L’equilibrio è tutto per Silvie Loto

Parlare con Silvie Loto è piacevole tanto quanto ballare i suoi set. Elegante, alla mano, amichevole, attenta a pesare con gusto i concetti e gli equilibri, è una dj dalla carriera esemplare. In una fase storica in cui ci sono molte polemiche riguardo l’”eccesso di attenzione” delle dj donna in campo techno e house, Silvie è al di sopra di ogni sospetto. Non ha costruito il proprio profilo e la propria autorevolezza puntando sui balletti da social, su foto fashioniste, su presenze negli ambiti più cool; il suo è un viaggio costruito passo dopo passo, senza clamori, senza scorciatoie. Viaggio che ora l’ha portata ad essere una dj dal profilo solidamente internazionale. Uno di quelli che “ce l’ha fatta”, insomma. L’abbiamo invitata a fare una lunga chiacchierata alla fine del suo set al Kappa FuturFestival, sotto un sole cocente ma con migliaia di persone di fronte. Nulla di strano che questo incontro sia nato grazie alla collaborazione del partner “tecnico” del festival, Pioneer Dj, non qualcosa di fashionista: Silvie oggi ha imparato ad essere molto più libera e a temere molto meno determinati pregiudizi, come ci racconta senza tirarsi indietro, ma il suo primo ambiente, quello che sente più “suo”, resta quello dei CDJ, dei mixer, dei controller, del dancefloor da saper domare e sedurre con grazia, gusto, competenza.

Partiamo dalla domanda più facile e, al tempo stesso, più difficile: a che punto sei della tua carriera da artista, Silvie?

Che ansia, queste domande… (ride, ndr).

Ma ti tocca rispondere!

Devo dire la verità: sono in un punto in cui mi sento molto felice. E questo anche perché ho smesso di preoccuparmi di tutta una serie di cose a cui, forse, davo prima troppa attenzione. Non che non contassero in assoluto, e non che non contino tuttora; ma ho imparato a dare il giusto peso a tutta una serie di situazioni, ho imparato a “lasciar andare”. Per il resto se mi guardo indietro non posso che essere felice: mi piace molto il percorso che ho fatto. Mi piace molto aver avuto parecchi anni di gavetta, da resident, così come ora mi piacciono tutti i posti dove riesco a suonare, sia i club che i festival. Sono insomma esattamente dove voglio stare, avendo fatto il viaggio più sano ed organico. Poi chiaro: uno non vuole mai precludersi nulla, a livello di crescita. Ma ora sono veramente serena. 

Anche tu, come tutti, hai dovuto passare attraverso i due anni di stop pandemico. Stop che nel tuo caso, ho come questa impressione, è arrivato esattamente quando stavi facendo il definitivo salto di livello: quando cioè da “buon nome da mettere in line up” sei arrivata ad avere sempre più spesso lo status da headliner.

Vero. Hai ragione. Eppure, io continuo a pensare che lo stop pandemico per me sia stato un bene dal punto di vista lavorativo: mi ha obbligato a pensare, a riflettere su quello che stavo facendo e su dove volevo andare. Una riflessione che è stata benefica: perché poi quando tutto è ricominciato, ti dirò, l’impressione è che abbia finalmente imparato a godermi quest’avventura del fare la dj per davvero, come mai in passato. Io storicamente ero sempre una molto precisina, un po’ perfezionista: ragionandoci sopra, ho imparato invece a prendere le cose più alla leggera. Il risultato paradossale dello stop pandemico, almeno per me come dj, è che ho imparato poi a prendere le cose con più serenità.

Serenità ok, ma fino ad un certo punto: il mondo del djing da club è molto affollato e, quindi, anche molto competitivo. Ora forse più ancora di prima. Tutti vogliono fare i dj, e tutti inseguono il proprio posto sotto i riflettori.

Io non credo nella competizione come stimolo. Per alcuni è la molla giusta per fare bene, ci mancherebbe; per me, no. Per me conta più la passione. 

Eh.

