Marracash a un anno da “Persona”

Marracash è arrivato allo studio in cui avremo realizzato l’intervista e lo shooting a lui dedicato all’interno di un caldo cappotto Fear of God x Ermenegildo Zegna e non è servito molto altro per iniziare un discorso che sapevamo tutti avrebbe attraversato più e più strade. Mentre osserva gli abiti non è difficile capire il cambiamento estetico di Marracash, ma dietro a ogni scelta c’è una riflessione ponderata.

«Ultimamente mi piace molto Jerry Lorenzo, anche perché alcune sue cose mi ricordano un certo periodo di Kanye West. In generale mi piacciono i vestiti piuttosto lineari, non mi piacciono le cose troppo colorate e mi è rimasta una certa predilezione per il nero. Ovvio che col tempo lo stile cambia. Da un lato c’è la crescita, il mettere a fuoco. Anche le possibilità sono diverse, perché all’inizio ti arrangi con quello che hai e con quello che ti danno (ride, ndr). L’importante è che lo stile rispecchi la tua musica. Guarda Fabri Fibra. Se pensi a lui ti viene in mente la tuta dell’adidas. Io quando ero più giovane mi chiedevo perché si vestisse sempre in tuta nonostante fosse il numero uno, poi ho pensato che anche Eminem si veste sempre allo stesso modo e ho capito che il loro stile era un proseguimento della loro musica. Fabri è così, è facilmente comunicativo, arriva diretto senza troppe acrobazie, quindi la tuta lo rappresenta molto, anche per la popolarità che ha. Io ho attraversato varie fasi perché i miei dischi sono sempre stati diversi e il mio modo di vestire attuale rappresenta “Persona”».

Mentre la fotografa inizia con i primi scatti, chiediamo a Marracash di scegliere un artista, o un album da tenere in sottofondo. Marra ha scelto “The Goat” di Polo G. Una scelta bellissima non solo per l’effettiva qualità di quell’album, non solo per il parallelo con il titolo di una delle tracce di “Persona” ma anche per capire quanto gli occhi di Marracash siano aperti sulla nuova scuola, oltre che la sua nota fascinazione per un certo tipo di testi, per uno storytelling che vuole raccontare la difficoltà e i problemi che vanno oltre a quelli tangibili dello stato fisico ed esplorano il cervello di chi scrive come di chi ascolta.

Marracash non è un rapper come gli altri, più in generale non è un artista come gli altri, perché la quotidianità raccontata da lui non è paragonabile a quella di nessuno. Marracash ha sempre parlato della realtà che lo circonda, della sua vita, ma in maniera diversa da quanto gli altri rapper sono soliti fare. Non si limita a narrare i posti che ha visto, le persone che ha incontrato o le situazioni che si sono sviluppate, al contrario è solito approfondire l’aspetto mentale che lo ha legato a queste circostanze, che sia qualcosa di positivo o negativo, che si tratti di un egotrip o di un momento di insicurezza. In questo particolare periodo storico, questa tipologia di narrazione è fondamentale, non solo per dare un nuovo punto di vista alla musica, rap e non, ma anche per far capire al pubblico che tutti provano difficoltà e sofferenze, indipendentemente dalla posizione sociale in cui si trovano.

«L’aspetto psicologico è senza dubbio quello che mi interessa maggiormente, soprattutto oggi. Parliamo del fulcro dell’arte odierna, anche oltre la musica. Pensa ad esempio alle serie animate: il tema centrale si è spostato completamente dalla satira sociale incentrata sulla famiglia media all’analisi psicologica. Dai Simpson e i Griffin si è arrivati a BoJack Horseman e Rick and Morty. Dal padre di famiglia che fa un lavoro che odia si è passati al racconto di un individuo perso in un turbinio di mondi paralleli e variabili che non fa altro che mostrarci come l’importanza del singolo individuo sia nulla».

