L’Italia è un Paese per grandi festival?

Come ogni settembre, si chiude la stagione dei festival e delle rassegne musicali italiane, quest’anno segnato, ancor più che gli anni scorsi, da un generale malcontento da parte del pubblico che, questi eventi, li vive e li mantiene vivi.

Partiamo dal presupposto che una rassegna di concerti non è un festival: un festival è un’esperienza immersa e totalizzante, della durata di 3/4 giorni, dove dal mattino alla sera si ha la possibilità di ascoltare musica, partecipare a talk e scoprire un nuovo luogo. Il festival è la vacanza per appassionati di musica, che scelgono dove andare per la line up, ma anche per le offerte della città ospitante.

In sostanza: un festival non è un calendario mensile di concerti. 

Tolte le facili lamentele per questioni futili, questa è stata l’estate dove più sono emersi gli oggettivi problemi della gestione di queste rassegne di concerti. Probabilmente sarà perché il 2023 è il primo, vero, ritorno di una normalità tanto agognata dopo due anni di stop e di drammatiche conseguenze sugli eventi live, sarà che il pubblico è più sensibile e attento a come investe il proprio tempo e il proprio denaro, saranno le peggiorate condizioni, ma i temi di sicurezza e benessere all’interno dei cosiddetti “festival estivi” non può e non deve più essere ignorato.

Per me un esempio è stato il live dei Blur di Lucca. Le dimensioni del pit (troppo sovradimensionato), le gradinate sovraffollate di persone che avevano pagato profumatamente per stare in piedi ammassate e avere il palco nascosto dagli stand della birra, l’enorme torretta al centro del palco, dietro il mixer che non supportava alcuno schermo, un corridoio che separava noi “privilegiati del pit” da chi aveva comunque pagato un biglietto per essere nel parterre, obblighi di acquisto di 20 euro per 5 token: tutto questo insieme è stato impossibile da ignorare.

Testimonianze simili, se non peggiori, arrivano da tantissimi altri festival e concerti tenutisi in Italia, addirittura da un live dei Negramaro a cui persone non sono mai riuscite ad arrivare.

E allora è necessario fare un punto e chiedersi: perché le cose non stanno funzionando? Quali sono le problematiche più gravi che dovrebbero essere affrontate in modo concreto e serio da chi di professione si occupa di promuovere la musica in Italia?

Ma soprattutto: in Italia è possibile avere un vero e proprio festival, come quelli che siamo abituati a vedere all’estero?

Innanzitutto, la sicurezza. Che sia un festival o una rassegna, teoricamente si dovrebbero rispettare delle regole per garantire il benessere del pubblico. Ma, troppo spesso nell’ultimo anno, sono capitate situazioni dove queste non venivano rispettate, seppur fossero all’apparenza banali. L’esempio più grave è quello del concerto di Springsteen a Monza, dove le persone hanno impiegato più di due ore per uscire dall’area concerto, in un’esperienza che raccontano essere stata tra il terrificante e il surreale. 

Ricordo bene quel passaggio sotto al tunnel, ero stata a sentire i Sigur Rós nel 2016 (anno dove le tragedie di Bataclan e piazza San Carlo ancora erano ben impresse nel pubblico). La tensione si percepiva altissima, le persone hanno cominciato a scavalcare muretti, a cercare di sviare quel tunnel, a essere spaventate dall’ammassarsi delle persone. Non sono più tornata a Monza, perché non volevo ripetere l’esperienza.

In questi casi la sicurezza viene affidata al buon senso del pubblico che, almeno fino a oggi, cerca di trattenere il malcontento, nascondere l’ansia e le paure (se succede qualcosa qui, morirò schiacciato o calpestato?) e si sforza di non dare in incandescente. È solo grazie alla buona volontà della maggior parte del pubblico, che cerca di non scavalcarsi a vicenda o aizzare risse, se non ci sono stati ancora incidenti gravi. Perché tutti sappiamo che basta un niente, per provocare un disastro.

Non bisogna, o forse è necessario in questo periodo storico dove la nostra memoria dura il tempo di una story di Instagram, ricordare del Bataclan e dei relativi serrati controlli a ogni evento, o di Piazza San Carlo, dove è bastato un nulla per provocare 1 morto e più di 1500 feriti, o il disastro della Love Parade, accaduto proprio sotto un tunnel?