Lo so che è una cosa molto banale da dire (sorride, ndr). Ma penso davvero sia fondamentale. Il rischio, quando fai il dj da tanti anni, è che inizi a guardare la pista con un po’ di sufficienza: inizi a pensare sia tutto un po’ una routine, sottovalutando il fatto che le persone in pista hanno un sesto senso che sa riconoscere quanta passione c’è in chi sta suonando per loro in quel momento. Tu puoi suonare tecnicamente bene quanto vuoi, mettere degli ottimi dischi; ma se lo stai facendo senza passione, stai sicuro che in qualche modo la gente di fronte a te se ne accorge, prima o poi. E ad un certo punto, inizia a seguirti con meno entusiasmo. Ecco perché credo che la passione sia un investimento migliore. Non lo dico tanto per dire.

Che poi, parlando di ambizione e scalate di carriera: la cosa divertente è che tu hai iniziato a suonare quando non c’era tutto questo hype attorno alle “donne dj che suonano techno”, che poi oltre ad essere hype è anche grande motivo di polemica – per molti infatti oggi essere donna facilita l’accesso a console importanti, se fai il dj, permettendo delle ascese spettacolari e sospettosamente veloci. Tu che sei oggettivamente al di sopra di ogni sospetto, come vedi tutta questa situazione?

Penso che sarebbe ora di smettere di fare questa distinzione tra dj donna e dj uomo, soffermandocisi sempre sopra, in positivo o in negativo che sia. Se vado in un club e guardo verso la console vedo un dj che suona, e stop. Non mi interessa quale sia il genere. Attenzione: quando io ho iniziato, è stato comunque molto importante che si sottolineasse l’importanza di una parità di opportunità e di presenza tra donna e uomo nel mondo del clubbing, a partire dalla console. C’era effettivamente un gap da colmare, una questione da porre, pregiudizi da superare. Ma ora? Ora, credo che siamo messi molto meglio e si può tornare a guardare al tutto chiedendosi solo se uno è bravo o meno, non se sia maschio o femmina, forzando le cose in un senso o nell’altro.

Altra accusa forte dei più puristi e rigorosi: il ruolo dei social. Oggi essere bravi sui social conta più che essere bravi come dj. Vero? Falso? Vero a metà?

Anche qui mi pare un non-problema. Ci sono dei dj che sono dei “nativi dei social”: cosa gli vuoi dire? Sono cresciuti in una società in cui i social sono un lato imprescindibile per qualsiasi cosa tu faccia, si comportano di conseguenza. Ci sono quelli che li usano parecchio per aiutarsi a farsi conoscere: bene, che problema c’è? Se chiedi a me, che “nativa dei social” non lo sono, ti dico: magari li avessi avuti fin dall’inizio, i social! Ho fatto un sacco di date belle, con ricordi belli, con momenti indimenticabili, cose che ora sono solo nella mia memoria e che nessuno all’epoca ha documentato perché appunto – dove poi avresti messo foto e video? Che te ne saresti fatto? Capisci insomma che non ho nulla contro i social, anzi, ne vedo le potenzialità: penso possano essere uno strumento molto utile e molto “amico”. Chiaro: se poi basi tutta la tua carriera sul costruirti dei follower su Instagram o su TikTok invece che su quello che fai di mestiere, allora no. Ma questo principio vale non solo per i dj, credo valga per qualsiasi professione a questo mondo. Sbaglio?

Ci sta. 

Io sono nata curiosa. E se ora i social ci sono, perché non imparare ad usarli in maniera intelligente?

Ma torniamo un attimo indietro ai tuoi esordi, ai tuoi primi passi. Cosa vedi? Com’era la Silvie di allora? Pensa alle prime date a Firenze, nella tua città, o anche a Milano, dove ti sei successivamente trasferita…

A Milano studiavo e basta, e nessuno mi faceva suonare! (ride, ndr)

Ma davvero?

Oh sì. E sai qual è il paradosso? Quando poi mi sono trasferita a Roma hanno iniziato a chiamarmi spessissimo per venire a suonare a Milano! (risate, ndr) 

Classico!

