Sembra proprio che il mondo della moda in questi giorni non voglia saperne nulla di stare tranquillo: dalla chiusura dell’omonima label di Raf Simons alla fine del sodalizio tra Gucci e Alessandro Michele, il tutto contornato dagli scandali in casa Balenciaga. Ma ancor prima di attraversare vicende che hanno scosso i vertici e non solo, tra colpi di scena e teorie complottiste, sembrava già evidente quanto questo settore stesse attraversando un periodo di transizione.
Negli ultimi tempi abbiamo avuto modo di assistere a un susseguirsi incalzante di tendenze che hanno messo in ballo decenni del passato. Eppure, nonostante l’attenzione sia sempre alta affinché la proposta possa essere appetibile agli occhi dei consumatori, sembra che una parte di loro non sia più troppo propensa a seguire il flusso. È qui che nasce il duello che vede coinvolti l’incontrollabile smania di trend e la stabilità metodica del comfort.
Casualization of fashion, questa è la definizione che potremmo usare per riferirci a un processo che ha portato a un approccio meno formale e più rilassato nel modo di vestirsi. E sebbene i motivi che hanno reso questo raggiungimento possibile potrebbero essere diversi – e in questo caso non riferibili a Demna Gvasalia – sta di fatto che il settore moda al momento sia tutto tranne che rilassato.
Tutti noi almeno una volta nella vita abbiamo sentito qualcuno definire il proprio stile “casual”, ma c’è chi si sentirebbe oltraggiato se definito in tale modo. Andiamo quindi per gradi: quando esattamente l’abbigliamento è diventato casual? Prima che l’universo streetwear approdasse nell’alta moda e sulle passerelle, e ancor prima che il mondo scoprisse la collaborazione tra Supreme e Louis Vuitton.
Potremmo ricondurre la nascita del casual ad avvenimenti ben più lontani, da quando gli abiti monarchici sono stati abbandonati assieme a crinoline e ingombranti parrucche; da quando nell’America degli anni ’20 venivano sfoggiati zoot suit e gonne piumate che finalmente permettevano alle donne di muoversi sulle tracce jazz che neanche il proibizionismo era stato in grado di frenare. Ovviamente non stiamo parlando di un paio di pantaloni della tuta, non è di certo il comfort a noi affine, ma da qualcosa il concetto di casual deve pur esser partito. Del resto, le prime grandi maison avevano iniziato a introdurre linee sportive, dal jersey di Coco Chanel ai costumi di Claire McCardell, designer americana che ha inventato lo sportswear.
Questo novità ha così iniziato la sua ascesa: da costumi da bagno, pantaloncini e completi da tennis all’utilizzo di divise sportive e felpe collegiali utilizzate nei campus universitari – il suo avvento ha permesso ai consumatori di avere un armadio adatto a tutte le occasioni. Il fashion casualization è il sogno americano, sono gli studenti dell’Ivy League che nel 1950 iniziano a indossare felpe e cappotti in tweed, è la classe media che sceglie di stare comoda. È Mark Zuckerberg che nel 2004 inventa Facebook dalla stanza del suo dormitorio presumibilmente indossando una felpa dell’Harvard University, lo stesso uomo che ha dichiarato di vestirsi sempre uguale per non sprecare tempo.
Se quindi l’abbigliamento casual potrebbe essere ricondotto alla società americana (chi l’avrebbe mai detto) è indubbio che all’epoca della sua nascita abbia simbolicamente preso le sembianze di una tendenza che ha avuto modo di diramarsi ovunque tramite mille sfaccettature diverse, dato che forse sarebbe troppo complicato delineare un profilo univoco del casual dresser. Può essere streetwear, ma in certi casi propenso anche all’eleganza, con qualche accenno al normcore e forse al minimal. È forse più semplice definire che cosa non è casual rispetto a cosa lo è.
