Detto “il Pirata” per il suo stile aggressivo e spettacolare, ma anche per il suo look inconfondibile, con bandana e orecchino, Marco Pantani fu un’icona generazionale, che segnò la storia dello sport in Italia. Vinse poco, se paragonato ad altri campioni. Eppure nessun ciclista riuscì mai a far battere il cuore dei tifosi come lui.
La sua carriera ha superato i confini del ciclismo e si è trasformata in fenomeno sociale e non solo sportivo, in racconto e non solo cronaca, in passione e non solo tifo. Durante le gare gli ascolti televisivi raggiungevano picchi di audience mai visti prima, né mai più toccati poi. Mentre Marco pedalava milioni di tifosi davanti alla tv urlavano e soffrivano assieme a lui. Quando si alzava sui pedali per scattare, era una scarica d’adrenalina pura. Si levava di dosso occhiali e bandana, la testa e le spalle protese in avanti, le braccia basse che preludevano a qualcosa di memorabile.
«Vado così forte in salita per abbreviare la mia agonia» rispose una volta al giornalista Gianni Mura, nel tentativo di spiegare il segreto delle sue imprese in salita.
Come in quel piovoso 27 luglio 1998, quando vinse in solitaria a Les Deux Alpes, scattando sul Galibier a quattro chilometri dalla vetta e aggiudicandosi di fatto la vittoria del Tour de France, a poco più di due mesi dal successo al Giro d’Italia. Un’impresa pazzesca, riuscita prima di lui a pochissimi e dopo di lui a nessuno ancora.
Un talento eccezionale. Un uomo sensibile e mai banale, amato da gregari e avversi per la sue generosità pura. Una qualità rara nel mondo agonistico, tanto più in uno sport di fatica e resilienza come il ciclismo, tanto più fra i capitani. A vent’anni esatti da quel terribile 14 febbraio 2004, più degli scandali, delle inchieste, della droga, delle verità ancora oggi non emerse e di tutto ciò che successe dopo Campiglio ’99, ricordiamo il Pirata, uomo e atleta, e le sue imprese sulla bicicletta, entrate nelle vite di milioni di tifosi. Il campione venuto dal mare, per dominare le montagne.