Lewis Hamilton ha cambiato l’immagine della Formula 1

È probabile che giovedì sera, intorno alle 20:00, vi siate imbattuti nel trailer di F1, film che uscirà a giugno con Brad Pitt nelle vesti di un anziano pilota in cerca di redenzione. Di pellicole dedicate alla Formula 1, in passato, ne abbiamo già avute. La particolarità di F1, però, è che per rendere le sequenze il più possibile realistiche, le riprese hanno avuto luogo su circuiti veri durante i weekend di gara (in buona parte a Silverstone 2023).

Se è stato possibile girare un film nel bel mezzo di qualifiche e gran premi, quando i protagonisti sono più che mai attenti a non far trasparire nulla dei segreti del proprio team, beh, i motivi principali sono due: Liberty Media e, soprattutto, Sir Lewis Hamilton. «Ci ha aperto tutte le porte per entrare in quel mondo. Non saremmo mai riusciti a fare tutto ciò senza di lui», ha raccontato Joseph Kosinski, già regista di Top Gun: Maverick. Se Lewis Hamilton ha avuto tanta premura di introdurre il personale di scena nel vero mondo della Formula 1, è perché tra i produttori del film c’è anche lui. Aver scalfito la sacralità del paddock avrà infastidito più di qualche fan, ma non dovrebbe sorprendere chi conosce Lewis Hamilton, un uomo che ha costruito la sua carriera e la sua immagine sul rompere le convenzioni della Formula 1.

Il trailer di F1, in maniera per nulla casuale, è uscito nella settimana in cui è ripartita la Formula 1, alla vigilia dell’esordio ufficiale di Lewis Hamilton in Ferrari. Riuscire a vincere l’ottavo mondiale e superare Schumacher come pilota più titolato di sempre nella scuderia più nobile di tutte, a digiuno ormai dal 2007, proietterebbe l’inglese in un’altra dimensione. Ma per quanto Hamilton sia ossessionato dalla vittoria, e il matrimonio con Ferrari sembra un successo a prescindere per via della grandezza delle due entità in questione, la sua legacy già di per sé è unica.

Lewis Hamilton, in questi anni, è stato una figura così magnetica e così innovatrice che è il suo stesso sport ad essere cambiato nella sua direzione.

Fino a qualche anno fa, se da appassionati aveste chiesto ai vostri conoscenti cosa ne pensassero della Formula 1, vi avrebbero risposto che si trattava di uno sport noioso, buono solo per abbioccarsi la domenica dopo pranzo mentre una ventina di auto giravano intorno per un paio d’ore. Una risposta superficiale ma che tradiva l’intimità necessaria ad appassionarsi di Formula 1: era necessario essere dei veri fan, conoscere bene certe dinamiche, per godere appieno di uno spettacolo che a molti risultava irricevibile.

Oggi la situazione si è ribaltata: chi l’avrebbe pensato che persino Günther Steiner, ex team principal della Haas, salito alla ribalta grazie alla serie Formula 1: Drive to survive, sarebbe un giorno diventato una celebrità? La rivoluzione che ha portato la Formula 1 a trasformarsi in uno spettacolo glamour è partita ormai otto anni fa, quando Liberty Media ne ha rilevato la gestione da Bernie Ecclestone e l’ha stravolta dalla testa ai piedi.

È stato uno svecchiamento necessario per il modo in cui si è evoluto lo sport. Per dare una dimensione dell’impatto di Liberty Media, basti sapere che fino al 2016 i social network per la F1 praticamente non esistevano: nel 2017, al primo anno con la nuova gestione, i canali social della Formula 1 sono cresciuti del 54,9%. Secondo un comunicato stampa della stessa Liberty Media nei sette anni precedenti al loro arrivo la Formula 1 aveva perso 200 milioni di telespettatori, annoiati da una competizione in cui il dominio di RedBull prima e Mercedes poi non lasciava molto spazio al divertimento.

Beninteso, la fanbase della F1 era vasta e solida ben prima dell’arrivo di Liberty Media, ma la società del Colorado è riuscita a estenderla anche oltre le aspettative, specie quando la serie Formula 1: Drive to surviveè diventata un fenomeno mondiale.

In un processo del genere, poter contare su una figura come Lewis Hamilton ha sicuramente agevolato i piani di Liberty Media. Quando gli americani sono diventati padroni del circus, il profilo Instagram dell’inglese aveva più follower del canale ufficiale della Formula 1. Ma se è vero che i numeri sui social sono un parametro valido fino a un certo punto, basta ripensare alle differenze tra Hamilton e il paddock dell’epoca per accorgersi della direzione che ha preso questo sport negli ultimi anni. 

Da una parte Hamilton è stato la stella polare che ha fatto capire l’indirizzo verso cui sviluppare la nuova Formula 1: farla diventare uno show di respiro globale, sempre attento a coinvolgere le figure e i fenomeni più in voga. Rendersi spendibili ben oltre la pista un vero sport-intrattenimento più che un semplice sport (i detrattori di Liberty Media direbbero un’americanata).

Dall’altra è stato l’espediente con cui ampliare il proprio bacino d’utenza. In un certo senso, l’inglese è stato uno degli asset che ha spinto Liberty Media a puntare sulla Formula 1, proprio perché grazie alla sua popolarità avrebbe permesso di aprire nuove porte.

