Ormai è evidente, ce ne siamo accorti tutti: il cowboy-core sarà il trend dominante di quest’anno. Abbiamo iniziato con i look in total-denim, per poi passare ai pantaloni in pelle, alle giacche in camoscio con le frange e, non per ultimi, ai celebri “texani”. E così, mentre Bella Hadid continua a mostrare la sua passione per l’equitazione su Instagram, Bad Bunny si veste con cinturoni dorati e cappelli XXL e Rihanna fa shopping da Kemo Sabe, il nostro armadio (e le nostre ricerche) si riempiono di capi d’ispirazione western. Ma la diffusione senza controllo di questa estetica, passata rapidamente da una nicchia di ragazze alla ricerca dello stivaletto vintage perfetto alla mercé del grande pubblico, ha riportato alla luce anche una lunga storia di stereotipi, luoghi comuni ed errori storici legati a questa estetica. Proprio per questo motivo, i due nuovi brani di Beyoncé – rilasciati a sorpresa durante l’ultimo Super Bowl come anticipazione del nuovo album in uscita il prossimo mese – dal sound country e la collezione FW24 disegnata da Pharrell per Louis Vuitton non rappresentano solamente gli ultimi lavori di due creativi accumunati dalla stessa estetica, ma anche un tentativo di “riscrivere” la storia e riappropriarsi di elementi culturali che gli sono stati sottratti.
Proprio così. Nonostante la narrativa che ci è sempre stata proposta, la musica country e l’estetica cowboy non sono un’invenzione dei bianchi, ma nascono ed esistono solamente grazie all’appropriazione di elementi della cultura nera e dei nativi americani. Spesso si dice che la storia la scrivono i vincenti, e questo mancato riconoscimento delle origini “black” ne è l’esempio lampante. L’immaginario country (o western) è infatti ormai radicato nelle nostre menti solo associato a figure come Johnny Cash, John Wayne e gli Spaghetti Western all’italiana di Sergio Leone. Quando invece artisti neri, come Lil Nas X per citare un esempio recente, provano ad avvicinarsi a questo mondo vengono subito accusati (ingiustamente, aggiungeremmo) di appropriazione culturale e messi alla gogna mediatica.
Partiamo dal country. Tracciare le origini precise di un qualsiasi genere musicale è praticamente impossibile e anche le influenze che hanno portato alla nascita del country sono così numerose e differenti che non si possono attribuire a una figura sola. Nonostante ciò, altre informazioni sono certe, e sono quelle che probabilmente hanno portato Beyoncé a voler focalizzare il suo Act II, il secondo album della trilogia iniziata con Renaissance nel 2022, sulla musica country. Infatti, così come aveva già fatto con la disco music e la scena queer proprio con Renaissance, la missione dell’artista sembrerebbe essere quella di fare luce e celebrare le radici nere di vari generi musicali, mettendo in risalto elementi e artisti troppo a lungo dimenticati. Ma perché proprio il country?
Durante gli anni ’50 dell’800, negli Stati Uniti cominciarono a esplodere i “minstrel show”, ovvero spettacoli con attori bianchi (e la faccia dipinta di nero) che avevano lo scopo di “divertire” il pubblico rappresentando in maniera offensiva e caricaturale gli stereotipi della popolazione afro-americana, come la loro passione per la musica. La cosa più incredibile, però, è che questi spettacoli sortirono l’effetto contrario, almeno dal punto di vista musicale. Infatti, anziché mettere in ridicolo le popolazioni considerate “primitive”, queste nuove sonorità e gli strumenti tradizionali piacquero molto ai bianchi, che cominciarono per la prima volta a prenderli sul serio per poi appropriarsene.
Ed è così che vennero gettate le basi che portarono col tempo all’ascesa, nelle zone rurali e montuose degli Stati Uniti, della musica definita Hillbilly, commercializzata come Country dopo la Prima Guerra Mondiale. Nato da un mix di elementi della musica blues, degli inni spiritual e dei canti di lavoro, oltre che della musica folk irlandese e celtica, è impossibile non riconoscere che il Country sia in realtà un crogiolo di influenze originali della cultura Black, provenienti dalla vita nei campi così come dalla lunga storia di schiavitù del popolo afroamericano. Ovviamente, le labels americane non volevano in alcun modo associarsi alla popolazione nera e tutti gli artisti neri che avevano contribuito a brani di successo – che secondo il professor Patrick Huber dell’Università del Missouri ammonterebbero a circa una cinquantina negli anni ’20 e ’30 del ‘900 – vennero a tutti gli effetti “cancellati”, eliminando ogni tipo di merito, immagine e credito nei loro confronti: il “country” era diventato musica per bianchi.