Questa situazione esposta da Marracash non può che manifestarsi ulteriormente nel rap, essendo questo un genere che ha fatto della narrazione quotidiana la sua forza. L’esasperata celebrazione del maschio alpha ha subito un drastico cambiamento negli anni, in società come in politica, e così anche nello sport o nell’arte. Molti dischi attuali comunicano una nuova tipologia di rapper, un modo diverso di esplorare la quotidianità che necessariamente non può più limitarsi al racconto della routine e di storie criminali più o meno reali, perché porterebbero un genere di rottura come il rap nella monotonia. D’altronde fu lo storico Jacques Martin Barzun a dire che i grandi cambiamenti culturali iniziano nell’affettazione e finiscono nella routine.

«Le storie rimangono sempre quelle, specie nel rap, quindi bisogna dare delle tematiche diverse per non arrivare a creare noia. Trovo che sia proprio il punto di vista che deve cambiare, allontanarsi da questi personaggi irreali e impossibili, monolitici se vogliamo. Il rap è stato a lungo monodimensionale, basti pensare a un disco di 50 Cent. Ti si presenta davanti un personaggio che non trema, non teme nulla, non ha affetti, niente. Chi metteva l’amore in un pezzo veniva etichettato come sucker for love e non era per niente un ruolo appetibile. Questa cosa per me ha rotto i coglioni. Poi sia chiaro, amo i dischi di 50 Cent e i film di Van Damme, ma il mondo va avanti, ed è giusto capire che le persone hanno molti lati e sfaccettature, tutti meritevoli di essere esplorati».

«Questi elementi devono poi convenire nella musica. Questa cosa della strada, il gimmick dell’avercela fatta, non aiuta più nemmeno dal punto di vista commerciale perché negli anni l’interesse è cambiato. Quando ero ragazzino ascoltavo i Sacre Scuole e il Wu-Tang Clan, l’egotrip era basato sulla tecnica delle barre e su un tema che avvicinerei al misticismo. Sentivi frasi come “Il mio flow modifica le cascate”, roba così. Non c’era la componente gangsta che invece da 50 Cent in poi, per tornare al punto iniziale del discorso, l’ha fatta da padrone. Sono cicli, infatti questa mentalità portata da 50 Cent è morta con l’ascesa di Kanye West, fino ad arrivare a un filone un po’ più emo, prima con Drake e poi con XXXTentacion, Lil Uzi Vert e altri che necessariamente hanno inserito la tematica della salute mentale. Tutto questo discorso della strada, dell’essere gangsta solo per darsi un tono, non lo sopporto più. O sento qualcosa di realmente vero, tipo Il Profeta che lo conosco e so che viene da quel mondo lì, o lascio stare. Crederci o non crederci non è nemmeno così fondamentale, è proprio che mi annoia, perché alla fine non aggiungi nulla di tuo alla traduzione di un film di Scorsese. Molti di questi ragazzini non sono né spacciatori, né ricchi, né altro. Poi è vero, se hai la creatività e l’immaginario giusti diventi interessante lo stesso, pensa a Rick Ross che faceva il secondino ma sapeva creare immagini fantastiche nelle rime anche quando parlava di criminalità. Guè Pequeno ha una creatività tale da essere sempre interessante. Se manca realtà, forma, stile e contenuto, cosa andiamo avanti a fare? Nel rap italiano è più la gente che mi annoia. I dischi interi che mi piacciono davvero dall’inizio alla fine sono ben pochi, anche tra quelli americani in realtà, forse l’ultimo è stato “DAMN.” di Kendrick Lamar. Poi alcune cose recenti di Meek Mill e Lil Wayne mi sono piaciute molto ma non allo stesso modo. Credo che anche in America la scena sia un po’ sterile ora come ora».