Più di due ore per uscire da un’area concerti non può essere definito un deflusso in sicurezza. Rimanere bloccati tre ore in un parcheggio fuori dall’Ippodromo perché in un’area di 1.5 km si sono appena conclusi due live da 80mila persone non è vivere un’esperienza di sicurezza.

Sicurezza significa che le persone non solo siano sicure all’interno dell’area concerti, ma che possano uscire in modo rapido e altrettanto sicuro. 

Abbandonare il pubblico a fine concerto, perché tanto è finito tutto, è sintomatico di un problema, che forse va addirittura oltre gli organizzatori e include anche le amministrazioni locali.

La questione mezzi pubblici è una nota molto dolente in Italia: all’estero in occasione dei festival il trasporto pubblico viene rafforzato in modo che chiunque abbia più di una possibilità per allontanarsi dalla zona e rientrare di notte. Capita qui che spesso i mezzi che dovrebbero esserci non ci sono per i motivi più svariati, i taxi sono congestionati, la metro chiude e l’unico modo è andare in auto o trovare un passaggio. E con migliaia di auto che devono uscire da un parcheggio, se si sovrappongono due eventi diventa un incubo da bollino nero autostradale.

Non è colpa degli organizzatori se il trasporto pubblico funziona male. E sarebbe auspicabile che le amministrazioni investissero di più su questi eventi, perché creano introiti per la città stessa in primis.

Poi arriviamo ai token. Come funzionano è realtà più che nota: le code infinite che provocano sono una triste realtà. Inoltre, l’obbligo minimo di ricarica e il valore mai corrispondente ai prezzi di vendita di cibo e bevande sono le due problematiche più gravi.

Il Post ha raccolto in un articolo le risposte di tanti organizzatori a riguardo, e, tra queste, si dice che i token vengano usati perché gli organizzatori stessi in sostanza non si fidano delle persone a cui appaltano il food&drink. La mancanza di un rapporto di fiducia tra appaltatori e organizzatori innanzitutto non dovrebbe interessare il pubblico, sono questioni che si risolvono internamente (se mi viene detta una cosa del genere posso solo pensare che nel mondo del lavoro se non ti fidi dei tuoi collaboratori ne trovi altri, ma chiaramente qui ci sono questioni molto più profonde), e in ogni caso non può essere la giustificazione a obbligare i partecipanti a scambiare importi di 10 o 20 euro, se l’organizzatore vuole solo “tenere traccia effettiva delle vendite”.

Perché rimane l’obbligo di acquisto di pacchetti di token?

La risposta “tanto un panino e una birra te li fai” non è corretta: chiunque deve avere la possibilità di acquistare ciò che vuole, senza obblighi. Di fatto, se voglio solo una bottiglietta d’acqua devo essere libera di poterla acquistare, senza dover spendere 10 o 20 euro. Indipendentemente dai migliori propositi con cui si fa questa scelta, le persone in questo modo si sentono prese in giro.

Si vuole dare la possibilità anche a chi non dispone di carte di credito di pagare: in un sistema dove si sono comprati biglietti online, dove spesso le casse per velocizzare accettano solo bancomat per lo scambio token, perché non andare verso una direzione cashless? Non vorrei fare quella che guarda all’estero, dove ogni persona ai bar è munita di pos, e si agevola il pagamento contactless direttamente presso chi ti serve le bevande, ma se il problema sono le persone che non possiedono un bancomat, si potrebbero tranquillamente avere casse dedicate al pagamento in contanti.

Eppure i token non sono lo strumento del demonio. Pare assurdo ma è così, possono essere davvero utili, così come i braccialetti, se venissero usati in modo etico.

Parlando con un organizzatore, che token e bracciali li utilizza già, e in modo corretto, mi ha confermato che i token effettivamente permettono al food&beverage di smaltire le code: senza il cosiddetto scontrino parlante (es:“birra chiara” oppure “birra rossa”) il pubblico ha maggiore possibilità di scegliere sul momento tra le varie disponibilità del menu, e i fornitori non hanno problemi di scontrini da defiscalizzare nel caso si esaurisca un prodotto.

