
Levi’s® è un marchio che non può non scaturire ricordi nella mente di chiunque, appassionati di moda o meno. Questo perché il brand americano ha sempre realizzato prodotti tanto al passo con le mode quanto duraturi, diventando quindi immortale. Il modello più riconoscibile e iconico di Levi’s è sicuramente il 501®, che quest’anno compie il suo 150esimo compleanno. Grazie anche alla sua lunga vita, il 501® non è più considerato solo un jeans, ma piuttosto un contenitore di storie.
Celebrare e rappresentare un tale heritage non è facile e per l’occasione è stata lanciata una campagna denominata “The Greatest Story Ever Worn“, all’interno della quale è stato chiesto all’artista Ian Berry, che in passato ha ricevuto commissioni da figure come Giorgio Armani e Ayrton Senna, di realizzare una speciale opera d’arte in occasione del Fuorisalone 2023.
Per “INTERNI Design Re-Evolution”, la mostra-evento organizzata dal magazine diretto da Gilda Bojardi, Levi’s ha svelato il più grande murale in denim mai realizzato, composto da un collages di 501® (dalle dimensioni di 10×6 metri) riciclati posto nel Cortile d’Onore dell’Università degli Studi di Milano. Si tratta di un progetto itinerante partito da Parigi, precisamente da Place de République, che sarà visibile a Milano fino al 26 aprile, prima di spostarsi a Madrid.
Ian Berry ha lavorato il denim per adattarlo allo spazio milanese e ha completato l’opera, denominata appunto “The Greatest Story Ever Worn“, il 17 aprile, giorno in cui è stata mostrata al pubblico tramite un unveiling party. Quest’opera non solo celebra il concetto di “RE-EVOLUTION”, da sempre nel DNA di Levi’s®, ma anche come il 501® è stato in grado di evolversi e adattarsi nei suoi 150 anni di vita, da quando veniva utilizzato dai cowboy del 1880, fino ai punk degli anni ’90 del secolo successivo. Ian Berry e Levi’s® rendono quindi omaggio a chi ha reso il 501® un pezzo di storia.
Abbiamo approfittato della presenza di Ian Berry a Milano per intervistarlo.

Il tuo interessamento nei confronti del denim è iniziato quasi 20 anni fa, nel momento in cui hai capito come un materiale indossato quotidianamente da tante persone potesse essere utilizzato per la creazione di opere d’arte. Com’è accaduto tutto ciò?
Ricordo ancora il momento esatto: ero all’università, era Pasqua e tornai a casa per le vacanze, notai come mia madre avesse riempito i miei armadi di indumenti che non mi entravano neanche più. Tra i tanti c’era una pila di jeans, ricordo ancora le diverse sfumature di denim contrastare tra di loro. Al tempo avevo realizzato ritratti di Tony Blair e Gordon Brown con l’utilizzo di quotidiani e pensavo di poter fare lo stesso con il denim. Non sapevo da dove cominciare, né tantomeno c’era un guida su come iniziare a fare arte con questo tipo di materiale, per questo motivo feci tantissimi tentativi (ed errori) all’inizio. Ho iniziato a fare ritratti di personaggi collegati al denim, come Marilyn Monroe, James Dean, Marlon Brando e Debbie Harry: studiavo pubblicità e in questo ambito ero interessato al modo in cui queste figure avevano stravolto la percezione del jeans, dal workwear al fashion, e mi piaceva anche come questo materiale si intersecasse con la pop culture. Più mettevo mano al materiale, più sviluppavo una sorta di connessione con esso. Il denim vive diversi dualismi: ad esempio, ha un appeal democratico e universale ma diventa un prodotto molto personale quando inizi a indossarlo. Negli anni abbiamo visto cambi di stile e di fit, perché il jeans si adatta in maniera unica al tuo corpo. Ha una grande versatilità. Nel mio lavoro, rappresento la vita contemporanea, quindi non avrei potuto trovare un materiale migliore, in quanto presente nella quotidianità di chiunque.
Sviluppando la tecnica, ho voluto ampliare le modalità utilizzate per mostrare l’effetto del denim, dal momento che molti non capivano che io utilizzassi proprio quello come materiale, come un pittore usa il colore. Cerco di creare quadri fotorealistici con luci e ombre, usando però diversi lavaggi di denim al posto delle pennellate. Mi sento davvero un artista solo quando le persone vedono le mie opere dal vivo, perché i dettagli non possono essere davvero apprezzati online.