Proprio nel disco di Kendrick Lamar c’è un pezzo molto particolare che si intitola “FEAR.”, una traccia divisa in tre strofe, la prima delle quali vede Kendrick parlare di sé e con sé a sette anni, nella seconda fa la stessa cosa col suo alter ego diciassettenne e nell’ultima con il K Dot di ventisette anni. In quest’ultima strofa Kendrick parla delle sue paure attuali ora che è un artista di successo, del timore di perdere tutto, di sottostare alle pressioni. Frasi come “At 27, my biggest fear was losin’ it all e At 27 years old, my biggest fear was bein’ judged” esprimono sentimenti che non ci si aspetterebbe davanti a certe vittorie in campo musicale, traguardi che fanno quasi sembrare indistruttibili agli occhi dei fan. Marracash non ha ventisette anni, è ben più adulto, ma i timori non hanno età.

«Paura di essere giudicato? Tantissima. Prima che uscisse il disco, una volta messo il primo piede fuori dalle mie paranoie, la paura era tale che pensavo di non riuscire a fare un album. Ne parlai anche con lo strizzacervelli. Lui mi chiese se mai sarebbe uscito un altro disco di Marracash o meno, io gli dissi di sì ma in realtà non ero sicuro. La paura che avessi rovinato tutta la mia vita e il mio percorso sparendo completamente era grande. Devi sapere che io ho sempre tirato la corda, in tutto, fin da quando sono bambino. Forse devo davvero rischiare di perdere le cose per capire che devo fare di tutto per tenermele, ma questa volta avevo davvero pensato di aver esagerato. Pensavo di avere distrutto la mia carriera, di non sapere più scrivere, di non avere più il talento. Ci ho pensato molto. Io poi sono ciclico, quindi alterno fasi positive, che di solito convergono con l’uscita del disco, a fasi negative, ovvero quando mi allontano tanto dal lavoro. La forza è stata accettare queste paure e parlarne, per me come per Kendrick Lamar. E torniamo ancora all’inizio, al discorso del rapper che cambia dalla figura indistruttibile che ha sempre avuto. A 50 Cent gli hanno sparato nove volte: si sarà cagato sotto anche lui almeno una volta, no? Lui però non ne parla».

Anche in USA parlare di difficoltà psicofisiche e mentali era off limits, era un concetto da deboli. Quando Joe Budden parlò di depressione, mettendosi in copertina con la camicia di forza, venne quasi emarginato. Ora l’argomento è sdoganato e si arriva alla celebrazione di queste tematiche. Si pensi banalmente a un Conway the Machine, una delle forze trainanti di Griselda Records, un rapper alpha che ha trovato il suo maggiore successo con “The Cow”, un pezzo con cui narra le lacrime versate per la morte del cugino e la paura per il ritorno a rappare dopo la paralisi facciale che è seguita a una sparatoria. In Italia serviva qualcuno che portasse questi elementi e Marracash è l’uomo giusto, non solo per le sue capacità di espressione ma anche per le tempistiche con cui è arrivato “Persona”, ovvero dopo un lungo, importante silenzio sui social media, ennesimo elemento estremamente atipico per la comunicazione di un personaggio in vista di oggi. Come Marra spiega, la situazione che ha involontariamente ricreato è quella di un debutto.

«L’attenzione che ho avuto dopo tutto quel silenzio mi ha colpito di brutto, non me l’aspettavo. All’epoca dissi che l’assenza dai social fosse estremamente punk, oggi lo riconfermo. Molti degli artisti attuali dicono di avere un’attitudine “I dont give a fuck” ma non è vero: si fanno duecento foto, vanno in palestra e pensano solo all’immagine. A me davvero non fregava nulla, ero davvero disposto a perdere tutto e per questo motivo si è ricreata la situazione di un debutto. Era come se avessi avuto diciotto anni e niente da perdere. Questo è il motivo per cui il pubblico è rimasto colpitissimo. Dave, il rapper britannico, lo conosci? Fortissimo, scrive da dio. Il suo album, “Psychodrama”, ha avuto un successo tale perché era il primo. I dischi dirompenti arrivano sempre al debutto, quando non devi nulla a nessuno e il pubblico non si aspetta nulla di particolare da te. Il distacco che ho avuto dall’ambiente, dai fan, da tutto, ha ricreato quelle condizioni».

