Nel mondo di Wes Anderson, il colore non è mai solo colore. E nemmeno un elemento neutro. Funziona come un codice visivo preciso, una grammatica cromatica che comunica emozioni, stati d’animo, identità e persino dinamiche narrative.
Anche ne La Trama Fenicia, il colore rappresenta un ulteriore passo nell’evoluzione stilistica del regista, che consolida la sua estetica ormai iconica esplorando nuove dimensioni tematiche e visive. Presentato in anteprima al Festival di Cannes 2025, il film offre un’esperienza cinematografica iper-sensoriale, densa di dettagli visivi. Tra una vignetta e l’altra le inquadrature quasi ipertrofiche danno forma ad una narrazione dove l’immagine in sé diventa protagonista della storia tanto quanto i personaggi.
Il film è un’ulteriore esplosione visiva e riflette l’inconfondibile estetica andersoniana: simmetrie maniacali, scenografie teatrali, palette cromatiche intense e calibrate. Per la prima volta, la fotografia è affidata a Bruno Delbonnel (noto per Il favoloso mondo di Amélie), che sostituisce lo storico collaboratore Robert Yeoman. Le riprese, realizzate negli studi Babelsberg di Berlino, si svolgono su set costruiti ad hoc: modellini e ambienti surreali in cui i colori pastello non decorano, ma narrano.
Rame, porpora, azzurro slavato: i colori sembrano “bruciati”, come filtrati da un tessuto scolorito dal sole. Ma, come spesso accade con Wes Anderson, non si tratta solo di estetica. Il colore diventa codice storico: il giallo-arancio delle tuniche evoca la sabbia e l’oro del commercio fenicio; il blu slavato delle vele richiama il mare, ma anche una malinconia sepolta nel tempo. Ogni pigmento sembra aver già vissuto mille anni.
Il colore, quindi, non solo costruisce l’atmosfera, ma veicola senso. Le uniche sequenze in bianco e nero – visioni interiori di Zsa-Zsa (interpretato da Benicio del Toro) – coincidono con momenti di riflessione mistica, veri e propri incontri con la sorte e con l’affronto di una morte sempre più imminente.
La monocromia, in questo caso, è simbolo di introspezione e distacco dal mondo, come già accadeva nel precedente film del regista, The French Dispatch, dove il bianco e nero marcava i passaggi tra i diversi piani narrativi ed emotivi.
Nel cinema di Anderson, questa scelta non è mai solo un vezzo vintage: è una decisione stilista profonda, strumento di racconto. Anche in Asteroid City, per esempio, l’universo narrativo viene diviso tra la vivida finzione della città spaziale e la intensa cornice teatrale, rappresentata in bianco e nero. Il regista si prende così gioco del concetto di “realtà”, associando l’assenza di colore dell’autenticità. Il colore qui diventa metalinguaggio, dispositivo teatrale e specchio dell’assurdo.
Il cortocircuito creato tra la forma e il contenuto destabilizza lo spettatore e ne stimola una lettura più stratificata. Lo stile di Wes Anderson è riconoscibile in pochi frame proprio grazie alla sua grammatica cromatica: il colore diventa punteggiatura musicale, accompagna le inquadrature geometriche e i dialoghi asciutti. Ogni tonalità ha una funzione narrativa: il blu suggerisce malinconia, il rosso segnala passione o pericolo, il verde speranza o ambiguità.
In The Grand Budapest Hotel vediamo dominare un rosa pastello, punteggiato da rossi porpora e azzurri polvere: una palette che richiama l’estetica delle cartoline d’epoca, delle vetrine delle pasticcerie francesi, dei profumi retrò. È un mondo artificiale, curato fino all’eccesso — troppo perfetto per essere reale. Ed infatti non lo è: è un’utopia estetica, un passato idealizzato e che finirà ben presto con l’irruzione della guerra nella storia.
Il regista “usa” il colore come per dipingere, fino a stratificare, strato su strato anche all’interno della psicologia dei personaggi. In Moonrise Kingdom, i toni caldi del giallo senape e dell’arancio evocano l’infanzia e il senso di avventura, ma senza addolcirli. Lo spettatore è trasportato nel mondo dei protagonisti attraverso una “traduzione visiva” delle emozioni, che rende il racconto universale e toccante.
Per Wes Anderson, il colore è grammatica, metrica e punteggiatura. Non decora, ma racconta. Non accompagna, ma guida. E nella sua ossessiva armonia, riesce a esprimere il caos interiore dei suoi personaggi molto più di mille parole.
Il colore, nel cinema di Anderson ha, infine, una funzione mnemonica. Le sue palette si ispirano agli album fotografici vintage, ai manifesti anni ’60 e ’70, alle copertine di libri. Non si tratta solo di estetica: è una strategia emotiva che attiva nello spettatore una nostalgia condivisa, un déjà vu che rende quei mondi così strani, stranamente familiari.
Ancora una volta, Wes Anderson ci offre un’idea di arte come rifugio: ordinata, iper-curata, consolatoria. In un presente instabile, i suoi film ci offrono una casa estetica in cui rifugiarci. Una favola moderna che ci culla, permettendoci di fuggire dalla realtà anche solo la durata di un suo film.