Quando ero all’università, studiando per diventare art director nel mondo pubblicitario, mi era venuto in mente di creare una grossa opera che mostrasse la connessione tra l’arte e un marchio, dal momento che la mia anima era divisa tra arte e pubblicità, quindi credo di aver finalmente realizzato il mio sogno!
Come hai detto, all’inizio molti non capivano che tu usassi il denim. Come è cambiato il tuo rapporto con questo materiale, normalmente così comune a livello internazionale, da quando è diventato il tuo mezzo di comunicazione?
Non sono cresciuto come un grande appassionato di denim ma ho sempre amato il significato che questo avesse per le persone comuni. Ora però sono diventato un po’ ossessionato con il materiale, ma in maniera diversa. Amo il denim grezzo, specialmente in un bel paio di 501®.
Il jeans ha avuto un periodo di grande moda e ciò mi ha dato tanta visibilità. Quasi ogni brand di denim voleva lavorare con me e questo rendeva il tutto molto “commerciale”, quindi sono stato fortunato nel poter scegliere solo i progetti che per me avevano particolare valore. Seppur abbia dovuto anche dire dei “no”, ho avuto l’opportunità di girare il mondo e rendere il mio lavoro accessibile, quindi più vicino al concetto stesso dell’universalità del denim. Il jeans crea un sentimento di famigliarità unico verso il pubblico, al punto da portare le persone per la prima volta in una galleria d’arte o in un museo.

Per celebrare il 150° anniversario dei jeans 501®, Levi’s® ti ha coinvolto quindi in un progetto che ha toccato ora l’Italia, paese da sempre legato al denim. Hai realizzato altri progetti per il nostro paese?
Negli anni sono venuto spesso in Italia e ho creato varie connessioni. Ho realizzato diversi ritratti per Armani e Lapo Elkann, così come di Ayrton Senna. Ho lavorato con la città di Genova, ovvero il luogo che ha dato origine al termine “jeans”, realizzando un ritratto di Garibaldi al Museo del Risorgimento. Non solo per l’origine della nomenclatura, l’Italia ha giocato un ruolo importante anche per l’evoluzione del denim negli anni ’80 e ’90 grazie alle intuizioni dei principali designer che hanno sempre celebrato i 501® nel proprio lavoro.
Cosa ha guidato il processo creativo che ha portato a variare l’installazione, adattandola allo spazio milanese?
Per me tutto parte dalla storia del jeans. Senza l’aggiunta dei rivetti, il jeans non sarebbe mai diventato forte e duraturo come lo conosciamo oggi, così come non avrebbe avuto la stessa forza estetica. Da quel momento Levi’s®, i 501® e il denim in generale, sono stati reinventati da più menti e io volevo allinearmi proprio a questo concetto. Ho voluto lavorare con gli archetipi di coloro che scelgono i 501® come parte della propria espressione, anche se è stato difficile posizionarli in scala e realizzare i miei classici dettagli, considerando quanto grande fosse lo spazio di lavoro rispetto alle mie opere. La natura itinerante di “The Greatest Story Ever Worn” porta a diverse variazioni nell’opera finale, come ad esempio le parole e le sezioni rappresentate sulla bandiera e sulla biker jacket, come la scritta “Milano”.
“The Greatest Story Ever Worn” ti ha portato a collaborare con il brand universalmente più riconosciuto e facilmente associabile al denim. Avevi mai lavorato con Levi’s®? Come vi siete confrontati per concepire e realizzare quest’opera?
Avevo già lavorato qualche volta con Levi’s®, per me è sempre stato un grande onore. Ho lavorato con il Levi Strauss Museum a Buttenheim, in Germania, per un ritratto del signor Strauss stesso da esporre in modo permanente. Proprio da quel luogo ho iniziato un percorso di due anni di esposizioni museali durante la pandemia.
Negli anni ho incontrato molte persone che hanno lavorato per Levi’s®, ma un rapporto a cui tengo particolarmente è quello con Tracey Panek, la storica del brand. Ho avuto l’onore di incontrarla e vedere parte degli archivi del marchio a San Francisco, così quando ho dovuto pensare a chi sarebbe stato rappresentato nell’affresco, Tracey mi ha aiutato molto per concepire diversi punti di vista e personaggi che fossero storicamente accurati. Nei miei giorni da art director ho imparato che lavorare in un team è molto importante, lo stesso valore che ho ritrovato in questo progetto.