Oltre all’aspetto della lirica narrativa, l’altro elemento che contraddistingue un pezzo country è sicuramente la presenza travolgente di suoni acustici di strumenti a corda, primo fra tutti il banjo. E indovinate un po’ da dove arriva questo strumento? Dall’Africa. Anche se la sua nascita è tradizionalmente (ed erroneamente) associata alla figura di Joe Sweeney, musicista e attore nei già citati “minstrel show”, la sua storia inizia in realtà molto prima e molto lontano dal suolo statunitense. Il banjo come lo conosciamo oggi è infatti una versione “industriale” di uno strumento proveniente dalle regioni di Senegal e Gambia, originariamente realizzato utilizzando zucche scavate, pelli di animali, legno e fibre vegetali. A causa dello sviluppo della tratta degli schiavi, il banjo approdò quindi nel Nord dell’America, diffondendosi prima nei campi e poi entrando lentamente anche nella vita dei bianchi.
Il legame dello strumento con la popolazione afroamericana è però così fondamentale che tutti coloro che vengono considerati i “fondatori” del Country, hanno iniziato a suonare il banjo grazie a persone nere. Il “Padre del Country” Jimmie Rodgers venne istruito dai suoi colleghi durante il periodo in ferrovia, il celebre Johnny Cash deve la sua fama al suonatore di banjo Gus Cannon mentre la Carter Family sviluppò il proprio stile inconfondibile grazie al chitarrista nero Lesley Riddle. Sì, avete letto bene: la famiglia Carter non è quella di Jay-Z, Beyoncé e figli, ma quella composta da Sara, A.P. e Maybelle Carter, i “responsabili” della definizione del Country moderno. La coincidenza è assurda, e non è improbabile che la cantante la utilizzerà come riferimento nel suo prossimo album.
Infatti, già nel brano “TEXAS HOLD ’EM”, uno dei due singoli pubblicati nei giorni scorsi, Beyoncé ha deciso di farsi affiancare da Rhiannon Giddens, suonatrice di banjo e da anni educatrice per quanto riguarda la storia e le origini dello strumento. Sembra scontato quindi che, con il nuovo album, la cantante tenterà di portare al dominio pubblico la vera storia del country, riconsegnandolo alla comunità in cui è nato e combattendo quegli stereotipi che, nel 2016, la misero al centro delle polemiche per aver cantato la sua “Daddy Lessons” ai Country Music Association Awards, di fronte a una platea di uomini bianchi che non l’accolsero con grande entusiasmo, anzi.
Lo stesso processo di “mistificazione” che è avvenuto con il country si può estendere anche all’immagine associata ai cowboy, figlia di decenni di rappresentazioni cinematografiche e televisive artefatte e molto lontane dalla realtà storica. Partendo dalle nozioni storiche di base, i cowboy americani sono i diretti discendenti dei vaqueros spagnoli e messicani e, come suggerisce la parola, si trattava di ragazzi maschi di giovane età in cerca di denaro che avevano il compito di guidare le mandrie di bestiame.
A parte ciò, la maggior parte degli elementi che oggi associamo ai cowboy sono sbagliate. Infatti, al contrario di quello che succedeva nei ranch spagnoli, nella piramide sociale della “versione americana” questo ruolo non aveva particolare rilevanza, ma si trattava al contrario di un lavoro duro e di bassa manovalanza. In più, molti cowboy non possedevano nemmeno un cavallo, ma erano soliti controllare le proprie mucche a piedi o al massimo in sella a un asino: i cavalli erano per la maggior parte di proprietà dei ranch e riservati a uomini adulti, ai quali si poteva affidare l’attrezzatura e l’animale senza paura di vederli persi dopo poche ore, e non di certo ai ragazzini. Ma la notizia più “sconvolgente” è che non si trattava solo di uomini bianchi.