«Il legame tra artisti e social network è morboso, in Italia ancora di più che in altre parti, infatti molti dei rapper americani che piacciono a me postano poco e nulla. JAY-Z non ha nemmeno Instagram, Kendrick posta pochissimo, anche ASAP Rocky e altri. Io sono più per quella scuola lì. In Italia copiamo tutto dai grandi artisti americani tranne questo. Tranne l’eleganza. Il mio rapporto con i social media è semplice: per me è lavoro. Non mi succede di voler postare qualcosa per condividere un momento, se lo metto è perché fa parte del mio lavoro».

Marracash indossa: camicia Balenciaga.

Proprio questo tema del plagiarismo verso gli Stati Uniti polarizza la conversazione e si finisce a parlarne dal punto di vista italiano, quello di un popolo che quindi vive nell’ideale straniero seppur mantenendo un’identità territoriale fortissima, una di quelle cose che spesso impedisce, ad esempio, ai rapper napoletani di rappare in italiano. «Viviamo in un ossimoro perché siamo territorialisti ma non abbiamo una scuola rap italiana, non c’è un grime come in UK. Questo perché siamo legati al territorio ma siamo anche grandissimi pecoroni. Quello del rap poi è l’ambiente più di pecoroni che abbia mai visto in vita mia. Se tu chiami un grafico a fare la copertina del disco e l’album fa successo, tutti gli altri chiameranno quel grafico. Se chiami un ingegnere del suono a fare il mix e hai successo, tutti chiameranno lui. Guarda la promozione di “Persona”: ho sdoganato i post lunghi con la tematica motivazionale. Erano contenuti sentiti, davvero scritti da me. Ora tutti con i post dalle caption lunghe, tutti con le immagini in bianco e nero, tutti con le foto dei featuring annunciati con i volti dei collaboratori in primo piano, uno per volta. Questo è il rap italiano. Il genere è terribilmente immaturo, a parte due o tre cose». Ma nonostante ciò Marracash ha sempre espresso una certa vocalità sul suo poco interesse verso i featuring internazionali. «Non mi attirano perché nella mia musica il senso della canzone è al primo posto. Avere Quavo sul mio disco, o gente così, non fa per me, preferisco avere produttori o qualcuno che fa qualcosa che io non so fare, tipo Frank Ocean. Sai cosa? Magari un rapper europeo, specie ora. Però poi ho sempre la paranoia che il messaggio non arrivi al pubblico. Se fai un disco pieno di contenuti e poi ci metti Tory Lanez non ha senso».

I contenuti e il significato dei pezzi sono sempre stati i punti di forza dei dischi di Marracash, al punto che talvolta non è chiaro quando a parlare è Marracash e quando è Fabio, qualcosa che permette al pubblico di comunicare, empatizzare con lui. «L’ho detto in un pezzo: il mio personaggio è che non ho un personaggio. Da sempre cerco di far combaciare Marra e Fabio, infatti chi conosce la mia discografia un po’ mi conosce anche personalmente. È vero, in certi periodi sono stato condizionato dai fan, dai miei amici e da tante altre persone. Nel disco faccio proprio un percorso che cerca di liberarsi dell’opinione altrui. Ho detto spesso che questo disco è più di Fabio che di Marracash perché è come se questi due lati fossero nemici, il lato Marra voleva essere più performante e deciso, lavorare tanto, e quindi si arrabbiava con Fabio perché quest’ultimo voleva solo girare il mondo, essere libero. In questo disco i miei due lati non hanno cozzato, non c’è stato molto scarto, ma è leggermente prevalso Fabio».

L’album di Marracash e di Fabio è uscito un anno fa e, a oggi, è ancora in top ten. Un risultato incredibile. Dopo tanto tempo lontano dai social, dai microfoni e dai palchi, Marra era tornato con un album mastodontico, con la prospettiva del tour più grande della sua carriera, video musicali, ulteriori singoli, televisione, radio e chissà quanto altro. Abbiamo assistito alla presentazione del disco tramite i media più classici, come Radio Deejay, fino a momenti più inusuali per il rap come le interviste con Daria Bignardi e Fabio Fazio. Poi tutto si è fermato per via del COVID-19 e Marracash ha dovuto mettere ancora una volta tutto in pausa.

