Da sempre le collaborazioni sono uno degli elementi fondativi dello sneaker game, forse il più imitato e “rubato” da chi ha voluto imitarne in altri contesti gli aspetti più interessanti, legati all’arte e alla street culture. Non è un caso che per decenni si sia cercato di individuare la “prima collaborazione” come un punto di svolta nella storia delle sneakers: Wu-Dunk, Junya Watanabe o Atmos se si parla di Nike, ma anche Vans x Supreme e indietro fino alle LA Gear di Michael Jackson e ai signature model di personaggi esterni al mondo dello sport.
Ovviamente in oltre vent’anni le cose sono cambiate radicalmente e le collaborazioni sono passate dall’essere un oggetto di culto per pochi nerd alla quotidiana normalità anche per i meno addentro alle dinamiche del mondo delle sneakers.
L’elevato numero di collabo rilasciate dai brand sta danneggiando lo sneaker game?

La risposta sembra ovvia, soprattutto per chi compra sneakers ormai da qualche anno. Ma non è tutto così facile.
L’enorme numero di collaborazioni in uscita ogni settimana, se non ogni giorno, ha certamente esposto molte delle attuali criticità all’interno del mondo delle sneakers. Prima tra tutte il fatto che, soprattutto nel caso dei brand più piccoli, il valore del “collaboratore” ha superato quello del brand, creando un meccanismo secondo cui le aziende si sentono obbligate ad appoggiarsi alla visibilità di personaggi, artisti, atleti o negozi per dare una spinta alle vendite di modelli che, altrimenti, farebbero polvere sugli scaffali. Questo primo aspetto è stato ormai esasperato e ha perso qualunque (presunta) funzione: le collaborazioni hanno a volte oltrepassato il numero dei prodotti in-line, annullando così ogni appeal o fattore di esclusività legato al prodotto. In alcuni casi sembra ormai che per i brand siano più importanti gli insight e i numeri fatti sui social dai reboanti annunci di queste collaborazioni inutili, mettendo i dati di vendita in secondo piano: la scarpa potrà anche finire al macero, ma associare il proprio marchio al gamer di successo o all’ influencer del momento ripaga le perdite.
Molto più semplicemente, l’esasperato ricorso alle collaborazioni ne ha pressoché azzerato il valore: non da un punto di vista economico quanto culturale, per il mondo delle sneakers e per gli appassionati. Per decenni le collaborazioni, più o meno mainstream che fossero, hanno portato con sé aspetti secondari legati a tiratura, distribuzione, esclusività e cura per i dettagli. Ormai le collabo sono una cosa normale e hanno perso ogni attrattiva anche nei casi in cui si parla di un prodotto valido e ben realizzato, soprattutto per chi è nello sneaker game da poco e, per forza di cose, non ha un termine di paragone con i “vecchi tempi”.

La scorsa settimana Highsnobiety ha pubblicato un articolo a firma di Fabian Gorsler dal titolo forte: “The sneaker industry is collaborating itself to death”. L’articolo di Gorsler sviluppa molti dei temi citati qui sopra, proponendo un punto di vista interessante sul modo in cui i brand si sono ritrovati a dover ogni volta “superare sé stessi” per combattere l’abitudine che il pubblico ha sviluppato nei confronti degli special project.
Con curioso tempismo, a pochi giorni dalla pubblicazione di “The sneaker industry is collaborating itself to death” Louis Vuitton ha sfilato a Parigi mostrando al mondo per la prima volta la collezione collaborativa realizzata con Nike sotto l’attenta supervisione di Virgil Abloh. LV x Nike (x Virgil Abloh) potrebbe facilmente diventare il manifesto di tutto ciò che oggi c’è di sbagliato nelle sneaker collabs: è sostanzialmente inutile, non porta nulla a nessuno dei due brand se non visibilità momentanea, polemiche e chiacchiericcio relegando non solo Nike ma anche LV a meri componenti di un’enorme mossa di marketing.
Significa che la collaborazione tra Louis Vuitton e Nike è brutta? Questo, per fortuna, resta un giudizio personale. È però innegabile come siano presenti elementi e riferimenti culturali molto interessanti che sarebbero perfetti per uno storytelling approfondito a far da cornice al progetto. Louis Vuitton x Nike è un caso molto particolare: gli sneakerhead di vent’anni fa, ai limiti dell’integralismo, avrebbero rigettato una collaborazione di questo tipo che era immaginabile soltanto a livello di bootleg, ma la partnership avrebbe sicuramente spiccato in un mercato ancora minuscolo e ancora oggi ne parleremmo come di un fatto epocale. Oggi, per quanto la partnership tra Nike e LV sia non soltanto una novità ma una tappa importante nella storia delle sneakers, ci troviamo di fronte a “altre venti sneakers di Virgil Abloh”, che seguono a poche settimane di distanza le cinquanta Dunk e le decine e decine di release dei quattro anni precedenti.
Tralasciando per un attimo il fatto che LV x Nike non sarà disponibile attraverso i tradizionali canali di vendita delle altre sneakers firmate da Abloh per lo Swoosh, questi ritmi non sono assolutamente sostenibili e hanno come unica conseguenza quella di abbassare la soglia dell’attenzione del pubblico che, per noia o sopraffazione, non riesce più a riconoscere quei pochi elementi d’interesse rimasti in progetti di questo tipo.

Ogni settimana vengono presentati progetti validi, interessanti e ben realizzati. Alcuni di questi sono all’altezza dei classici tanto osannati di vent’anni fa e, con ogni probabilità, se fossero usciti in quel momento oggi riceverebbero un diverso tipo di reverenza. Purtroppo, però, l’attenzione che il pubblico riserva a queste release dura lo spazio di una condivisione su Instagram o i pochi giorni che ci separano dalla prossima release must-have e le aziende continueranno ad alimentare questo modo fagocitante di vivere lo sneaker game con nuove release, sempre più diluite nel loro valore.
Vedremo mai un’inversione di tendenza? Probabilmente no.
Ormai è normale e assimilato il fatto che possano esserci delle collaborazioni in esclusiva per le grandi catene da centro commerciale, un controsenso rispetto alla funzione che le collabo hanno esercitato per oltre un decennio a partire dalla fine degli anni ’90.
È colpa dei brand? Sì, ma non soltanto loro.
Ovviamente le aziende hanno visto nelle collaborazioni un metodo rapido per monetizzare release che, altrimenti, avrebbero richiesto tempo per essere metabolizzate dal pubblico. L’incapacità dello “sneakerhead moderno” di far durare una sneaker più di qualche giorno, però, ha contribuito in maniera drastica alla situazione attuale. Se i Want to Buy diventano giornalieri e una release vecchia di una settimana può essere un grail, tutto è lecito nel mondo delle sneakers.