“L’odio” e il suo linguaggio sonoro generazionale

Un vinile viene scratchato sul giradischi mentre una panoramica che parte dai cieli di Parigi si infrange sul cortile di un grande comprensorio abitativo; in sottofondo il Dj Cut Killer fa risuonare dal suo sound system personale qualcosa di mai ascoltato prima, la congiunzione di generi agli antipodi a rappresentazione di uno stato sociale nefasto, “Nique La Police”. È l’inizio de “L’odio“, opera che portò alla ribalta il nome del regista francese Mathieu Kassovitz, vincitore del premio come miglior regista al Festival di Cannes nel 1995, e del giovanissimo Vincent Cassel, e che oggi a ventinove anni dalla sua presentazione ritorna sala in una nuova versione restaurata in 4K.

La sequenza appena descritta si proponeva di essere la spiegazione visiva rispetto a ciò che Kassovitz aveva voluto rappresentare nella metafora iniziale, in cui un uomo, percorrendo la sua caduta da un palazzo di ben cinquanta piani, ad ognuno di essi si autoassicura dicendosi: “fin qui tutto bene”. L’obiettivo era quello di mostrare dettagliatamente, affidandosi quasi alla tecnica documentaristica, ciò che avveniva realmente nelle banlieue parigine agli inizi degli anni 90 – definite dallo stesso Presidente della Repubblica Francese Jacques Chirac “il bruit e l’odore” (il rumore e la puzza) -, facendo sì che lo spettatore si lasciasse unicamente guidare dalla cronaca di una giornata particolare perpetrata dai movimenti e dalle parole dei tre protagonisti: Vinz (Vincent Cassel), Huber e Said (metafora delle tre anime che albeggiano all’interno delle banlieue), ragazzi di seconda generazione sistemicamente persi nei meandri della società capitalistica.

Facendosi ispirare dagli avvenimenti realmente accaduti nel 1993 a Parigi in cui Makome M’Bowole, un giovane ragazzo zairese, fu ucciso mentre era in custodia nella caserma del 18° arrondissement, ciò che Kassovitz compose mostrava apertamente, con una nitidezza e con un taglio pulp/noir neorealista, la condizione sociale in cui verteva la popolazione rinchiusa nei quartieri ghetto ideati dal famigerato architetto svizzero Le Corbusier, a ventiquattro ore dagli scontri avvenuti con la polizia dopo il pestaggio di Abdel, amico di Vinc, Huber e Said, ridotto in fin di vita.

Le sequenze iconiche, girate con uno stile ritmico unico nel suo genere per quegli anni, mettevano in luce una grande violenza espressiva per mostrare come di lì a poco la bomba sarebbe effettivamente esplosa, e come tutti i problemi sociali rinchiusi in questa sorta di vaso di pandora sarebbero tornati alla luce per tutta la cultura francese e non solo. La violenza crea violenza.

La sua modernità e il suo linguaggio visivo sono diventati dei capisaldi nell’esternazione di certe problematiche sociali, tornando fortemente alla ribalta sia nelle rivolte parigine del 2005 ma soprattutto dopo l’assassinio di George Floyd e con la conseguente nascita del movimento Black Lives Matter.

Come analizza Ginette Vincendeau, docente in Film Studies, nel libro “La Haine”: “ogni notte, come nella canzone di Bob Marley, Burnin’ and Lootin’, che ascoltiamo nei titoli di coda, c’erano incendi, saccheggi e scontri con la polizia, cosa che potevo sentire nitidamente mentre stavo dai miei genitori, che vivevano vicino a uno di questi sobborghi ritenuti difficili. Così il libro che scrissi, che coincideva con il decimo anniversario del film, si rivelò opportuno per ragioni inaspettate. La convergenza tra il film di Mathieu Kassovitz e i disordini sociali, tuttavia, non erano una novità: al momento della sua uscita nel 1995, “L’odio” era già, e in modo controverso, collegato alla violenza suburbana e alle bavures (ovvero un intervento che comporta tra i suoi «effetti collaterali» vittime innocenti) della polizia. I contenuti esplosivi del film, il suo team creativo insolitamente giovane (Kassovitz e i tre attori principali erano tutti ventenni), il fatto che vinse il prestigioso premio come miglior regista al Festival di Cannes, il suo enorme successo popolare – e la conseguente reazione dei media così come della polizia – fecero sì che “L’odio” diventasse un fenomeno della società andando oltre il suo valore cinematografico”.

Non casualmente, nella sua analisi la Vincendeau, oltre a spiegare dettagliatamente gli avvenimenti sociali che seguirono l’uscita del film e i moti che ne fermentarono, si sofferma su come la musica e il racconto sonoro determinarono perfettamente la riuscita del racconto generazionale. L’hip-hop e il gangsta rap erano popolari negli Stati Uniti da più di un decennio quando “L’odio” fu presentato per la prima volta a Cannes nel 1995 e proprio per il messaggio che tali composizioni avevano scatenato oltreoceano nei quartieri ghetto, Kassovitz decise di reclutare il collettivo hardcore/rap Assassin, un gruppo emerso dalle banlieue a metà degli anni 80, per supervisionare la colonna sonora del film. 

