Chissà cosa sarebbe successo se ci fossero stati i social media durante EURO 2000. Anzi, chissà cosa sarebbe successo se ci fossero stati i social media nel 2000. In quella breve estate che idealmente va dalla fine del periodo scolastico all’apertura delle Olimpiadi di Sydney, durante la quale fummo inondati di notizie che si sarebbero potute commentare con non poco divertimento sulle piattaforme digitali, come ad esempio la divulgazione del Terzo Segreto di Fátima (si pensi solo alla potenzialità dei meme realizzabili), veniva stampata l’ultima banconota della Lira Italiana e contestualmente si svolgeva il Gay World Pride a Roma, stessa città che avrebbe ospitato anche gli eventi cardine del Giubileo solo un mese dopo. In questo ricco e quasi surreale contesto, gli Azzurri di Maldini, Nesta, Cannavaro, Del Piero e Totti si dividevano tra Belgio e Olanda per giocare un Europeo che sarebbe passato alla storia.
La presenza di Francesco Toldo, quasi casuale considerando l’infortunio all’ultimo momento di Gianluigi Buffon, è stato il fiocco di neve che ha portato alla formazione di una valanga. Ma si sa, prima di costruire bisogna distruggere, e la slavina Toldo ha portato quell’inaspettata rivoluzione che tanto bene fa alle spedizioni calcistiche azzurre. Ogni riferimento al Marco Materazzi del Mondiale 2006 è puramente voluto.
Le parate del suddetto Toldo nei rigori della semifinale contro l’Olanda, il cucchiaio di Totti nella medesima occasione, il pareggio in finale di Wiltord nel recupero e quel maledetto gol di Trezeguet nei tempi supplementari sono solo alcuni dei momenti per cui i social media sarebbero esplosi durante EURO 2000. Perché è questa premessa che ha dato il via a tutto, ovvero le reazioni del grande pubblico, e non esiste pubblico più generalista di quello che guarda la Nazionale nelle grandi competizioni. Oggi si commenta tutto live: le azioni, i cambi, le decisioni arbitrali, i telecronisti, gli spot pubblicitari, i tifosi, gli scarpini, le maglie. Ecco, le maglie. Twitter, Instagram, Facebook e tutte le piattaforme in cui si creano discussioni sportive sono stracolme di commenti sulle divise da gioco, sparate più o meno argomentate che passano dalla mera estetica alla realizzazione tecnica. Da questo punto di vista, i social media sarebbero impazziti nel 2000 perché quell’anno l’Italia indossava una maglia che prima di quel momento non si era mai vista, una creazione che non aveva nulla a che fare con ciò che il pubblico era solito vedere. Si trattava del primo kit azzurro realizzato da Kappa, il leggendario Kappa Kombat che avrebbe cambiato il modo di realizzare le maglie da calcio. Praticamente il nuovo anno zero dei kit calcistici.
La maglia Kombat degli Azzurri era speciale per tanti motivi, ma il principale era ovviamente il fit. Senza tornare troppo indietro, al Mondiale di Francia ’98 le divise indossate dalle Nazionali partecipanti erano al limite del baggy: Laudrup navigava nella maglia rossa della Danimarca, le maniche corte di Hagi arrivavano ben sotto al gomito del fenomeno romeno, mentre la coppia Thuram-Zidane sembrava composta da due bambini con addosso gli indumenti dei genitori. In questo panorama in cui il calcio pareva emulare le vestibilità dei jeans indossati da Cam’Ron o Jim Jones negli stessi anni a New York, c’è un brand che ha deciso di andare controtendenza, ovvero Kappa.
Il marchio torinese aveva appena sostituito Nike come sponsor tecnico della Nazionale Italiana e decise di affidare il design a Emanuele Ostini, la stessa persona che, ancora ventenne, realizzò i più iconici kit della Juventus. Ostini realizzò un outfit sportivo incredibile e rivoluzionario: semplice, pulito, senza fronzoli, con uno scudetto retrò, senza nemmeno il logo Kappa sul petto, e dal fit attillato ed elastico. Una cosa mai vista. Era nata Kombat 2000, la divisa che sarebbe diventata la pietra angolare del kit design moderno, un nuovo Big Bang.