…ma tornando alla domanda: se vedo la me stessa degli esordi vedo una ragazza con una motivazione enorme, che si costruiva dal nulla le occasioni per iniziare a mettere dischi: organizzavo io degli aperitivi, convincevo io i proprietari di bar e di locali molto piccoli che ne valeva la pena, e suonavo, suonavo… Iniziavo alle 18, e non finivo prima di mezzanotte! Senza staccare mai! Una cosa massacrante. Ma lì per lì non mi pesava nulla. Guarda, se mi chiedessero di fare adesso una cosa del genere non so mica se ci riuscirei: 6, 7 ore di dj set, più volte alla settimana, un massacro. Eppure, all’epoca non mi pesava per niente. Tra l’altro non credere, non è che avessi la mia cricca di amici che mi seguiva: facevo tutto da sola, ad un certo punto pur di poter suonare accettai l’offerta di un posto fuori Firenze che però aveva posto come condizione che fossi io a portare giradischi e mixer, visto che manco portavo un giro “mio” di clienti, quindi ogni volta dovevo trascinarmi tutto dietro smontando la console che avevo a casa e ricablando tutto quanto nel locale. Una cosa folle, ma proprio per questo bellissima. Ora che ci ripenso sono proprio fiera di questo percorso. 

Quand’è che ti sei resa conto che le cose stavano cambiando, e che non eri più tu a dover inseguire le opportunità ma erano gli altri che ti venivano a cercare e tu potevi decidere se accettare o meno?

Non lo so. Davvero: non lo so. Secondo te, quando è successo?

Sono io che faccio le domande! (risate, ndr)

È che ancora oggi a me ogni singola occasione per suonare sembra un’opportunità… Tendo a dire “Sì” non dico a tutto, ma a molto. Ogni singola data può essere infatti un’esperienza, qualcosa che ti arricchisce. 

A proposito di esperienza: una fondamentale per te è l’essere stata resident del Goa di Roma. 

Come avrebbe potuto non essere fondamentale? Assieme al Tenax, al Cocoricò e a pochissimi altri, il Goa è stato uno dei caposaldi del clubbing in Italia. Uno dei pochi che può dire di aver dettato le regole, invece di inseguirle. 

Eppure, oggi il Goa non c’è più. Il che potrebbe essere un non bel segnale per tutto il clubbing italiano, se un luogo così importante non è riuscito a resistere e si è trovato a chiudere.

Credo siano stati tanti i fattori che hanno portato alla chiusura del Goa. Di sicuro, è un grande dispiacere che non ci sia più.

Ma tu che giri molto, hai notato comunque una perdita d’interesse in Italia attorno al dancefloor a matrice techno e house negli ultimi anni? Ho come l’impressione che ad un certo punto sia saltato il ricambio generazionale: ci sono meno ventenni, oggi, che ascoltano techno e house. Preferiscono ballare la trap. O sbaglio?

Questo forse è vero. Ma ti posso dire che io in Italia continuo a suonare parecchio; magari meno di qualche anno fa, ok, ma ci suono parecchio. E per quanto riguarda il ricambio generazionale, proprio ultimamente vedo dei segnali molto interessanti, qui da noi. È fisiologico che ci sia stata una fase di “respiro”, ma mi pare che ci sia una nuovissima generazione di appassionati che sta iniziando a farsi vedere anche nei club, non solo nei festival. Sai, se mi guardo attorno, qui al Kappa FuturFestival strapieno di gente, penso si possa tranquillamente dire che la nostra scena sia in gran salute. 

Ci sono moltissimi stranieri, però. Ecco: quanto è stato importante quando il tuo nome ha iniziato ad assumere rilevanza anche all’estero?

Tantissimo. È qualcosa che avevo sempre desiderato, fin dall’inizio.

Io ci riprovo: una data particolarmente significativa, sotto questo punto di vista? Quella cioè che t’ha fatto capire che questo salto da dj “locale” ad internazionale si stava compiendo davvero?

Difficile rispondere. Però ecco, forse la data l’anno scorso al Printworks a Londra mi ha fatto capire che davvero stava succedendo qualcosa. Davvero stavo salendo di livello. Poi oh, io mi sento sempre la stessa, ma chiaro che suonare all’estero è una bella sensazione. Però…

…però? 