I braccialetti, inoltre, sono uno strumento molto interessante, perché consente agli organizzatori di avere un resoconto preciso e dettagliato delle consumazioni effettuate, e permette una pianificazione migliorativa sull’offerta di food&beverage per l’anno seguente, sapendo le preferenze del pubblico. 

Anche qui, la parola d’ordine è etica: il costo di produzione di un bracciale è elevato per l’organizzatore (si va da 1 a 1.5 euro a bracciale), e quest’ultimo può decidere se sobbarcarselo o se caricarlo sul cliente finale. La seconda soluzione è quella adottata nella maggioranza dei casi, e qui il problema è di comunicazione: caricare i costi sul cliente finale, senza pre-allertarlo se non in cassa al momento del pagamento, crea enorme malcontento. 

I costi di attivazione per lo spettatore, scalati alla prima consumazione, vanno da 2 a 2.5 euro, a cui spesso si aggiunge il costo bicchiere riutilizzabile, altri 2 euro in media. A conti fatti, una birra può arrivare a costarti 12 euro

La prima ricarica obbligatoria di 20 euro molto spesso basta soltanto quindi per una consumazione, e spesso il residuo nel bracciale non può essere scambiato in denaro, se meno di 5 euro. Anche la pratica di restituzione del residuo scoraggia chi ci prova: bisogna, a fine evento, aspettare il momento in cui apre la finestra temporale per fare richiesta nella sezione dedicata e attendere che vengano restituiti i soldi sulla carta di credito, nel giro di qualche giorno. A volte per 5 euro si preferisce rinunciare.

Si potrebbero trovare soluzioni molto appetibili, per non creare malcontento, a partire dalla comunicazione: se si comunica al pubblico che il bracciale ha un costo, ma che si può tenere come gadget a fine evento, le persone saranno già meglio disposte all’acquisto, oppure si potrebbero caricare i costi di produzione su sponsor che possono brandizzare i bracciali, e quindi diventare un’ottima soluzione di marketing e di guadagno.

Sono tutte soluzioni proposte da chi, questi eventi, li fa con token dal valore di 1 euro senza obbligo minimo, e bracciali che non gravano sul pubblico e con cui si possono ricaricare anche 2 euro (esperienza provata in prima persona). Le alternative quindi ci sarebbero, ma sono sempre più complesse del costringere il pubblico, che “tanto ormai è già lì”, a spendere la somma che imponi di pagare. Tanto, prima o poi, ti verrà sete.

Terzo punto: food&beverage. In un mondo dove sostenibilità è diventata la parola da usare in ogni descrizione di evento, l’acqua viene trattata spesso e volentieri al pari della birra: qualcosa che, se non ti va di bere, non compri. Non è così semplice: l’acqua viene ritirata all’ingresso o viene tolto il tappo (sì, non c’è bisogno di spiegare a chi già va ai concerti che c’è il trucco del tappo nascosto, spesso ritirano l’intera bottiglietta), quindi se vuoi dissetarti, devi comprarla.

La questione acqua è un punto per me fondamentale, perché attualmente il costo varia dai 3 euro (ormai lo standard) ai 6 euro di Lucca, equivalenti a 1 token e mezzo, dove 1 token valeva 4 euro, ma che per i più è lievitato a 20 euro, cifra minima d’acquisto.

L’acqua è il modo più semplice per chi organizza per raccogliere quel cuscinetto economico aggiuntivo e spesso per il pubblico finisce per diventare la cosa a cui si rinuncia per non “buttare via 20 euro di token”. E si pensa che si può resistere fino a fine concerto, salvo poi stare male. “Scemo tu che non bevi e stai male”, potrebbero dire. O, ancora meglio, si potrebbe pensare, come già succede, a creare dei punti acqua, dove con il “bicchiere sostenibile” che spesso viene venduto ci si può rifornire di acqua gratuitamente. Succede già, al Todays Festival e al Sonic Park. Se le realtà di portate minori rispetto ai grandi eventi riescono a farlo, non metto in dubbio che anche i grandi organizzatori, che hanno più disponibilità, possano riuscirci. Sarebbe un ottimo obiettivo per la stagione 2024.