Al contrario, trattandosi di un’occupazione particolarmente faticosa, questa era spesso relegata ai nativi americani o agli schiavi liberati e, come sostenuto dallo studioso di storia Afroamericana William Loren Katz, dopo la Guerra Civile il cowboy era uno dei pochi lavori accessibili ai neri, che avevano poche chance di trovare un’altra occupazione. Secondo le stime, tra gli anni ’60 e ’80 dell’800 quasi uno su quattro era nero, ma nella cultura “pop” la percentuale di rappresentazione è sicuramente molto differente. Tutti conosciamo Buffalo Bill, ma la popolarità di figure come Nat Love e Bill Pickett non è neanche lontanamente paragonabile, nonostante la loro influenza storica. La storia dei “Black Cowboys” è rimasta nell’oscurità per così tanto tempo che è stata necessaria addirittura l’apertura di musei dedicati, come quello di Denver e Rosenberg (Texas), per preservare la loro eredità.
Quando si guardano le rappresentazioni dei cowboy si pensa solamente a sola una versione, non c’è invece mai modo di vedere come erano veramente i cowboy. Erano come me, erano Neri, erano Nativi Americani.
Pharrell Williams
Come si inserisce Pharrell in questo discorso? Nello stesso modo di Beyoncé, ma in un altro settore. Da sempre, infatti, il cantante, produttore e adesso direttore creativo di Louis Vuitton si è messo in prima linea per contrastare i problemi di razzismo, disparità sociale e segregazione della comunità afro-americana negli Stati Uniti (e non solo). Come dimostra il suo progetto non-profit “Black Ambition”, dare un’opportunità e mettere in risalto artisti, creativi e imprenditori neri è sempre stato uno degli obiettivi di Pharrell, e con la collezione Autunno-Inverno 2024 disegnata per Louis Vuitton è riuscito a dare un senso ancora più profondo a questa sua missione.
Il tema della collezione ormai lo conosciamo, e i capi li abbiamo visti ovunque. La parata di ricami, stivaletti, accessori con turchesi sgargianti, tanta pelle e tantissimo denim ha dato la spinta definitiva al trend western, ma ha anche esplicitato la problematica legata alla cultura occidentale in materia di cowboy. Subito dopo lo show, infatti, non sono mancate le condanne di appropriazione culturale nei confronti di Pharrell, accusato di aver preso la tradizione americana e averla riadattata a suo piacimento, senza rispetto.
Mentre il fatto di aver “sfruttato” un’immagine stereotipata dei cowboy e averla gettata in pasto ai meccanismi capitalistici della moda è soggetta a discussioni, ciò che sicuramente non è corretto sostenere è il discorso di appropriazione culturale. La storia e la tradizione dei nativi e degli afroamericani è infatti indissolubilmente legata all’immagine dei cowboy e al mondo dei rodeo, e lo show di Pharrell è stato solo un piccolo passo verso il riconoscimento della loro rilevanza storica. Il coinvolgimento di artisti appartenenti alle comunità del Dakota e del Lakota, sia nello sviluppo di grafiche e dettagli per gli accessori sia nella composizione e performance della colonna sonora, è l’esempio lampante di come ciò che oggi associamo all’estetica western abbia in realtà le proprie radici in un altro tipo di cultura, che per motivi storici non è mai stata presa in considerazione. I cappelli in feltro e i ricami a forma di cactus sono considerabili dei cliché? Probabilmente sì, e i look finali possono apparire come una versione patinata e “chic” di un’estetica in realtà ben più rurale. Ma andando oltre il risultato, l’intento era assolutamente nobile e giusto, oltre che estremamente in linea con ciò che ci si aspetta da una figura come Pharrell alla guida di un marchio “conservativo” come Louis Vuitton, soprattutto dopo un creativo socialmente impegnato come Virgil Abloh. Come dichiarato dallo stesso Pharrell, l’obiettivo dello show era proprio quello di raccontare una versione della realtà che non è solita essere rappresentata ma, a causa degli stereotipi che ci sono stati “tramandati”, ha sortito l’effetto contrario, ovvero quello della pioggia di critiche.
La musica country può piacere come no, così come i pantaloni con le frange o i cappotti ricamati, e anche se entrambi gli artisti potrebbero essere solamente interessati a cavalcare (letteralmente) il trend del momento per motivi commerciali, ciò che conta è il fatto che abbiano deciso di coinvolgere figure che questi elementi li hanno nel DNA, li hanno vissuti e ne hanno fatto la loro ragione di vita. Un cappello e una cintura non ci renderanno mai dei cowboy, ma, grazie a Beyoncé e Pharrell, questa potrebbe essere l’occasione perfetta per restituire (finalmente) la storia a chi l’ha scritta.