La Cross Bronx Expressway (CBE) è una tangenziale costruita tra il 1948 e il 1972 che connette il Queens al New Jersey attraverso Upper Manhattan. Si tratta di un’opera che ha gettato, involontariamente e maledettamente le fondamenta per l’hip hop. Il disagio creato dai lavori interminabili di questo progetto hanno avuto l’effetto di sventrare parti della città e di gettare in rovina molte famiglie del Bronx. La comune espressione, che tuttora utilizziamo, “sembra il Bronx” deriva da quel periodo di forti sconvolgimenti urbanistici. Un’opera straordinaria e pensata a tavolino che ha dato vita alla periferia più nota al mondo, il south Bronx, dove famiglie principalmente afroamericane e ispaniche sono state costrette a spostarsi in nuovi complessi abitativi creati ad hoc (detti project) per chi non poteva permettersi altro. In poco tempo, questo diede origine a una violenta cultura di strada, soprannominata ghetto warfare, negli anni a venire spesso raccontata dal rap. Questa storia è spiegata nel libro “Rap. Una storia, due americhe” di Cesare Alemanni. Può sembrare azzardato cercare un nesso tra il bronx e il contesto italiano, dove il rap è spesso accusato di essere una semplice copia periferica del genere nato e cresciuto negli Stati Uniti. Le dispute tra puristi, innovatori e fan occasionali sono state innumerevoli, tra accuse e giustificazione di autenticità e background adatto.
È vero che anche il contesto italiano ha le proprie periferie, caratterizzate da emarginazione economica, culturale, servizi mediocri e con una scarsa partecipazione politica e sociale. Ma è altrettanto accertato che difficilmente si può equiparare alla periferia newyorkese, nonostante molti artisti della periferia italiana abbiano avuto il bisogno di prendere come riferimento la realtà oltreoceano. Si tratta certamente di una questione di identificazione culturale e di mancanza di modelli italiani per rappresentare i propri credo e all’interno di un sistema simbolico che renderebbe l’identità periferica italiana distinguibile. Ad oggi tutto ciò non l’abbiamo (nonostante ci siano eccezioni positive come ha dimostrato di saper fare Marracash) poiché spesso l’immaginario di artisti di periferia, che comunque variano e hanno le loro sfumature, ancora si rifanno a quello americano. Sorge spontanea quindi la domanda del perché dare ancora valore e appetibilità al rap italiano, e quali aspetti caratteristici possa avere da offrire. E la risposta, o almeno una proposta, è la provincia. Quell’entità ancora più sconosciuta perché non così limitrofa alle città metropolitane, e non solo divisa da una tangenziale, ma da molte più strade e vicoli dimenticati, il ché denota non solo un’emarginazione spaziale, ma anzitutto culturale, e quindi caratteristica, in parte ancora ignota.
La provincia italiana e il rap metropolitano
Le province italiane (e le cosiddette aree interne) sono territori con una propria peculiarità che differiscono dalle periferie metropolitane e dai centri urbani. Negli anni hanno subito cambiamenti significativi, e spesso sono state abbandonate dallo sguardo di decisori pubblici, ricercatori e opinionisti, guidati invece da una “metro-filia”, rimpolpata dalla fallace equazione che la densità sia sinonimo di qualità, e quindi che la metropoli sia l’unico e massimo motore del paese. È stata dimenticata un’italia interna, l’italia media, trascurata e oscurata, a tratti rimossa appositamente poiché etichettata come arcaica e allergica all’innovazione. Ma si tratta comunque di un’Italia numericamente in crescita. Una contrapposizione netta tra i “pieni” delle metropoli e la sua trasformazione incessante e i “vuoti” di quello spazio modesto, a volte bucolico e romanticizzato altre disperatamente evitato delle province italiane.
