A contendersi il podio tra i brand d’abbigliamento che valgono di più a livello mondiale, non figurano soltanto le prestigiose firme delle maison d’alta moda italiane e francesi, ma ci sono anche i colossi dello sportswear che dominano indiscussi sul mercato. Nike, ancora una volta per questo 2021, come riportato nella Apparel 50 2021 di Brand Finance, detta legge su tutti e con i suoi 30,4 miliardi di dollari di valore sorpassa con ampio vantaggio il luxury di Gucci e Louis Vuitton, posizionati rispettivamente al secondo e al terzo posto della classifica annuale.
Un successo inarrestabile quello di Nike che, se da un lato viene foraggiato dalla continua innovazione dei prodotti, da un’offerta sempre più inclusiva e da un proficuo e interminabile lavoro di collaborazioni, dall’altro si poggia solidamente sulle fondamenta che sin dalla sua nascita sono state intelligentemente costruite. Tra tutti i fattori che hanno contribuito a definire e caratterizzare l’immagine del brand, il logo è sicuramente quello che ha avuto l’impatto più significativo sia nella stessa storia di Nike, sia all’interno della cultura che le orbita attorno. Quest’anno il famosissimo Swoosh compie 50 anni, un periodo che si traduce in mezzo secolo di protagonismo nel lifestyle di milioni di persone, e proprio per questo abbiamo deciso di celebrarlo raccontandone la curiosa invenzione, la progressiva evoluzione nel corso dei decenni e le peculiarità grafiche che lo hanno reso immortale.
La genesi del “baffo” più famoso del mondo è tutt’altro che una storia di lunghi studi e ripetute sperimentazioni condotte dai massimi esperti in circolazione negli Stati Uniti degli anni ’70. Si tratta, piuttosto, di una serie di fortunate coincidenze e lungimiranti intuizioni che sicuramente anticipavano di gran lunga i tempi che si stavano vivendo. Era il 1971 quando Phil Knight, co-fondatore insieme a Bill Bowerman della Blue Ribbon Sports, ebbe l’occasione di ingaggiare una giovane e squattrinata studentessa di graphic design per creare un nuovo logo. Knight, infatti, stanco di basare la sua attività esclusivamente sull’importazione negli USA delle celebri scarpe da basket giapponesi Onitsuka Tiger, iniziava a nutrire il desiderio di produrre da sé nuovi modelli di calzature sportive. Per lanciare sul mercato la prima scarpa da calcio autoprodotta, dunque, i due imprenditori di Portland avevano bisogno di rivoluzionare la propria brand identity e non c’era modo migliore se non partire dalla definizione del logo. In quel periodo Knight lavorava come professore presso la Portland State University e, come vuole la leggenda, si dice che incontrò per i corridoi una studentessa mentre si lamentava della sua critica situazione economica e le offrì di disegnare il logo affinché potesse racimolare qualche soldo. Quella ragazza, all’anagrafe Carolyn Davidson oggi 78enne, quando accettò non poteva di certo immaginarsi che, da lì a poco, sarebbe diventata la designer del logo più importante del mondo.
Ora però arriva il bello, perché Carolyn Davidson concluse il lavoro in un batter d’occhio, impiegando soltanto 17 ore e mezzo per disegnare una dozzina di varianti del logo da proporre al giudizio dei suoi committenti. E a rendere questa storia ancora più incredibile, si aggiunge il fatto che Knight scelse il “baffo” perché, citando testualmente, era “il meno peggio” tra tutte le proposte. Con un compenso concordato di 2 dollari per ora, alla fine del lavoro Carolyn Davidson si portò a casa la bellezza di 35 dollari, oggettivamente una miseria se paragonata all’impresa di cui si era fatta artefice. Nonostante quella somma valga circa 205 dollari, se convertita e messa in relazione al costo della vita di oggi, si tratta pur sempre di un compenso irrisorio per un lavoro di quella portata. Basti pensare, per esempio, all’ammontare ad 1 milione di dollari del costo per la creazione del nuovo logo di Pepsi ad opera del gruppo Arnell nel 2008, a differenza, invece, di quei casi ancora più eccezionali in cui i loghi non costarono neanche un centesimo come per Google e Coca Cola. A posteriori, quindi, possiamo dire che il lavoro di Carolyn Davidson non venne pagato equamente e in maniera proporzionale al successo che contribuì ad apportare al brand, ma di questo i due fondatori di Nike ne furono consapevoli, tanto che vollero rendere i giusti meriti alla designer che nel frattempo era entrata nel team di comunicazione dell’azienda. Proprio per questo Knight, nel 1982, organizzò un party a sorpresa per la Davidson e per ringraziarla in prima persona le regalò un anello d’oro a forma di Swoosh impreziosito da un diamante, insieme anche ad un pacchetto di azioni Nike che oggi valgono una vera fortuna.
