Cambiare le regole del gioco è sempre difficile, ma nella moda sembra esserlo più che in altri settori. Nei giorni scorsi, il marchio danese Ganni ha espresso sui social la sua solidarietà verso Renewcell, azienda leader nel settore delle fibre riciclate con il tessuto Circulose, che la scorsa settimana è stata costretta a dichiarare bancarotta.
Di recente è stato il turno anche di Pangaia, famoso per il leisurewear ma impegnato soprattutto nella ricerca tessile e tecnologica, di riportare i propri dati finanziari: una perdita di $50,4 milioni nel 2022 e una diminuzione delle vendite del 42%. Queste due notizie hanno quindi riacceso i riflettori sul disinteresse dei brand nei confronti dell’innovazione, un problema che esiste da diverso tempo, e la conseguente domanda: nel mondo della moda, c’è davvero futuro per marchi che scelgono di adottare un approccio scientifico, innovativo e, prima di tutto, sostenibile? I dati sembrerebbero dire di no.
Anche se tutti sembrano volersi impegnare per un mondo più consapevole dal punto di vista ambientale, nel concreto questo si limita solamente all’aspetto comunicativo, facendo del “greenwashing” la tecnica di marketing più diffusa dell’era moderna. Non bastano borse fatte d’aria e vestiti interattivi per essere al passo con i tempi, servono gesti concreti che dimostrino che i grandi marchi sono in grado di sfruttare la tecnologia anche per risolvere i problemi ambientali, e non solo come esercizio di stile e creatività.
La stessa Renewcell ha infatti evidenziato una certa riluttanza da parte dei brand nell’utilizzo di fibre riciclate, mentre gli investimenti nel settore dei materiali di nuova generazione, secondo un report di Material Innovation Initiative, è sceso dai $980 milioni del 2021 ai “soli” 500 nel 2023. Se si aggiunge il fatto che le vendite proprio di Renewcell a novembre siano state pari a zero, è tanto evidente quanto allarmante che i marchi sembrano non voler nemmeno provare a incorporare nuovi materiali nella loro catena produttiva e interessarsi alla sostenibilità.
Vi sarà capitato di sentir parlare della “pelle vegana” prodotta dal micelio dei funghi, così come degli impegni nell’ambito sostenibilità dei grandi marchi. Ma trasformare un settore con una catena di produzione consolidata e dai margini estremamente bassi, come il fashion, è un’altra cosa. I tentativi di muovere le acque e cambiare le cose ci sono e si vedono, ma sono altrettanto evidenti anche gli ostacoli causati dagli standard di quantità, qualità e costi che l’industria e soprattutto il pubblico, ancora fortemente consumista, richiedono.
Ganni lo esplicita bene sul proprio sito: la moda prospera sulle novità così come sul consumo, e non potrà mai andare a braccetto con il concetto di sostenibilità ma anche se i “brand sostenibili non possono esistere”, ci si può almeno impegnare per “essere la versione più responsabile di sé” e “compiere scelte migliori ogni giorno”.
Ma finché gli investimenti non aumenteranno, i prezzi di queste innovazioni rimarranno maggiori rispetto alle materie prime tradizionali più inquinanti. E in un sistema che mette il profitto davanti a tutto, chi sarebbe mai disposto a rischiare perdite economiche in favore di un modello di business sostenibile?
Renewcell non ha potuto contare sul supporto dell’industria, quindi Evrnu ha deciso di arrangiarsi, utilizzando le fibre riciclate che producono a partire da scarti tessili per realizzare, con l’aiuto del designer Christopher Bevans, i propri prodotti.
Le startup hanno la soluzione, ma per vari motivi le aziende faticano a implementare queste nuove tecnologie. Che sia per budget, per lo stato iniziale dello sviluppo o perché non vogliono impegnarsi davvero, il risultato non cambia e la ricerca è costretta a rallentare.