«Kombat 2000 nasce praticamente da una tuta da surf. Perché? Perché no. Una tuta da surf con un tessuto da fitness. Alla fine sono solo elementi diversi di contesti ed estetiche che mi piacciono messi assieme». La fa facile Ostini, che in qualche modo riesce a riassumere in una manciata di parole il kit più rivoluzionario dell’era moderna con la nonchalance di chi non ha fatto nulla di speciale. «Ho sempre guardato lo sport in maniera sfaccettata, sia dal punto di vista del prodotto che culturale». Da questa continuazione si capisce tanto della visione di Ostini. Non dimentichiamo che due anni dopo l’Italia sarebbe andata a giocare lo storico Mondiale di Corea e Giappone indossando un sopramaglia che era in realtà una divisa da hockey con le maniche leggermente più corte. «All’epoca la libertà creativa era tanta. Era proprio un mondo diverso. Ora hai chi pensa, chi sviluppa, chi parla con la squadra e chi con i licenziatari. Una volta io immaginavo le mie cose, le disegnavo, prendevo la macchina e andavo a presentarle al campo. L’azienda era piccola e le dinamiche totalmente diverse. A quei tempi andavo a Coverciano e manco mi rendevo conto. Oggi, guardando indietro ai giocatori che ho visto in quella Nazionale, mi vengono i brividi. I meeting a fine allenamento con quattro o cinque giocatori a volte erano con Totti, Del Piero, Cannavaro, Nesta e Maldini. Nei campi di allenamento di quei tempi comandava il capo magazziniere, ma è un mondo che sta per sparire. Erano quasi dei genitori nel rapporto con i calciatori».
Il kit di EURO 2000 era storico per tantissimi motivi che andavano in controtendenza con lo stile del tempo, ma che non erano null’altro se non una logica evoluzione dovuta dal periodo storico. «Tra fine anni ’80 e inizio ’90, il mondo dei materiali è cambiato completamente. Erano gli anni delle prime maglie stampate in sublimatico, tecnica che ha portato alle esplosioni di colori degli anni ’90. All’epoca però non c’erano ancora i computer grafici, quindi bisognava lavorare sugli impianti con le pellicole manualmente. Con l’arrivo dei Macintosh negli anni ’90, tutto è diventato più semplice e anche per questo motivo siamo arrivati all’overdose di pattern e colori di fine millennio. Kombat 2000, con il suo stile minimal, nasce anche dal bisogno di cambiare rotta. Ho sempre cercato di innovare inserendo elementi della tradizione. Lo scudetto di Kombat 2000 lo ridisegnai a mano partendo da quello del Mondiale 1982 perché l’Italia fu la nazione che lo vinse, quindi per me gli Azzurri dovevano avere quel determinato crest. I numeri di Kombat 2002 venivano invece da quelli della Juve di Platini. Anch’essi li avevo ridisegnati io a mano e prendevano ispirazione dalle pieghe delle fettucce che un tempo rappresentavano l’unico modo per dare forma ai numeri da cucire sulle divise».
Le parole di Ostini non sono calibrate ma nemmeno confuse, sono le dichiarazioni estremamente sincere di un appassionato. La passione però ce l’hanno in tanti, la tecnica e la conoscenza meno, per questo è particolarmente interessante quando al lato estetico si cerca di associare un approfondimento verso il comparto più meccanico e funzionale di una maglia da calcio. «Francesco Coco fu fondamentale per noi». Emanuele non parla di formazioni o di tattica, quanto di una scena specifica che ha mostrato al grande pubblico generalista, quello che di solito si limita al “bello o brutto”, cosa potesse esserci di così tanto speciale in una maglia. «Era lui il protagonista dello scatto in cui venne strattonato e fece capire quanto era elastico il kit. Con quella foto si capì più facilmente quanto tecnicamente fosse diverso. Ok l’estetica, ma noi cerchiamo sempre di partire dalla tecnica. Ho speso mille parole anche a Coverciano, con i calciatori, per pregarli di provare determinati prodotti, ma quando non sei abituato il cambiamento mette sempre in soggezione, specie se si parla di uno stile attillato, anche se hai il fisico di un calciatore professionista. A loro dicevo sempre di immaginarsi come atleti, non come calciatori, perché se ti limiti a quello ragioni per compartimenti stagni. I ciclisti mettevano divise attillate, lo stesso vale per i grandi dell’atletica leggera. Tutto può essere cambiato».