Anche sull’offerta di cibo, se continuiamo a parlare di come dovrebbe essere un “festival”, la strada è ancora molto lunga da percorrere. È necessario, prima di tutto, fare una premessa. Ho chiesto esplicitamente a Gianluca Gozzi, direttore del Todays festival, di spiegarmi le normative per cui acqua e cibo vengono ritirati all’ingresso degli eventi estivi. Chiariamo quindi una volta per tutte che no, gli organizzatori non tolgono il cibo perché vogliono obbligarti a mangiare solo quello che ti danno loro, ma perché la normativa italiana, che è tra le più stringenti in fatto di eventi di questo genere rispetto a tutta l’Europa, impedisce l’ingresso di acqua e cibo che non siano tracciabili, altrimenti si rischia, secondo l’ASL, la contaminazione.

Quindici minuti di chiacchierata sulle normative degli eventi in Italia, e io stessa mi sono scoraggiata al pensiero di organizzare qualcosa. Immaginate chi all’effettivo deve occuparsi di rispettarle tutte quante.  Ma, come sempre in Italia, queste normative vengono interpretate più o meno liberamente e i controlli vengono effettuati in modo più o meno serrato. È poi a discrezione degli organi predisposti ai controlli all’ingresso (polizia, carabinieri o chi per loro), capire se un certo cibo, per esempio un pacchetto di cracker per celiaci, non costituisce una infrazione, e permettere di portarlo all’interno dell’area.  Quindi se non vi fanno portare dentro il panino, potete incolpare la normativa italiana, che andrebbe cambiata.  Non è un torto che gli organizzatori vi stanno facendo perché vogliono rubarvi i soldi.

Però. Prima di tutto il cibo ha un rincaro che va oltre il normale sovrapprezzo che ci si aspetta per questi eventi, anche e soprattutto grazie ai token e al loro valore che cambia ogni volta, che creano confusione nel pubblico che non sa più quanto sta effettivamente pagando. 

Ma, se vogliamo sorvolare sul sovrapprezzo perché “gli organizzatori da qualche parte dovranno pur guadagnare” (ricordiamo: si guadagna in percentuale su biglietti, acqua, cibo, parcheggio e merchandising), bisogna soffermarsi sull’offerta di cibo. In generale pare quasi che si sia rimasti a uno stereotipo anni 80 del rocker che va al concerto a farsi panino con la salamella e birra. Perché questa, spesso, è l’offerta che si trova: hamburger, patatine, panini, qualche eccezione vegetariana che finisce quasi subito, quasi nulla per vegani. 

A volte si trovano food truck gestiti da 2/3 addetti, impreparati a gestire flussi di persone affamate e irritate. Le code si allungano, la tensione sale, il benessere scende, si pensa sempre di più ai soldi buttati per stare in fila per un cestino di patatine invece di essere a godersi il concerto. Certo, è impossibile soddisfare le intolleranze e allergie di ogni singola persona, ma si può pensare a fare un’offerta di cibo che sia adeguata per la maggior parte delle persone. Come giustamente mi diceva un amico che organizza uno di quei festival minori, siamo disposti a pagare anche due euro in più, se so che la birra è buona e non me la versi da una lattina di Peroni calda, o se mi permetti di comprare un panino vegetariano e non mi lasci senza opzioni. 

Siamo un pubblico attento, anche a cosa mangia e a cosa beve, non siamo più quell’immagine stereotipata di cui parlavo sopra. Quindi perché in molte situazioni italiane ci si sta allineando alla media europea di sostenibilità con acqua gratuita e ampia offerta di cibo, spesso con eccellenze locali, e in questi contesti dove il pubblico è così numeroso no? Per il guadagno. “Gli organizzatori fanno le cose per guadagnare, mica per fare contento te”. Ho letto. Questo nessuno lo ha mai messo in dubbio, sappiamo che i festival e i concerti, soprattutto di portate enormi, devono prima di tutto portare guadagno a chi li fa. Ma se ci sono organizzatori, addirittura in Italia dove pare impossibile, che riescono a guadagnare e portare avanti rassegne senza dover obbligare persone a importi minimi di spesa per guadagnare facilmente su bottigliette d’acqua, forse il problema non è del pubblico troppo pretenzioso. E sono convinta che, in un’ottica lungimirante, si guadagna più ad avere un pubblico soddisfatto che ritorna, invece che una massa malcontenta che spergiura che una cosa del genere non la rifarà mai più. Se sei soddisfatto e non ti senti preso in giro sei più portato a spendere, lo fai con più leggerezza, e spendi anche più di quanto messo in conto. Il modello festival come business”, allo stato attuale, sta portando effetti contrari a quelli previsti.

