Per la sua terza partecipazione al Festival di Sanremo, Mahmood si è presentato sul palco del Teatro Ariston con “TUTA GOLD”, un brano da club con delle influenze funk che parla del suo presente e passato tirando in ballo alcune immagini della sua infanzia e della vita trascorsa in periferia. Un immaginario, questo, che viene catturato perfettamente (non senza un pizzico di ironia) anche nel video ufficiale della canzone, il quale ha come ambientazione un luogo su cui vale la pena spendere qualche parola.
L’artista ha infatti deciso di raccontare lo scenario dei quartieri ghetto utilizzando come cornice il comprensorio di Rozzol Melara, un’enorme agglomerato di alloggi popolari fatto di cemento armato che sorge a 4 km dal centro di Trieste dominando dall’alto il capoluogo del Friuli-Venezia Giulia e il suo golfo.
Conosciuto dagli abitanti della zona come “il quadrilatero” o “Alcatraz”, il complesso è considerato uno degli esempi più rappresentativi dell’architettura brutalista in Italia. Venne costruito tra il 1969 e il 1982 e fu progettato da un nutrito gruppo di professionisti coordinati dall’architetto Carlo Celli guardando alle teorie socio-architettoniche di Le Corbusier.
Il progetto è costituito da due corpi a L poggiati su dei pilastri per gestire la differenza di altezza della collina e consentire il passaggio diretto dal cortile verso l’esterno, uno di doppia altezza rispetto all’altro, i quali sono raggruppati attorno a una grande corte al centro e collegati da un sistema di passaggi coperti scanditi da grandi oblò che formano una croce. Si parla di una struttura a dir poco monumentale che va dai 7 ai 15 piani e si estende su una superficie di 89.000 metri quadri.
Nelle intenzioni dei progettisti, questo aggregato di cellule unito da spazi collettivi doveva diventare una sorta di città autosufficiente per 2500 abitanti con tutti i servizi necessari. Non solo appartamenti ATER destinati perlopiù a coppie giovani, ma anche scuole, negozi, uffici, centri sportivi e aree di svago destinate a creare uno spazio sociale condiviso e un senso di comunità. Tutto in un unico blocco. L’idea era quindi quella di inseguire un modello che andava a formare un’area urbana semi-indipendente, piuttosto che un semplice edificio residenziale. In altre parole, si cercava una convergenza tra dimensione architettonica e urbana.
Esperimento che però, come in tutti gli altri casi analoghi, è fallito. Invece di favorire la socialità e andare incontro alle esigenze delle persone, questi moduli abitativi non hanno fatto altro che emarginare le persone e imporsi sulle loro abitudini, sollevando anche un gigantesco problema di mantenimento e sostenibilità. Oggi Melara è infatti abbandonato a un destino di degrado che non doveva essere il suo, il quale dimostra come a volte l’utopia finisca quasi per trasformarsi in distopia.