Dalla seconda metà del secolo scorso, l’Italia, come altri paesi europei, ha progressivamente attraversato un cambiamento dall’industrialismo a una organizzazione sociale post-industriale, con la ribalta della città, in cui i movimenti verso il centro e l’abbandono dei luoghi di origine sono diventati un fenomeno sempre più diffuso. La riduzione della popolazione e l’invecchiamento demografico sono fenomeni quindi diventati cruciali per descrivere l’Italia media. Negli ultimi decenni abbiamo assistito anche a un fenomeno contrario, cosiddetto di conurbazione, chiamato anche “nebulosa territoriale”, dove sistemi locali, centri minori e aree isolate di diverse dimensioni si uniscono a centri maggiori, creando distretti senza una vera strutturazione. E questo avviene perché vivere nel centro urbano ha progressivamente perso apprezzamento e attrazione. Dal movimento unidirezionale verso i centri, si sta facendo spazio anche uno sguardo diverso, che dà voce a chi ha deciso di rimanere o non ha potuto spostarsi. E questa nuova narrazione, che giunge da chi non vive nelle aree metropolitane, fatta di rivendicazioni e disgrazie, la ritroviamo anche nelle opere di alcuni artisti. Il rap si inserisce (e potrebbe farlo sempre meglio) in questa difficile rete di movimenti e incomprensioni di quel che sarà, per restituire un’istantanea della complessità del fenomeno, rappando tutte le sue contraddizioni e unicità, senza la necessità di capirlo a pieno.
Se ripensiamo ai primi artisti o rapper italiani fino ad oggi, la maggioranza viene affiliata naturalmente a una città. Abbiamo avuto i Sangue Misto e Bologna, i Club Dogo e Milano, il TruceKlan e Roma, i Co’sang e Napoli così via. La città e il rap erano un binomio indivisibile, dove non c’era spazio per altri accoppiamenti. L’eccezione, ancora una volta, è stata Fabri Fibra, che già dall’inizio della sua carriera ha raccontato la vita di provincia, come spiega in questa intervista “Io me ne sbatto il cazzo di un lavoro in città / Io spruzzo rap in vena” (Fabri Fibra, “Rap in Vena”, 2004). Il dominio della città nell’immaginario rap è stato indiscutibilmente dominante e tuttora è così. I richiami agli elementi più comuni di contrasto tra periferia e centro, tipici del rap, abbondano nei testi, a volte diventando espressioni plastiche, cliché del genere senza più una vera forza rivendicativa. D’altrocanto il rap non è più solo un genere ascoltato nei centri metropolitani, ma si è diffuso nelle camere di ragazzi e adulti lungo tutto lo stivale. È emersa una nuova ondata di rapper, più o meno nuovi, che spesso nominano o portano le proprie origini provinciali nel rap-game. E se il precursore è stato Fibra La provincia dentro ogni mia barra / Non fuggire, ne faranno tutti un dramma (Fabri Fibra, “Non mi vedi”, 2024), non è l’unico rapper che proviene dalla misconosciuta provincia italiana: Massimo Pericolo, Kid Yugi, Tony Boy, Anna, Capo Plaza, Mecna, Silent Bob, Nitro, Madame e molti altri. Tutti rapper con una loro rilevanza, che hanno trovato spazio nella discografia odierna e che, variabilmente, nominano le loro origini provinciali e alcuni raccontano il loro vissuto.
Di provincia o provinciali?
Kid Yugi, in un’intervista, racconta di essere un ragazzo cresciuto in una provincia d’Italia, spiegando che “’[c’è] una realtà grandissima che non viene descritta e non viene neppure considerata dall’industria”. Lo stesso dice Massimo Pericolo: “Credo che la narrazione della città sia presente in grande abbondanza nella musica di oggi e manchi proprio invece quella della provincia. Provenire da lì, inevitabilmente, ti dà una fame diversa”. È complesso trovare descrizioni esaurienti della vita di provincia nel rap: le rappresentazioni sono ancora parziali, quasi nascoste da quello stesso istinto di pudore che forse chi cresce in provincia introietta molto di più che in città. “Non siamo i passamontagna alle vie del centro / Non siamo gli scoppiati del calcetto, il suono è diverso / Coi frigoriferi pieni nello zainetto / Le valigie alla porta e sbavature del dialetto” (Mecna, “Di nuovo”, 2012). Una giornata-tipo in provincia è comunque ben restituita dallo skit “17 anni- Skit” di Massimo Pericolo nell’ultimo album “Le cose cambiano”, in cui restituisce uno spaccato di quotidianità di chi è abituato a un ambiente, quello provinciale, il quale possiede una densità del tutto differente da quello cittadino. Lo stesso vale per la traccia “Amici” in cui l’artista di Gallarate racconta l’organizzazione di una serata in provincia: Scendo giù dal mio amico che aspetta / Sotto le piscine di Brebbia / Per la broda facciamo colletta / E andiamo via da ‘sto posto di merda (Massimo Pericolo, “Amici”, 2019). Non che non esistano gli elementi in comune o una certa omologazione tra città e provincia, soprattutto tra chi fa rap, è infatti normale che in una cultura come quella hip hop ci siano contaminazioni, imitazioni e scambi. Ma si tratta di esplorare e professare di avere riferimenti differenti, partendo proprio dalla morfologia e dalla toponomastica dello spazio che quindi influenzano il modo di fare musica: Non ho visto g ho visto solo bulli / Magazzino nei trulli kid yugi (Kid Yugi, “Hybris”, 2022). I nuovi riferimenti dei rapper di provincia non sono più (non solo), i palazzoni, i motorini, il quartiere e quant’altro, ma contesti difficilmente descrivibili all’unisono, poiché la provincia italiana è costituita da un policentrismo territoriale e culturale e da una eterogeneità con cui ancora i rapper italiani faticano a misurarsi, ma di cui forse ascoltatori e rapper stessi avrebbero bisogno Tre sfigati con i pantaloni larghi / E la nebbia di provincia a rovinarci (Nitro, “Ho fatto bene”, 2018).