“Tanto tu parli ma poi ci vai lo stesso”. Certo, che ci vado, e che continuerò a farlo. Amare la musica e andare ai concerti non significa che non si possano vedere le oggettive problematiche, o non se ne possa parlare, anche solo per comprendere meglio le dinamiche che portano a questa situazione di generale malcontento. Anzi, se ne deve parlare, se si vuole anche solo sperare di poter migliorare le cose. Vivere una bella esperienza ne va a beneficio di tutte le persone presenti, e l’auspicio è che gli organizzatori di queste rassegne affrontino in modo concreto le questioni per risolverle nei limiti del possibile.

“Tanto se continui a comprare i biglietti loro continueranno ad alzare i prezzi”, “la musica non è per tutti”, “la musica è per chi se la può permettere”. La musica è democratica, è la cosa che unisce tutti, ovviamente finanze permettendo, e c’è chi risparmia mesi per comprare biglietti come quello per il Primavera Sound. È assodato che i prezzi si siano alzati dopo il covid, e chi spende i soldi spesso lo fa anche per aiutare un settore che è stato ferocemente colpito dalla mancanza di aiuti in Italia. Ma questo non significa che vogliamo anche farci prendere in giro con prezzi gonfiati agli stand o pit sconfinati, allargati per fare molta più cassa a discapito di chi, avendo acquistato un biglietto “normale” (dove normale spesso è 70 euro), non vede e sente nulla.

Quest’anno più che mai c’è stato il problema del pit, che spesso diventa l’unico modo per poter assistere al live. Normative sui decibel non giovano di certo a chi sta troppo in fondo, ma forse la questione è nata anche dall’aver chiamato artisti che hanno un seguito troppo ampio per il tipo di struttura che li ospita, penso a The Weeknd, per esempio. Forse il pit dovrebbe rimanere quella zona ristretta ed esclusiva, in modo da permettere a chi sta già pagando un prezzo alto per un parterre, di poter almeno sentire.

Ribadisco che siamo disposti a pagare di più per assistere a un “festival”, proprio consci del fatto che la situazione dopo due anni di pandemia non poteva magicamente risolversi, ma non siamo disposti a pagare di più per sempre meno offerta, sicurezza o addirittura per non sentire nemmeno la band che stiamo ascoltando. Venire trattati come massa e non come persone da rispettare porta più guadagno nell’immediato, ma si perde rispettabilità e autorevolezza nel lungo termine. Si torna dove si sta bene, dove ci si sente parte di qualcosa, se parliamo di festival.

“Non portare problemi, portaci soluzioni!”. Io non sono addetta ai lavori, non ho verità assolute da vendere né soluzioni facili, anche perché sono convita che le soluzioni, quando troppo facili, non siano tali. Eppure, di soluzioni semplici e paternalistiche, ne ho lette davvero tante. “Boicottare” è la prima risposta, e sicuramente la meno costruttiva ai fini di un discorso migliorativo. Prima di tutto perché, sebbene ultimamente vada molto di moda rispondere a tutto con il grido “Boicottiamo!”, in realtà non porta a nulla (e spoiler: nessuno di coloro che lo scrive lo fa poi per davvero). Ma ci offre uno spunto di riflessione: perché dobbiamo rimetterci sempre noi, privandoci di qualcosa che amiamo, quando invece gli organizzatori potrebbero assumersi le loro responsabilità e migliorare la qualità dei servizi che offrono?

Porto il caso Primavera Sound 2022: in dieci anni di festival mai mi era capitato, a Barcellona, di bere una birra in 7 ore e mezza. Il pubblico era frustrato, il nervosismo alle stelle. Chi era alla prima edizione diceva “Ma mi dicevate che era diverso dall’Italia, che qui non si faceva la coda, che si stava bene!”. Un sogno infranto? No. Ci sono stati disagi e sappiamo anche le motivazioni: troppe persone e una logistica di festival che non ha funzionato come previsto, col risultato di un sovraffollamento nelle aree principali, oltre a un personale non pronto a gestire la quantità di persone. La gogna mediatica è arrivata immediatamente, così come immediate sono state le corse ai ripari: in meno di 24 ore il festival ha fornito 3 fontanelle di acqua aggiuntive, e bottiglie di acqua gratis in tutta la zona spiaggia e agli accessi del festival. 

