’impatto di Calcutta sulla mia generazione è nei versi che ci sono rimasti attaccati come tormentoni di Zelig dell’epoca d’oro, rimanendo però trascendentali come mantra, e che ci hanno suggerito una chiave di lettura della realtà. Mettersi nei panni di un partner dopo un litigio è pensare che “se dormissi disteso sul tuo lato del letto io forse sarei te”. Danza Kuduro non è la colonna sonora dell’estate del 2010, ma il ritornello di Oroscopo. La massima provocazione rimane disegnare “una svastica in centro a Bologna solo per litigare”, la massima libertà è “non passare i piatti con lo Svelto”.
Quando la tua musica entra così a fondo dentro un’intera generazione, non hai bisogno di un nuovo album per riempire un palazzetto. Calcutta infatti, ci è riuscito, riempiendone 11 in pochi minuti, senza aver pubblico una raccolta di brani inediti dal 2018. Eppure, non aver pubblicato un album per cinque anni e mezzo è un peccato: la bellezza rende il mondo un posto più degno di essere vissuto, e quando ci siamo lasciati con Evergreen, Calcutta ne aveva ancora molta da distribuire. Col senno di poi, questa pausa è stata il vero epilogo della wave indie 2016. Certo, non ha scritto un album come Aurora, non ha comunque i numeri di Tommaso Paradiso, e non ha forse neanche l’iconicità di Brunori. Ma al contrario loro, degli Ex-Otago, dei primi Pinguini, dei Canova, di Motta, di Cimini e di tutti gli altri, ha dato voce a una generazione che lavorava per diventare adulta in un Paese in cui fino ai quarant’anni si è considerati ragazzi.
Per questo aspettiamo così tanto Relax, il suo nuovo album. Almeno, io credo di aspettarlo per questo, ed è sicuramente la ragione per cui ho comprato a scatola chiusa un biglietto in piccionaia al Forum di Assago. Il ritorno di Calcutta è i nostri – nostri per la “generazione Calcutta” – vent’anni: passare e sbagliare gli esami, prendersi due birre al kebabbaro con i buoni pasto dello stage, rimanere fuori fino alle due un giovedì sera e non pentirsene al mattino. Calcutta annuncia un nuovo album e il tempo si riavvolge: per qualche minuto file Excel, 730 e pannolini sono il futuro, mentre il presente rimane hype.
Per quanto apprezzi la musica di Calcutta – dai testi alle melodie, dagli arrangiamenti alle armonie spesso non banali – essa viene oggettivamente dopo la sua esperienza collettiva. Da questo punto di vista, comunque vada, Relax lascerà il segno. Se per qualche ragione non dovesse decollare, rimarrà un’esperienza di disillusione condivisa, il punto sulla fine di un’epoca. Credo però ciò sia improbabile: tutto nella sua musica e nel suo comportamento suggerisce un tipo di pazienza e di attenzione alla bellezza che difficilmente sfociano in un album deludente. Se il disco fosse un successo e parlasse dei bei tempi andati, sarà come viaggiare tutti assieme indietro nel tempo, mano nella mano con il Peter Pan dell’indie. Quello che però mi piacerebbe scoprire è che la poetica di Calcutta sia maturata con noi, e che Relax sia una raccolta di nuove canzoni iconiche che accompagnino un nuovo capitolo della nostra esistenza.