Cosa c’entra il rap con la provincia italiana
La provincia italiana è vista ancora come folklore da chi non la abita, quasi come mito da vivere solo nei periodi di vacanza o da evitare per la noia e la sua apparente paralisi. Non è presa davvero seriamente, e lo stesso ha fatto il rap-game. Ma anche la stessa provincia spesso tenta di assomigliare sempre di più alla città, scadendo in ciò che Pasolini descriveva col termine “nevrosi” per indicare una spasmodica ricerca di imitazione. La provincia italiana per rassicurarsi ha cercato spesso canoni altrove, riferimenti fuori, verso il centro. Molti rapper che vengono dalla provincia, ora sono pienamente “milanesizzati” o addirittura internazionalizzati. Il che non è per forza un problema. Anche perché spesso uscire dalla comunità locale è un atto di liberazione, significa emanciparsi dalla sua silenziosa tirannia. Ma è anche vero che si è esposti a una novità che può disorientare. Kid Yugi ad esempio dice di fare su e giù tra Milano e Massafra (il paese di origine): A Massafra c’è il burrone, ma vivevo il baratro / Avevo solo polvere e / problemi come un acaro / Da bambino col mio amico vandalo / Mo che li guadagno a Milano e li spendo a Taranto (Kid Yugi, “Sintetico”, 2023), mentre altri artisti come Anna o Capo Plaza sono più allineati alla realtà metropolitana, producendo e fornendosi di uno stile dal respiro più internazionale.
I rapper che provengono dalla provincia possono agire come performer con la capacità di parlare di problemi inediti nell’immaginario rap italiano, mostrando e rielaborando pezzi di culture escluse, ricostruendo relazioni diverse tra città e provincia, inventando nuove narrazioni e realtà finora ignorate. E questo significa anche dare voce ad ascoltatori che non si riconoscono a pieno nel rap “metropolitano” perché non a diretto contatto con la realtà raccontata dai big della scena. Come scrive Cesare Alemanni in “Rap. Una storia due americhe”: “l’hip-hop delle origini non trae la sua forza propulsiva da qualche vaga promessa di way out ed emancipazione socio economica. […] L’hip hop nasce dal tentativo di riconfigurare le relazioni simboliche all’interno di quei luoghi e rinegoziare quelle con il mondo esterno. Il movente dei padri fondatori dell’hip hop non era fuggire dal nulla a cui la decadenza dei loro project li aveva condannati ma la trasformazione di quel nulla… in qualcosa”. E quindi quel nulla simbolico, quel silenzio che ancora oggi troviamo attorno alla provincia italiana, ai suoi sotterfugi e particolarità, sta diventando invece centro narrativo di alcuni rapper, che non vogliono dimenticare le proprie origini e anzi intendono portare in alto le loro identità provinciali, rinegoziandole con ciò che il rap metropolitano è stato finora: Tra le campagne e le paglie unte di coca / Tutto tuta, niente settimana della moda / Sette su sette a bere così anniеntiamo la noia (Silent Bob, “PLD”, 2024). Chissà che questo non sia l’inizio di una trasformazione che porterà la provincia italiana in qualcosa che tutti potremmo conoscere sempre di più.