E stiamo comunque parlando di una eccezione più unica che rara, in vent’anni di festival. Le persone sono rimaste molto soddisfatte della rapidità con cui si è risolto il problema, e quello che era stato un disastro è diventato un esempio di ottimo problem solving.

La seconda frase che ho letto spesso è “Fatevi furbi, cominciate ad andare alle cose illegali e vedete come si dimezzano i costi”: una sentenza un po’ paternalistica, perché sembra che solo chi è davvero “intelligente” sa dove andare e che concerti frequentare. Un po’ come chi dice “beh se ascoltano [inserire artista che non vi piace] un po’ se le meritano queste cose”. Che può essere ironico o meno, ma apre un ulteriore spunto di riflessione. 

Non esiste un pubblico di serie A e di serie B. Possiamo discutere per ore e giorni sui gusti musicali di ciascuno o su quanto un gruppo sia mediocre o meno, ma su due cose non si deve mai discutere: la sicurezza e il benessere. Che tu sia fan dei Negramaro e dello sconosciuto gruppo di nu jazz, devi poter vivere l’esperienza del concerto senza che sia fonte di stress e disagio su più fronti.

Così come “andare all’estero”, non è la soluzione del problema: vogliamo provare a migliorare le condizioni in Italia, anche per chi non può permettersi (per tempi, costi e quant’altro) di farsi il weekend fuori ogni volta che suona una band, o, banalmente, perché magari avere qualcosa di bello sotto casa fa piacere. Siamo persone già abituate a spostarci all’estero quando vogliamo, dire “andate fuori a sentire i concerti” non risolve la questione. Ho sorriso leggendo un articolo che invitava ad andare a un festival a Helsinki, dove il costo delle birre è uguale all’Italia, ma non ci sono i token.

Mi sembra di sentire una versione del detto sulle brioche: “se non gli va bene in Italia, che se ne vadano all’estero!”, salvo poi lamentarsi che qui non passano le band, che qui la situazione diventa sempre più stagnante, e che dall’Italia si fugge sempre di più. Se non c’è domanda non c’è offerta, e già la domanda è poca, in questo modo si alimenta solo il discorso nella sua spirale di negatività.

L’estero è utile, bisogna andare a vedere i festival fuori di qui, per imparare, e perché no, copiare le cose da migliorare. Noi italiano siamo bravi a prendere le cose da fuori, quando ci interessano, perché non farlo anche dai festival?

Un primo passo verso delle soluzioni, che, ripeto, non saranno sicuramente semplici, sarebbe quello di portare il discorso a chi queste cose, le fa. Dagli organizzatori alle amministrazioni, fino al governo che dovrebbe occuparsi di sostenere e promuovere la cultura (perché, ne vogliate o meno, con la musica si fa non solo intrattenimento, ma anche cultura).

Di fronte a 50mila persone insoddisfatte, che lasciano commenti negativi sotto ogni post social, che cercano disperatamente di far sentire che c’è qualcosa che non sta funzionando, ci volteremo nuovamente dall’altra parte fingendo di non sentire o decideremo di fare qualcosa?

Il detto vuole che non c’è peggior sordo di chi non vuole sentire, ma qui di fronte a un numero che potrebbe riempire un’area concerti, diventa sempre più complesso fingere che vada tutto bene e cercare sempre nuove persone che non sono consapevoli dei problemi. Anche perché le voci girano, e il passaparola può essere la migliore o la peggiore pubblicità che esista. Il pubblico si sta allontanando sempre di più da quelle realtà che vedono l’offerta musicale come puro business, sono alla ricerca di qualcosa che li faccia sentire parte di un’esperienza unica. 

Una migliore offerta di food, possibilità di accedere a punti acqua, utilizzo etico di token e bracciali, maggiore sicurezza nel deflusso. Offrire un servizio che sia adeguato al prezzo che il tuo pubblico sta spendendo. Si può lavorare e si deve migliorare in questo senso, e qualche piccolo passo si sta facendo.