Ma qual è il motivo per cui ad oggi molte persone continuano a prediligere questo stile? Non sembra così assurdo pensare che a qualcuno piaccia indossare un abbigliamento confortevole, ma i motivi in merito in realtà potrebbero essere diversi. Anche in questo caso la volontà di ricercare un approccio volto alla comodità potrebbe essere frutto della pandemia, non è una novità che con il lockdown il guardaroba di tanti sia cambiato e a dimostrazione di questo basterebbe vedere le fashion week dell’epoca fondate sul comfort fashion o le classifiche di Lyst con i joggers Nike tra i prodotti più desiderati. Abbiamo attraversato un periodo in cui a cambiare sono state le nostre abitudini, i nostri gusti e consequenzialmente i nostri consumi.
Sicuramente, anche l’arrivo dello streetwear sulle passerelle e la sua capacità di dar vita a infinite collaborazioni, ha alimentato la nostra voglia di una moda confortevole. Dal re dello streetwear di lusso Virgil Abloh, che partendo dal lontano Pyrex Vision è stato in grado di arrivare alle redini della maison Louis Vuitton, a Matthew Williams, che nel 2013 assieme al compianto stilista e Heron Preston fonda il marchio Been Trill, per poi mettersi in proprio dando vita ad ALYX e approdando alla direzione creativa di Givenchy. L’influenza e la coesistenza di questi due mondi, street e high fashion, ha indubbiamente condizionato i gusti dei compratori che magari prima di questa unione non si sarebbero mai avvicinati a brand popolari come Stüssy o Palace: il fatto di vedere queste realtà catapultate nell’olimpo dell’alta moda le ha probabilmente rese appetibili ai loro occhi.
Del resto, è su questo che si basano le strategie dei brand: essere in grado di conquistare e plasmare i gusti – non sempre così tanto personali – del mercato. Sappiamo perfettamente, poi, quanto i marchi siano bravi a cavalcare le tendenze (e in un certo senso anche obbligati) e proprio per questo si vede come molto spesso in tanti rischino di perdere la propria identità. Continue collaborazioni, collezioni spesso poco chiare e costanti dinamiche complicate ai piani alti potrebbero creare confusione rendendo poco chiaro ciò che il brand vuole comunicare. Un motivo valido, forse, per rifugiarsi in un mondo meno scostante e difficile come quello del casual. Basti pensare che nell’ultimo anno abbiamo visto diversi trend farsi strada nel settore della moda – dal barbiecore al bikercore – tutto questo per sconfinare nell’estetica della weird girl: la perfetta definizione di tutto e niente. Il contrario assoluto del casual, da un lato libertà espressiva dall’altro caos dettato da una enormità di stimoli che ci circondano.
C’è quindi chi decide di stare al passo con ogni tendenza e chi invece sceglie di rimanere nel “suo” casual, spesso comfort zone, spesso noncuranza nel vestirsi, spesso controcorrente rispetto alle dinamiche senza sosta del sistema. A volte la semplice volontà di non lasciarsi trasportare dai trend passeggeri preferendo un casual look che potrebbe trasformarsi in una vera e propria uniforme personale, del resto è quello che ha fatto Steve Jobs durante la sua carriera.
E se questo aspetto è sempre stato ciò che ha differenziato le persone definibili comuni da quelle famose, ad oggi questa distinzione in molti casi non esiste più. Nel 2018 il Wall Street Journal ha chiesto ai suoi lettori: “Why Are Male Celebrities Dressing Like Such Slobs?” cercando di capire perché le celebrità si vestissero in modo sciatto. Il modo di abbigliarsi, indicatore del proprio status sociale dall’inizio dei tempi, ormai potrebbe rappresentare un modo per azzerare le differenze sociali tra gli individui della società permettendo di renderci tutti più simili. Che sia per moda o per semplice consapevolezza di non dover dimostrare la propria perfezione a favore di paparazzi dopo anni di celebrity culture spasmodica, il casual sta vincendo la sua battaglia.
Insomma, non cesserà mai di esistere e tutti cercheranno sempre di conferirgli un’interpretazione personale – per alcuni incline al messy chic per altri al normcore. E concludiamo ricordando che ognuno di noi almeno una volta nella vita avrà visto un meme motivazionale spiegare che colui che sfoggia l’abbigliamento più casual è in realtà il più ricco nella stanza, anche se c’è il rischio che questa statistica possa essere poco attendibile.