«Ero in Sicilia, in macchina, per degli instore. Mi chiamano dall’etichetta e mi dicono che abbiamo venduto 30.000 copie la prima settimana. Dieci minuti dopo mi chiama Paola Zukar e mi dice che il Forum di Assago è andato sold-out in due ore. Ogni giorno aggiungevamo una data e andava sold-out. Pensa che all’inizio eravamo incazzati perché credevamo non funzionassero i link di acquisto dei biglietti, poi però ci hanno spiegato che erano tutti esauriti troppo in fretta. Poi è arrivata questa mazzata che ho accusato molto perché avevo fatto un lockdown ante litteram, mi ero chiuso tre mesi in casa e in studio per fare il disco e non ero mai uscito. I risultati che citavo prima sembravano come un lieto fine di un film, ma in effetti sembrava troppo bello. Fortunatamente quasi nessuno dei miei fan ha chiesto rimborsi ma ho comunque pensato se la gente avesse davvero voglia di sentire “Persona” dal vivo dopo tutto questo tempo. Probabilmente quello che ripartirà nel 2021 non sarà il tour di “Persona”, sarà il tour di Marracash, ma ho la percezione che il disco valga la pena di portarlo in giro così com’è. Penso anche che quando ripartirà tutto ci sarà una voglia tale di riprendere certe attività che il disco sembrerà non dico nuovo, ma quantomeno attuale. Questo lockdown l’ho passato con una mentalità davvero positiva che deriva dal fatto che “Persona” è un disco di musica mia, che non assomiglia a quella degli altri e che comunque genera attenzione. Questo mi ha rassicurato più di qualsiasi altra cosa, anche con il rinvio del tour».

Queste ultime parole scatenano un discorso sull’originalità della musica, sull’identità di suono che porta a diverse analisi, di “Persona” come di chi lo ascolta. «Questo album mi ha dato una bella dose di fiducia, così come me l’ha data nel pubblico, cosa che io in realtà non ho mai avuto. Sai perché? “Fino a Qui Tutto Bene” è stato il mio disco più sperimentale ed è quello che è andato peggio. “King del Rap” è stato quello più cliché che ho fatto a livello di forma ed è andato fortissimo».

«Il disco è stato una rivoluzione nella mia vita, un terremoto. Mi ha aperto una nuova porta a livello creativo perché il fare questo disco esattamente come volevo mi ha fatto capire che posso parlare di altre cose, in un’altra forma. Ho trovato un nuovo filone d’oro. Si tratta di qualcosa che ho sempre voluto fare fin dal primo album ma non mi è mai riuscita. Ho pezzi vecchi che seguono un po’ la falsariga di “Persona”, specie per la ricercatezza, pezzi come “Untitled”, “La Parola Che Nessuno Riesce a Dire”, ma non riuscivo a mettere tutti i pezzi assieme. Ho sempre fatto brani più canonici e altri più particolari e questi ultimi hanno sempre avuto meno riscontro, tanto che mi ero convinto che in Italia non fosse possibile fare qualcosa che non avesse riferimenti ad altro già esistente, perché puoi arrivare al pubblico solo se questo riconosce elementi già familiari. Facci caso, ora fanno tutti come Pop Smoke. Tutti i beat sono a metà tra drill e grime, con gli slide del basso distorti. Questa cosa arriva perché è già sentita. Quando io facevo “Parole Chiave” e altri pezzi più elettronici prima che fossero comuni non sono mai andati bene a livello di pubblico. C’è gente che vuole lo stereotipo, il cliché, vuole sentire il rapper sopra una base trap che dice di fare i soldi e scopare, ed è sacrosanto che sia così. Io però, specie a quarant’anni, lo trovo noioso. La mia fortuna è che questo disco è uscito dal suo genere. È un disco universale perché parla di cose che vivono tutti. I Kanye West, i Kendrick Lamar, hanno raggiunto questo status uscendo dal genere, andando oltre».