Che si tratti di una folgorazione momentanea o di un processo di studio durato anni, un’idea geniale rimane tale. Spesso e volentieri, però, le grandi intuizioni sono traumatiche perché portano ad innovazioni, le quali precedono cambiamenti. I cambiamenti spaventano sempre. È il motivo per cui le persone tendono a non spostare i mobili in casa, a non uscire da una relazione o più semplicemente a non cambiare marca di pasta o caffè quando si va a fare la spesa al supermercato. «Quando ho concepito Kombat 2000, prevedevo di far giocare i calciatori con un body da ciclismo a reggere i pantaloncini, il tutto coperto dalla maglia da gioco. Sempre due pezzi, ma con un body. Purtroppo era un’idea che non si sarebbe potuta realizzare perché all’epoca, per regolamento, la maglia doveva andare dentro al pantaloncino e tecnicamente era impossibile considerando che quest’ultimo non era più tale».
Forse era futuristico, forse solo folle, ma di certo Ostini era di rottura, inventore di qualcosa che non per forza era chiaro a tutti, forse nemmeno a pochi, o forse lo sarebbe diventato a distanza, o forse ancora è solo un passo falso nella creazione di qualcosa di migliore. «Una volta che si rompe una certa barriera, si può andare anche molto più avanti, ma a un certo punto si deve sempre mettere un po’ di retromarcia per non compromettere tutto. L’ho imparato col tempo: quando si va troppo avanti e si forza eccessivamente, non si porta a casa niente. Per quanto vado indietro, sarò sempre avanti rispetto a dove sono ora. Feci provare la prima volta Kombat 2000 a Totti, Del Piero e Cannavaro, ma nessuno voleva indossarla. Totti disse che lui avrebbe messo per primo il pantaloncino, mentre la maglia la provò Cannavaro. Ci voleva uno con un fisico pazzesco come il suo per rompere il ghiaccio, eppure faceva fatica. Era quasi timoroso. Gli dissi che sembrava Superman con quella maglia azzurra addosso. Tecnicamente era molto meglio delle divise precedenti, dovevano solo superare l’imbarazzo imposto dall’abitudine. Anche se sei un calciatore famoso, talentuoso e fisicato, rimani umano».
«Kombat 2000 è senza dubbio la mia intuizione migliore, infatti quel gol di Trezeguet è il mio più grande rammarico sportivo. Pensa se avessimo vinto l’Europeo con quella maglia». Guardare indietro, a oltre venti anni di distanza, aiuta a capire quanto contorto è stato un percorso o, in questo caso, quanto rivoluzionaria è stata un’idea. «Kombat 2000 fu la base di Kombat Skin, la maglia indossata dal Napoli nel 2017 che, seppur morta dopo una stagione, rimane la prima maglia della storia del calcio seamless, ovvero senza cuciture. Praticamente tre tubi di tessuto tecnico: uno per il corpo centrale e uno per ciascuna manica. Questa nasce da un passo indietro. L’intuizione la ebbi appena dopo Kombat 2000. Avevo un’idea folle, ma all’epoca non era attuabile, infatti il prototipo è alto una trentina di centimetri, creato con la macchina che realizza i collant. Ci sono voluti oltre dieci anni per fare in modo che le tecnologie rendessero quella maglia possibile, e quasi altri dieci per convincere una squadra a giocare in Kombat Skin. Kombat Skin è ancora oggi una maglia avanti». A volte è utile capire come un’intuizione può cambiare le regole del gioco, così come è importante realizzare che una grande idea talvolta ha bisogno di tempo, anche quasi vent’anni, per diventare realtà, anche se poi viene rapidamente accantonata. D’altronde i piccoli cambiamenti spaventano, quelli grandi terrorizzano, e per questo spesso rimangono solo dei bei progetti, dei “forse” da raccontare agli amici al bar o in un articolo.