Però il mio pubblico preferito sono sempre gli italiani! E quando sono all’estero, la cosa più bella è vedere che c’è sempre un gruppetto di nostri connazionali che sono lì, mi seguono, si fanno vedere, sentire. Ovviamente adoro il pubblico inglese, pure quello spagnolo, anche quello francese è in realtà un pubblico molto appassionato anche se un po’ a modo suo… ma il pubblico italiano è quello con cui sono nata e cresciuta, ed è ancora adesso quello che amo di più.

Se riascolti i tuoi set di dieci anni fa, cosa c’è di diverso rispetto ad oggi? Ok, i singoli dischi, ovvio; ma forse è cambiato proprio qualcosa anche a livello di approccio. O magari no, eh.

Qualcosa è cambiato, sì. Oggi mi sento molto più libera. Non mi faccio problemi a tirare fuori dischi vecchi, se sento che rappresentano il mio background, che è quello della house e tech-house più minimale dei primi anni 2000. Ma a differenza di quegli anni, oggi c’è molta più libertà. 

Dici?

O forse sono cresciuta io, non lo so: non ho più l’ansia di dover dimostrare di essere qualcosa o qualcuno, di essere “brava” anche se sono una ragazza appena arrivata sulla scena, quindi mi permetto più serenamente anche dei rischi, addirittura degli errori.

Un o una collega che ancora oggi ti lascia a bocca aperta ogni volta per le bravura?

Ce ne sono tanti e tante, per fortuna. Il primo che mi viene in mente è Seth Troxler. Con lui ci si diverte sempre, sia umanamente che musicalmente. È uno dei pilastri della nostra scena. 

Una scena che ultimamente però sta flirtando sempre più col mondo della moda, col sistema del fashion. Secondo me, ti dirò, pure troppo.

Io a questa relazione sono invece favorevole. Sarà che sono una grande amante della moda: se non avessi fatto la dj di sicuro avrei provato a fare la stilista, anche se a disegnare non sono bravissima. Per un sacco di tempo, andando a suonare, mi sono tuttavia vestita in modo molto maschile: avevo paura che altrimenti mi dicessero che non ero brava, che ero lì solo per il mio aspetto, hai capito cosa intendo. Insomma: mi “nascondevo”. La libertà di cui ti parlavo prima adesso l’ho riacquistata anche nel modo di apparire, non mi faccio più insomma questo tipo di problemi. Credo non ci sia nulla di male se clubbing e fashion interagiscono fra di loro. Come in ogni contesto e in ogni relazione, ciò che conta in realtà è l’equilibrio.

Ecco, quello mi pare che ogni tanto sia un po’ così, negli ultimi tempi: soprattutto da quando il mondo del lusso, dei marchi d’eccellenza, ha iniziato ad entrare nel clubbing. Quando vedo magliette da 400 euro comparire in mezzo al dancefloor, mah, io onestamente sono un po’ perplesso. Nulla di male ad averle e indossarle, ci mancherebbe, ma diciamo che originariamente la club culture era un po’ l’antitesi del lusso, o almeno erano due storie un po’ diverse. Oggi invece si cercano un sacco a vicenda…

Chiaramente quando parlo di “moda” non mi riferisco solo ai grandi brand. Grandi brand che sì, effettivamente negli ultimi tempi puntano molto i dj del nostro giro, le nostre serate. Vero. Ma è riduttivo pensare che la moda sia solo questo. La moda è prima di tutto creatività. Capisco il tuo discorso: effettivamente, se uno guarda alle radici di tutto, l’economia del lusso non c’entra tanto. 

Di più: il clubbing nasce come qualcosa di alternativo, di controculturale.

Che può esserci ancora. Ed è qualcosa che puoi trovare in realtà anche nella moda, se vai a cercare, se ti piace andare a cercare nuove idee, nuovi nomi. Che è quello che deve sempre fare pure un buon dj, no? Vedi che tutto torna…

Foto di
Gabriele Canfora e Matteo Ortili