Come riportava Steph Green nella sua bellissima analisi su Sight and Sound, ciò rappresentò una reale opportunità per mettere in primo piano il rap francese; per sputare una versione tipicamente francese della passione e della rabbia del gangster rap. Anche se la conformazione musicale de “L’odio” si divertiva anche nel citare alcuni chiari riferimenti alla musica rap statunitense, la colonna sonora originale portò alla ribalta internazionale principalmente gli artisti hip-hop francesi, tra cui figuravano personaggi come MC Solaar, Raggasonic, NTM e gli stessi Assassin

“Questi artisti francesi, spesso di origini africane e nordafricane, riscrissero il bleu-blanc-rouge – il blu-bianco-rosso della bandiera francese – come black-blanc-beur, “nero-bianco-arabo”, e sposarono un rap radicato nella diaspora e nella protesta. E così, quando una nuova ondata di rivolte esplose nuovamente nella periferia della capitale un decennio dopo, nel 2005, l’allora ministro degli Interni, Nicolas Sarkozy, trovò un capro espiatorio: non solo i cittadini stessi delle banlieue, ma i rapper francesi che si radicalizzavano. Il testo di MC Solaar in Comme dans un film, brano tratto dalla colonna sonora del film, prevedeva questo attacco: “Attention car le bouc émissaire change / Selon les coutumes, selon les lubies”, ovvero “Stai attento, perché il capro espiatorio cambia a seconda delle usanze”.

Se la musica ne “L’odio” catalizzava la fratellanza sociale – quella che il sociologo Iain Chambers definisce il terzo spazio, quindi uno spazio in cui ambedue le culture di origine sono interpellate e modificate, portate altrove per realizzare una nuova configurazione culturale in cui la musica fa emergere nuovi linguaggi espressivi che investono anche lo spazio urbano che lo caratterizza -, lo stesso Kassovitz in un’intervista rilasciata al giornalista Kaleem Aftab, spiegava come il vero fulcro emotivo e sensoriale della storia fosse da ritrovare nella sua stessa conformazione sonora. Lo spazio architettonico delle banlieue con la loro forma ad esaltare l’alienazione sociale dal resto della città, l’utilizzo della lingua verlan, fortemente radicata nei ragazzi di seconda generazione, la cui peculiarità di invertire le sillabe di una parola partendo dalla sua pronuncia era teso a rappresentare l’unicità del proprio mondo, così come il continuo ticchettio e le continue sirene a cadenzare gli attimi prima dell’esplosione del conflitto sociale.

“Prima di iniziare la fase di post produzione del film dissi al sound designer Vincent Tulli di andare a vedere American Graffiti di George Lucas. Ciò che Walter Murch, uno dei migliori sound designer del mondo, riuscì a realizzare con il suono di quel film era dannatamente geniale. Quando le persone uscivano dalla sala, a causa dei suoni provenienti dall’esterno dell’inquadratura, pensavano di aver ascoltato degli elementi che effettivamente non avevano visto. L’ho usato ne “L’odio” al punto che la gente pensava di aver visto chi aveva ucciso chi alla fine del film. A Parigi avevamo con noi solo metà della troupe perché il mio produttore mi aveva detto che non potevamo permetterci di girare l’intero film come lo abbiamo girato nella banlieue, dove avevo una gru e una Steadicam. Abbiamo filmato tutto a Parigi con un obiettivo lungo. Se guardi il film, diventa mono. Prima era stereo perché giravamo molto in ampio nei progetti, ma quando vai a Parigi, è più incentrato sugli attori, sul loro sentirsi al di fuori di quel mondo apparentemente dorato. Ho preso i vincoli di costo che avevamo e ho detto: “ok, come possiamo usarlo?” Se non posso avere tutto, metterò tutta la troupe all’inizio, dove mi servono tutti gli elementi. E poi, nella seconda parte utilizzerò solamente una macchina fotografica, un obiettivo lungo, nessuna autorizzazione, e gireremo in stile guerriglia”.

“L’odio”, a quasi trent’anni dalla sua uscita, non ha solamente lasciato una grande impronta politica e sociale, ancora oggi fortemente rivoluzionaria, rispetto a ciò che voleva narrare, ma ha avuto un’importanza artistica non indifferente nel panorama contemporaneo. Oltre alla musica assolutamente identitaria che nel tempo ha influenzato anche artisti del nostro panorama nazionale – come i Colle der Fomento, che dedicarono un intero album (“Odio pieno”) al film di Kassovitz, e il singolo di Achille Lauro “Thoiry” tratto proprio dalla citazione del film in cui Vinz, riferendosi ai numerosi giornalisti presenti nel quartiere dopo gli scontri della notte appena trascorsa, gli urla “non siamo mica a Thoiry”, cogliendo la metafora di come la stampa li vedeva unicamente come animali dell’omonimo zoo di Parigi -, il film è diventato un punto di riferimento anche nel campo della moda, anticipando di gran lunga la tendenza dello streetwear che imperversa oggi in molteplici settori della stessa arte. Tornare al cinema dopo ben ventinove anni sarà ancora più coinvolgente.