Vincenzo Barreca, fondatore di Ypsigrock, parlando di possibili soluzioni, mi ha spiegato come il FUS (Fondo Unico per lo Spettacolo) si sia aperto anche ai festival, segnale che si sta aprendo pian piano un sempre maggiore interesse anche da parte delle istituzioni. Un ulteriore passo avanti sarebbe quello di facilitare i processi organizzativi, e offrire aiuti economici o fondi ai giovani, che hanno idee molto interessanti, ma che spesso si trovano in difficoltà nel cominciare. Percepire nuove idee e foraggiarle sta nell’interesse di tutti. Anche economico.

Ma quindi, l’Italia, non è un paese per grandi festival? Un modo etico per vivere i festival, senza che (e qui cito un commento che ho letto) “veniamo trattati come atm con le gambe”, può esistere? Può esistere, in Italia?

La non-notizia dell’estate è stata la soffiata riguardo all’approdo del Primavera Sound a Torino, che ha alimentato le domande sulle possibilità di fare questi grandi festival in Italia. Mi piacerebbe che il Primavera sbarcasse in Italia per dimostrare che un sistema senza token, cashless, con app che gestisce dall’ingresso fino all’acquisto di birra (che puoi spillarti da solo), può esistere anche qui, che non è un’utopia. Ma sarebbe bello rendersi conto che non abbiamo bisogno che arrivi il Primavera Sound, per capirlo e metterlo in pratica.

Anche perché eventi di spicco a livello internazionale, grandi festival di richiamo per la comunità di appassionati, ci sono, basti pensare al Kappa Futur festival. È un format dedicato a uno specifico genere che funziona, senza nulla da invidiare ai colleghi esteri. Quindi, se qualcuno riesce a creare qualcosa di grande, l’opportunità di fare un grande festival al pari di un Glastonbury, c’è?

Parlando con Gianluca Gozzi del Todays ci siamo soffermati sul paragone tra estro e Italia, proprio riguardo a questi grandi festival dai numeri importanti: in Italia manca la cultura musicale adatta a creare un mercato florido e funzionante, e mancano le strutture adeguate.

Quindi, in sostanza, chi organizza lo fa con le disponibilità che offre il territorio, sulla base di un mercato che non è al pari di quello estero, e ancora con una concezione che funziona meglio un grande nome che porta tanti numeri, per un guadagno immediato a discapito del lungo termine. Parte del problema siamo proprio noi: la mancanza di cultura musicale, una frazione sempre più superficiale che non contribuisce a tenere saldo il mercato. Ma, sul pubblico, forse è necessaria una riflessione a parte.

Nella nostra chiacchierata, Barreca ha sottolineato come il compito di chi organizza è anche dare un’offerta musicale che possa aiutare le persone a scoprire nuova musica, e nuove realtà. Non dobbiamo dimenticare che il festival arricchisce, non solo a livello economico le città che li ospitano, e tutte le realtà territoriali, ma le persone stesse che vi partecipano, prima di tutto personale e culturale.

Una filosofia di festival che permette alle persone di stare bene e scoprire nuova musica, nuovi luoghi, nuova cultura, è la soluzione più etica e vincente a cui si possa pensare.

Abbiamo esempi di festival che noi consideriamo minori, ma che a tutti gli effetti hanno un richiamo internazionale, che si basano su una filosofia di etica e sostenibilità dove l’esperienza del partecipante è centrale. I cosiddetti boutique festival. Spesso in location d’eccezione, con soluzioni di accomodation come il campeggio incluso o nei pressi, con un’offerta di food e drink che raccoglie il meglio del territorio e lo esalta, in una situazione di poche migliaia di persone che si trovano immerse per un weekend in una realtà che le fa sentire parte di qualcosa, ma soprattutto li fa uscire dalla loro dimensione quotidiana. Basti pensare all’Ypsigrock, e al successo internazionale sempre maggiore che ottiene ogni anno.

E proprio Barreca si chiede se non sia questa l’alternativa alle attuali rassegne di concerti da portare avanti, ponendo un dubbio su cui invito tutti a riflettere: siamo proprio sicuri che dobbiamo avere un grande festival con enormi quantità di pubblico, oppure una prospettiva diversa, che c’è e sta funzionando da anni, da valorizzare è proprio quella dei boutique festival? Se miglioriamo questa direzione, l’Italia può differenziarsi per davvero, e diventare un’eccellenza.

Siamo bravi a creare eccellenza, facciamolo anche con la musica.