Hamilton aveva tanti interessi al di là della Formula 1, amava il mondo della moda e della musica, aveva una vita mondana più vistosa e meno “europea” dei suoi colleghi, partecipava già all’epoca ai MET Gala (di cui quest’anno sarà co-presidente), oltre ad essere amico di Kanye West (il quale di lui diceva «io e te ci assomigliamo molto», una dichiarazione che suona un po’ sinistra per come conosciamo Ye oggi). Non voleva proprio somigliare all’ambiente che lo circondava: «Ci sono piloti che vivono solo per i motori e quando smettono non hanno altro. Io sono molto consapevole del fatto di stare creando un marchio. Non sono solo uno che corre in macchina, per cui lavoro molto fuori dal circuito della Formula 1, vado in televisione», aveva dichiarato a Rolling Stone nel 2017.

Un’esibizione del proprio lifestyle quasi provocatoria, ma al tempo stesso una rivendicazione della propria diversità, se si pensa che non esiste nessun altro con il suo background nel paddock. La Formula 1 è un ambiente estremamente elitario, riservato ai bianchi e a chi riesce a godere della disponibilità economica necessaria per emergere. Hamilton, invece, non solo è il primo nero della storia di questo sport, ma viene anche da una famiglia di estrazione popolare: «Mio padre ha fatto di tutto per sostenere la mia carriera. Era impiegato in una ditta di distributori automatici di bevande e, appena finiva il turno, correva a fare un altro lavoro. A un certo punto, ha dovuto fare quattro lavori contemporaneamente perché io potessi correre», ha raccontato nella stessa intervista.

Rompere gli schemi attraverso la sua immagine, ostentare la sua diversità – anche attraverso la sua blackness – è stato quasi una dimostrazione di superiorità verso un ambiente che nella pratica non permette quasi mai di emergere a quelli come lui. 

Da un punto di vista comunicativo, la Formula 1 era totalmente distante da Hamilton, più indietro potrebbe dire qualcuno. Ecco perché Liberty Media ha voluto portarlo nella sua direzione. 

Per lui, d’altra parte, la svolta del circus è stata un’occasione per espandere ulteriormente il proprio status. Come ha scritto Federico Principi in occasione del suo settimo titolo, Hamilton ha sempre avuto un grande fiuto politico. Lo dimostrò quando, nel 2013, lasciò McLaren per Mercedes, in vista dei cambi di regolamento dell’anno successivo, ma anche nella sua capacità di stringere le mani giuste al di fuori della pista, così come nel cavalcare la nuova ondata di popolarità della Formula 1 post 2017.

La creazione di contenuti, il raccontarsi, è un aspetto che ossessiona sempre di più il mondo dello sport, che si tratti di club, scuderie o singoli atleti. Hamilton ha sempre curato questo aspetto, che però a un certo punto si è rivelato utile anche a legittimare i propri successi.

Nei primi anni con Liberty Media l’egemonia di Mercedes era indiscutibile, nonostante Ferrari iniziava a dimostrare qualche velleità di vittoria. La superiorità delle frecce d’argento, però, si rivelava inscalfibile anche grazie alla continuità garantita da Hamilton, che forse non avrà avuto i picchi di altri talenti come Verstappen o Alonso ma ha avuto una base di prestazioni impareggiabile: nessuno ha dimostrato la sua costanza, la sua capacità straordinaria di ottenere il massimo, e a volte anche di più, anche in weekend in cui, teoricamente, avrebbe dovuto soffrire.

Nonostante ciò, l’accusa di aver goduto di una vettura troppo più veloce delle altre, e quindi di non aver avuto concorrenza, ha sempre pungolato il suo orgoglio. Ecco perché Hamilton ci ha sempre tenuto a ribadire i propri meriti: creare la narrazione del goat – ognuno ha il proprio punto di vista, non è peregrino definirlo così ma ha senz’altro motivazioni convincenti anche chi sostiene il contrario – è stato funzionale sia a lui sia a chi, in quel momento, aveva necessariamente bisogno di un traino con cui aprire il circus all’esterno. Sono sempre le grandi storie a farci avvicinare alle cose a cui prima non prestavamo attenzione.

E poiché non può esistere, in Formula 1, storia più grande del pilota col maggior numero di titoli che si mette al volante della vettura più gloriosa, è facile capire perché Ferrari ed Hamilton, prima o poi, fossero destinati ad incontrarsi.

Vincere nel motorsport è complicato, non dipende solo dal pilota. Dall’anno prossimo i cambi di regolamento potrebbero aprire ulteriori spiragli per Ferrari. Hamilton però avrà 41 anni. Trionfare a quell’età, su un marchio con il retaggio del cavallino rampante, raggiungere il record assoluto di titoli vinti e aggiungere a tutto ciò il portato di ciò che ha saputo fare l’inglese anche fuori dalla pista – non solo con la sua immagine, ma anche grazie alle battaglie per l’inclusione verso le quali non si è mai tirato indietro – gli permetterebbe davvero di sedersi allo stesso tavolo dei vari Michael Jordan e Mohamed Alí. È questa la posta in gioco dell’avventura di Hamilton in Ferrari.

Di certo, da quel che ha raccontato nell’intervista al Time, che gli ha dato la copertina di marzo, darà tutto sé stesso per farlo:

«Non osate compararmi con nessun altro. Sono il primo ed unico pilota nero della storia. Io sono diverso. Non comparatemi con altri piloti quarantenni del presente o del passato, perché loro non sono come me. Sono affamato, non ho una moglie e non ho figli. Sono concentrato solo su una cosa, ed è vincere».