Marracash indossa: camicia Balenciaga.

«Fare un album con le parti del corpo mi è servito a non rifare due volte lo stesso pezzo. C’è “Sport” che è un pezzo trap con i crismi e le punchline, ma ce n’è uno solo. E questo vale anche per gli altri pezzi, per non annoiare e dare più sfumature, così ho virato la mia scrittura finalizzandola maggiormente al progetto. “G.O.A.T.”, ad esempio, è molto semplice a livello di testo perché ho curato più la melodia e il feeling generale della traccia. Ho prestato più attenzione all’aspetto comunicativo, anche perché i tecnicismi li ho già fatti. Ho fatto “Status” che penso sia il disco con più incastri e più rime nella storia del rap italiano. Solo in “Vendetta” ci sono più rime che in un album intero di un rapper medio qualunque. “Status” era quasi barocco, con pezzi lunghissimi e transizioni. A risentirlo oggi, a me risulta più freddo in quanto meno umano, “Persona” invece è una liberazione perché non dovevo dimostrare nulla a nessuno».

La conversazione è ormai diventata uno stream of consciousness e per questo si chiude parlando di scrittura e composizione, due arti che spesso e volentieri si associano e si allontanano dallo stream of consciousness in base a tanti elementi, come l’ispirazione, il bisogno, i dubbi, la rabbia e la voglia. Scrittura passata, scrittura presente, scrittura futura. «I pezzi più difficili da scrivere nel disco sono stati senza dubbio quelli più semplici, tipo “Da Buttare”. È un controsenso ma, in alcuni casi, avevo proprio un’esigenza di tirare fuori quello che volevo dire, tipo in “Crudelia” che è stato uno dei primi testi che ho scritto. Sono usciti come sangue dalle ferite. Al contrario, è stato difficile fare il figo perché non mi ci sentivo in quel momento. Appena uscito il disco invece ho fatto “64 Bars” in cui mi ci sono messo a cuor leggero ed è uscita una sboronata totale, d’altronde avevo già fatto grandi numeri, quindi stavolta mi sentivo un figo per davvero».

«Questo disco ha cambiato tutto perché mi ha fatto capire che non servono cliché. Nella roba nuova che sto facendo ho questa consapevolezza e sono a briglia sciolta». In che senso? Il Marracash che di solito prende pause di anni prima di tornare in studio sta già facendo roba nuova? «Esatto. Sono tornato in studio perché “Persona” mi ha dato la sicurezza di poter fare il cazzo che voglio, senza la minima pressione. Sto lavorando sempre con Marz, con cui mi trovo benissimo, dato che io non sono un rapper che arriva, gli dai la base e rappa. Spesso porto io un’idea iniziale e ci lavoriamo assieme. Come prendere i sample de I Corvi, Black Savage o Ambra, sono idee mie a cui abbiamo messo mano in due. A proposito di sample, nel lockdown ho ascoltato tanta musica vecchia. La musica, come l’arte in generale, trovo sia un continuo rimando ad altre cose. Trovo molta ispirazione nella musica vecchia che sento di solito, di ogni genere. Non vado mai alla ricerca mirata di sample ma a volte capita che trovi una cosa che ti colpisce, la analizzi, e capisci quanto possa essere attuale. Per questo sono tornato subito in studio. Sto scrivendo e registrando con l’obiettivo di far uscire qualcosa di nuovo. Sicuramente uscirà qualcosa nel 2021. Un EP? Un album? È presto per dirlo, ma di sicuro ci sarà un progetto di Marracash».

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Production
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Photo
Francesca Di Fazio
Videomaker
Andrea Schiavini
Light assistant
Michael James Daniele
Make-up and hair
Gaia Dellaquila
Stylist
Giuditta Goffredo; Flaminia Mineo
Type Design
Sara Lavazza