Scultura e architettura hanno da sempre viaggiato a braccetto e insieme sono state capaci di fondersi a tal punto da esaltare reciprocamente l’una le qualità dell’altra. Sin dall’antichità, infatti, tale binomio ha ottenuto dei risultati senza precedenti, imponendosi da subito come una presenza fissa nelle città di ogni civiltà lungo l’intera storia dell’umanità. Provate a pensare all’oggettiva perfezione degli iconici capitelli delle colonne classiche con i famosi ordini dorico, ionico e corinzio, ma anche alle ricche facciate degli edifici Art Nouveau dell’Europa di fine ‘800. Durante lo scorso secolo, però, si può dire che le due arti maggiori abbiano vissuto un certo allontanamento, dovuto soprattutto all’incontenibile diffusione dei principi del movimento moderno e razionalista che, con assoluta fermezza, ha deciso di limitare al massimo ogni decorazione dal panorama architettonico. Oggi, però, chi l’ha detto che le due discipline non possano tornare a dialogare in maniera ancora più incisiva di un tempo?
Richard Wilson è certamente uno degli artisti che meglio rappresenta questa rinnovata e accentuata simbiosi tra scultura e architettura, che è diventata l’indiscussa protagonista della sua indagine artistica. Nato nel 1953, lo scultore britannico si è presto fatto strada nel mondo dell’arte tramite una serie di surreali installazioni che intervengono direttamente nello spazio architettonico. Pluripremiato e con una lista di partecipazioni a mostre del tutto invidiabile, negli anni ha esposto il frutto del suo lavoro in quasi tutto il mondo ed è passato più di una volta anche in Italia presentandosi, per esempio, alla Biennale di Venezia. La sua principale fonte di ispirazione proviene dai mondi dell’ingegneria e delle costruzioni, ambiti dai quali cerca di trarre sia le tecnologie utili alla produzione delle opere, sia il linguaggio estetico che lo caratterizza. Ma ciò che definisce meglio la sua cifra stilista è sicuramente la costante ricerca basata sul generare nello spettatore un senso di disorientamento, ottenuto conferendo a qualcosa di familiare un comportamento del tutto inusuale e inaspettato.
Dopo il successo dell’installazione “20:50”, in cui una stanza espositiva era stata allagata con olio motore per riflettere completamente l’ambiente circostante, “Turning the Place Over” è sicuramente l’opera più iconica data alla luce da Richard Wilson. Realizzata a Liverpool nel 2008, essa prevedeva letteralmente la scomposizione della facciata di un palazzo. Una porzione ovoidale dello stesso, infatti, era fatta ruotare nelle tre dimensioni, proiettandosi verso la strada e rivelando agli spettatori l’interno dell’edificio. Il meccanismo era composto da un perno centrale angolato e da una serie di rulli motorizzati, che permettevano al disco architettonico di compiere una rotazione di 360 gradi senza mai fermarsi.
Sebbene l’effetto generato da “Turning the Place Over” sia stato unico nel suo genere, qualcosa di simile era già stato fatto da Wilson nel 1998 con l’opera “Over Easy”. In quel caso, la porzione di edificio messa in rotazione era circolare, con un diametro di 8 metri, e poteva oscillare lentamente sul suo asse per un angolo di 300 gradi a una velocità paragonabile a quella della lancetta dei minuti sull’orologio.
Tra le strade di Londra, invece, l’artista ha collocato sullo spigolo di un edificio “Square the Block”, un’installazione in cui delle riproduzioni dell’architettura stessa sono caoticamente assemblate senza un’apparente logica estetica e funzionale. L’opera risale al 2009 e venne collocata esattamente all’incrocio tra Kingsway e Sardinia Street, dove i passanti poterono imbattersi ancora una volta in qualcosa di inconsueto e surreale, se messo a confronto con la quotidianità vissuta per quelle strade.
Tra le numerose opere dell’artista che destano scalpore, va ricordata “Hang on a Minute Lads, I’ve got a Great Idea”. Con questa installazione Wilson posiziona la replica di un autobus in bilico sul tetto del Padiglione De La Warr. L’impressione è che potrebbe cadere da un momento all’altro, dato che è fatto oscillare precariamente ed è parzialmente sospeso nel vuoto. La stessa opera è stata poi riproposta nel 2019 a Torino, in onore del 50° anniversario del film da cui trae ispirazione: “The Italian Job”. Quest’ultimo, infatti, era stato girato proprio nel capoluogo piemontese nel 1969.