Dal punto di vista della progettazione grafica, lo Swoosh è indubbiamente un capolavoro di semplicità esecutiva, sintesi formale ed espressività di contenuto. Si tratta, infatti, di una forma definita esclusivamente dalla presenza di due sole linee curve che, partendo da un’origine comune, si allontanano progressivamente per poi ricongiungersi nella punta conclusiva, arrivando così ad individuare una porzione di spazio dinamica e acuminata, ma allo stesso tempo dolce e voluminosa. Un insieme di caratteristiche e proprietà grafiche questo, perfetto per il ruolo che il “baffo” avrebbe dovuto assumere una volta posizionato lateralmente sulle nuove calzature sportive e che, necessariamente, imponeva dei vincoli spaziali e di coerenza formale con la silhouette di una scarpa. A questo si aggiunge poi la potenza comunicativa che la designer Davidson è riuscita ad attribuire al logo: tralasciando l’ipotesi non confermata che si fosse ispirata alle ali della celebre Nike di Samotracia conservata al Museo del Louvre, l’obiettivo consisteva in realtà nel comunicare l’idea di velocità, dinamicità e movimento, concetti che non potevano essere espressi meglio di come è stato fatto. A porre l’accento su questi ultimi, inoltre, è arrivato lo stesso nome “Swoosh”, che si comporta da efficace parola onomatopeica grazie al suono della sua pronuncia riconducibile a quello generato da un veloce movimento che fende l’aria.
Lo Swoosh, dal momento della sua creazione, è andato incontro a un incredibile successo grazie soprattutto alla sua predisposizione ad apparire su supporti diversi da una scarpa. Ovviamente le immagini che vengono subito in mente pensando al “baffo” sono quelle delle sneakers più iconiche di sempre come le Nike Cortez o le Air Jordan 1, ma la sua visibilità la ottenne anche grazie alle numerose campagne pubblicitarie che Nike utilizzò per promuovere i suoi articoli sportivi, molte delle quali erano composte solamente da una fotografia, da un breve slogan e dall’immancabile logo su cui veniva indirizzata l’attenzione. Ecco, quindi, che lo Swoosh divenne a pieno titolo la vera incarnazione grafica di Nike e, come tale, doveva rimanere al passo con l’evolversi dell’identità del brand. Proprio per questo andò incontro ad alcuni cambiamenti nel corso dei decenni successivi, piccole migliorie che rendevano il logo sempre più attuale. Dalla prima versione del 1971, in cui al baffo senza riempimento era sovrapposta la scritta Nike con un font serif minuscolo, si è passati poi nel 1978 al riempimento dello Swoosh e allo spostamento della scritta che questa volta assumeva un peso maggiore grazie al Futura Bold Condensed Oblique. Successivamente, nel 1985, il brand opta per un box nero o rosso all’interno del quale disporre il vecchio logo in negativo, mentre nel 1995 si è approdati alla versione ancora oggi utilizzata: grazie alla sua iconicità, ormai è sufficiente solo la presenza dello Swoosh con un conseguente abbandono del lettering.
Lo Swoosh, con il passare dei decenni, è diventato a tutti gli effetti, il simbolo di uno stile di vita, il segno di appartenenza ad un gruppo e l’icona di una vera e propria cultura che oggi non accenna a venire meno. Essendosi fortemente radicato nell’immaginario collettivo delle ultime generazioni, il “baffo” è un vero e proprio segno di richiamo, come dimostra la sua solitaria ma monumentale presenza nelle facciate dei numerosi Nike Store in giro per il mondo. Il logo, che raggiunti i suoi 50 anni di vita viene ancora sfruttato nelle sue versioni più vintage sulle etichette e le scatole delle scarpe, non smette di ispirare i più ferventi creativi contemporanei che, come nel caso del prototipo della sedia di Readymade o le reinterpretazioni di famosi dipinti operate da Davide Bedoni, lo adottano per caricare di storia e significato i propri progetti.