L’egemonia Supreme è davvero volta al termine?

Ripetiamolo tutti insieme: Supreme, nell’anno fiscale conclusosi a marzo 2023, ha raggiunto un ricavato di ben $523.1 milioni. Un dato incredibile, una cifra da capogiro. Ma c’è un però: l’utile netto ha toccato cifre pari a $64.8 milioni, un corposo downgrade rispetto agli $82.4 milioni registrati a marzo dello scorso anno. Le previsioni di VF Corp – compagnia madre di The North Face, Dickies, Vans e chi più ne ha più ne metta -, che ha acquisito il brand per una cifra astronomica che si aggira attorno ai $2.1 miliardi alla fine del 2020, parlavano di toccare i $600 milioni, tondi tondi. Si conclude con un “fallimento”, dunque, il primo anno d’esperienza del neo direttore creativo Tremaine Emory – uno dei “colpevoli indiziati” di questo tracollo (sì, i termini usati dalle riviste di settore e dai followers nella sezione commenti delle stesse non sono di certo parole al miele, né per il per fondatore di Denim Tears né tantomeno per il brand newyorkese).

Un aspetto che fa riflettere è senz’altro il sensazionalismo che circonda l’accaduto: da un lato c’è chi, memore dello stereotipato indossatore di Supreme nel 2017, non vedeva l’ora che i riflettori si togliessero di dosso dal marchio, dall’altro c’è chi attorno a quel logo rettangolare con font Futura Bold Italic ci ha costruito una sorta di culto, che ora, a sua detta, si sta per sgretolare pian piano. Questo per dire che Supreme, di ere diverse, di percezione del pubblico, di buyer personas, ne ha attraversate e vissute davvero tante. Oggetto del desiderio di skater talentuosi, di veneratori di Jebbia, di cool kids (appunto, verso il 2017) e molti altri. Ma alcuni skater sono cresciuti (e neanche skateano più) né tantomeno acquistano Supreme. Jebbia ha lasciato spazio a un Emory che è alla sua primissima esperienza con Supreme (e chissà che in men che non si dica non possa ribaltare i moltissimi giudizi affrettati che lo hanno colpito), ma infine, il periodo glorioso in cui 16enni chiedevano soldi ai propri genitori per provare ad acquistare articoli boxlogati è stato archiviato: loro esistono ancora eh, puntano su altro e hanno qualche anno in più.

Questo sproloquio prolisso per dire, a voce alta, che il marchio (mai come ora) ha dovuto condividere la propria “arena di gioco” con così tanti players. E non finisce qui, perché il discorso non ricade solamente sulla quantità di questi players, quanto sulla varietà di prodotti annoverati sotto il termine “streetwear”, ed è proprio la confusione che colpisce la categorizzazione dei prodotti di oggi che ogni giorno vengono lanciati sul mercato che Supreme è costretto in qualche modo ad affrontare: questo è uno dei motivi per cui al momento – e probabilmente anche per i prossimi anni – possiamo scordarci di assistere nuovamente a un’egemonia 2.0 firmata Supreme.

È esagerato parlare di un momento catastrofico per Supreme: chi lo fa non tiene conto della differenza di offerta sul mercato che c’è oggi rispetto a cinque o sei anni fa in una fascia di prezzo più o meno flessibile. È altrettanto incredibile come la maggior parte dell’informazione di settore che usa urlare alla morte del marchio sia la stessa che dà voce al proliferare di micro e macro trend (alcuni più o meno sostanziosi, come quello del quiet luxury, altri esageratamente effimeri). E così il resto dell’opinione pubblica che si diverte a piagnucolare nell’angolino: Supreme non è cambiato più di tanto. Le magliette con le grafiche irriverenti le fa ancora oggi, le campagne sono sempre le stesse, i lookbook pure. Supreme non è morta, siamo noi, con Arc’teryx e Salomon ai piedi, a non voler realizzare che non ci travolge più come una volta. E menomale, sapremo apprezzarla di più prossimamente: tempo a Tremaine.